Motori
10 Settembre 2023

Ronnie Peterson, pilota selvaggio

Ritratto di una leggenda, dagli occhi di Pino Allievi ai nostri.

Quarantacinque anni fa, in una notte milanese di fine estate, moriva Ronnie Peterson. Veloce quanto sfortunato, zeru tituli e dieci vittorie in otto stagioni di Formula Uno fra il 70 e il 78. Pochi trionfi, ma memorabili. Velocissimo fra i velocissimi. Il più spericolato in anni in cui il triste mietitore era sempre dietro l’abitacolo.

Fra gli ultimi esponenti di una Formula Uno romantica, per certi versi selvaggia, quella del piede giù a tutti i costi, a scapito anche dell’obiettivo finale ma sempre con cavalleresca correttezza. Un’idea di automobilismo sopravvissuta soltanto dopo nell’animo di alcuni pazzi, qualcuno li definirebbe stupidi, come Mansell e Villeneuve. Cultori del limite, dell’eccesso in pista, che dal Biondo hanno preso a piene mani e che come lui hanno raccolto molto meno di quanto meritato. Infine un tragico destino legato a Monza: fra le mirabolanti vittorie e il triste epilogo.


PETERSON, IL FIGLIO DEL FORNAIO


Peterson nasce il giorno di San Valentino ad Almby, quartiere della cittadina di Orebro, nel sud della Svezia qualche centinaio di chilometri ad ovest da Stoccolma. Si dimostra fenomenale già sui kart, in un’epoca in cui correrci non era frequente come oggi. Figlio di un panettiere, Ronnie si impelagò in numerosi lavori di fortuna prima di approdare intorno ai 23 anni in Formula 3, dove vinse il titolo per due anni consecutivi strappando l’occasione per un contratto in F1.

Ombroso, algido, casto, lontano dai Regazzoni, dagli Hunt, i piloti gentleman tutti sorrisi e champagne. Insolitamente alto rispetto ai suoi colleghi, i capelli lunghi come da moda dell’epoca e di un biondo accecante, Peterson sembrava un alieno atterrato sul pianeta della Formula Uno.

“Era un po’ astratto rispetto agli altri, sembrava che arrivasse da un altro pianeta. Non parlava con molta gente, non era molto simpatico, era uno che non amava i rapporti con la stampa. Era impenetrabile, nessuno lo conosceva da vicino”. Ci racconta Pino Allievi, storica firma motoristica della Gazzetta, in una telefonata. A testimonianza dell’allergia del Biondo verso i media ci parla poi di un tentativo di intervistarlo e del suo grottesco epilogo:

“Sia Ronnie che sua moglie erano molto amici del Conte Zanon, un mecenate delle corse all’epoca. Io avevo tentato mille volte di intervistarlo, lui manco mi rispondeva, perciò siccome non riuscivo a parlargli a un certo punto Zanon, di cui anche io ero amico, mi disse: ‘Vieni con me, vedrai che farai una bella intervista’. Andò da Peterson e gli disse: ‘Ronnie guarda che Pino, un mio caro amico, deve farti qualche domanda’. Lui accettò, allora tirai fuori il registratore, feci due domande e appena Zanon si allontanò lui mi mollò lì senza dire nulla. Questo era Peterson”.



L’esordio nel 70 a Monaco, poi i due periodi in Lotus intervallati da un biennio difficile a bordo di monoposto mediocri: una Tyrrel e una March, su cui riuscì nonostante tutto a raccogliere un epico trionfo a Monza. A Monza con una March, non certo una passeggiata. Ma sono i due momenti in Lotus a dar forma al mito del SuperSwede. Il primo nel 73, con la prima vittoria al Paul Ricard, la memorabile rimonta nel Principato e altri cinque trionfi in tre anni. Il secondo nel 78, a bordo di quell’iconica astronave nera e oro su cui troverà la morte a fine stagione. Sembrava poter essere l’anno buono: macchina veloce, Peterson in gran forma, solo un inconveniente: un contratto da seconda guida e Mario Andretti nel box di fianco.

“Andretti mi ha sempre parlato benissimo di Ronnie come persona. Mario mi ha detto che è sempre stato molto leale, molto corretto. In effetti lui aveva un contratto da seconda guida e l’ha effettivamente fatto, è sempre stato ai patti di squadra. L’accordo era che il primo mondiale lo vincesse Andretti e poi lo avrebbe vinto Ronnie. Non ce l’ha fatta.”

Pino Allevi


FASTER


“Faster than a bullet from a gun, he is faster than everyone. Quicker than the blinking of an eye, like a flash you could miss him going by”. Come i cavalieri romantici hanno ispirato gli chansoniers, anche le gesta di Peterson hanno ispirato George Harrison per la sua Faster. L’ex Beatles ha trasformato lo svedese nel pilota per eccellenza, “più veloce di un proiettile” nonostante “nessuno sapesse come facesse”. Peterson non aveva il fisico adatto ad un pilota, non era nato in un paese dalla grande tradizione motoristica ed era totalmente ignorante come collaudatore, in Lotus avrebbero giurato che non sapesse distinguere sovrasterzo e sottosterzo. Nonostante questo fosse veloce, secondo alcuni il più veloce della sua generazione, del suo stile di guida Allievi ci racconta:

“Guidava da Dio: grandi staccate, frenate al limite, sorpassi, andava forte sul bagnato, era uno che appena prendeva una macchina la portava subito al limite. Non era un genio nella messa a punto, quello era Andretti. Ma i due si completavano molto bene. Lui era uno molto istintivo nella guida, poco ragionata, ma con un controllo di macchina alla Villeneuve.”

peterson
Peterson al Gran Premio di Bretagna nel 1978

Un approccio all’automobilismo naif, spontaneo, senza fronzoli e senza sovrastrutture mentali legate al Mondiale, alla gara o alle condizioni della macchina e del tracciato. Correre contro gli altri, contro sé stessi, contro gli stessi limiti meccanici dell’automobile. Correre per il gusto e l’adrenalina di farlo, per andare più forte degli avversari fino al traguardo o fino al muro. Correre perché si è piloti per natura. Il tutto sempre in un ambito di rispetto e lealtà da vero signore, e a tal proposito in merito ad un paragone con il primissimo Verstappen Pino Allievi ci dice: Il primo Verstappen era aggressivo e scorretto, Peterson invece è sempre rimasto aggressivo ma con correttezza, con Peterson a fianco ti potevi fidare”.


LA FINE


Tutte le strade portano a Monza per il Biondo. Peterson è tutt’oggi il quarto pilota più vincente sul circuito brianzolo dietro Schumacher, Hamilton e Piquet, nonché uno dei tre ad averci perso la vita. Monza un circuito, specie nella vecchia configurazione, netto, tagliente, senza fronzoli proprio come Peterson, non poteva che essere per lui croce e delizia. Una carambola in partenza, di cui fu a lungo ingiustamente incolpato Riccardo Patrese, la causa del botto che portò lo scandinavo in ospedale. Ma, beffa del destino per uno già pronto a fare dell’abitacolo la sua tomba, non fu l’incidente in sé a cagionarne la morte bensì delle complicanze dovute a cure probabilmente sbagliate.

“Lui è morto della morte più assurda della Terra. Andretti il giorno dopo disse: ‘Non ho mai visto nessuno morire per una frattura alla gamba’. Alla fine lui non è che avesse gradi traumi, aveva solo una gamba rotta, da lì poi è partito l’embolo, che è una cosa che può succedere e che andava controllata con farmaci ed altro. Non si è mai capito.

Tutti: Andretti, Chapman, ecc. andarono in ospedale e vennero tranquillizzati dal fatto che avesse solo una gamba rotta, poi nel mezzo della notte telefonarono a Chapman e gli dissero che era morto. Lì ci fu lo sgomento da parte di tutti. Paradossalmente era in pericolo di vita Brambilla (altro pilota coinvolto nell’incedente) con il trauma cranico, si temeva più per lui che per Peterson”.

L’incidente costato la vita a Peterson

Una situazione poco chiara, sicuramente gestita male sin dalle prime fasi dopo l’incidente, Allievi infatti continua raccontando i concitati momenti alla prima variante subito dopo il botto:

“Arrivai lì mentre lo stavano portando via. Il vero casino fu il casco, mentre tutti avevano i caschi belli con la cinghietta che si allaccia sotto, lui ne aveva uno francese, il GPA, che aveva un bottone con il quale si apriva la mentoniera sotto. Un meccanismo semplice che però i commissari non conoscevano. Lui perciò era semi-svenuto e c’era il problema della respirazione essendo ‘intrappolato’ nel casco. Fortunatamente un mio collega, Giorgio Piola, conosceva bene quel casco, andò lì schiacciò il pulsante e riuscì a liberarlo. Non gli salvò la vita, ma in quella situazione fu un sollievo”.

Sulla sua pista Peterson lasciò un vuoto, incolmabile per la Formula Uno che dopo di lui di piloti così ne ha visti pochi, incolmabile soprattutto per sua moglie Barbro, morta suicida nove anni dopo l’incidente. Poche vittorie ma la stima di tutti, partendo da Gilles che in pista è stato quello più simile a lui per attitudine e stile di guida, proseguendo per il nostro Michele Alboreto che del giallo e del blu della bandiera svedese tinse il suo casco, finendo con Marcus Ericsson, suo connazionale, che a Monaco 2014 lo omaggiò con un casco dedicato alla vittoria nel Principato del 74. In Formula 1 ci sono stati 34 piloti campioni del mondo a fronte di migliaia di piloti sconfitti. Ma in fondo quanto conta realmente un Mondiale? In fondo cosa importa vincere se uno sconfitto come Peterson ha lasciato tutto questo? Peterson, signori, selvaggio e immortale.

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