Calcio
08 Giugno 2019

Rosario. Del calcio figlia, del sangue madre

Vivere il calcio a Rosario, capitale del pallone, appesa al filo dell'abisso.

“Y los libres del mundo responden: al gran pueblo argentino salud!”. Il ritornello dell’inno nazionale argentino, realizzato in piena guerra d’indipendenza, è un riferimento a chi quel conflitto l’ha avviato, condotto e infine, eroicamente, vinto. Sull’onda della rivoluzione di maggio, il Generale Manuel Belgrano, condottiero e al contempo illustre economista, nel 1812 decide di lanciare un chiaro messaggio ai nemici coronati iberici, creando l’attuale bandiera albiceleste a guerra in corso. Ancora oggi, non si conosce l’origine dei colori tradizionali, ma leggenda vuole che Belgrano abbia scelto il sole da porre al centro per simboleggiare la libertà dei popoli, ispirato da una sorta di visione paesaggistica.

 

Nelle diversificazioni del mito, la certezza è il luogo dove il comandante ha avvertito questa sensazione, ossia sulle sponde dello sconfinato fiume Paranà, il quale costeggia la città di Rosario. E’ proprio lì che, un secolo più tardi, verrà eretto il monumento dedicato alla bandiera nazionale, mastodontico nel dominare retoricamente l’intera città. Ai tempi, Rosario era un importante crocevia fluviale, dalla precocissima crescita economica, ragion per cui sarebbe stato impensabile che, col senno di poi, il dominio di qualcosa o di qualcuno sarebbe potuto solamente essere retorico.

 

Il generale Manuel Belgrano con la bandiera argentina (dipinto di Rafael del Villar)

 

L’Argentina ha perso il carattere sudamericano, in parte europeizzata dopo i grandi flussi migratori provenienti dal Vecchio Continente, Italia in primis. Eppure, nel bene e nel male, Rosario ha sempre reagito in maniera opposta al flusso nazionale, chiudendosi nel suo orgoglio e nelle sue difficoltà, rimanendo intatta l’incolmabile frattura che la accompagnerà in eterno. Gli argentini, nelle loro rivalità, sanno essere sanguinari; ma non c’è alcun caso in tutto il Paese di una sola metropoli perfettamente divisa in cui la vera anima del Clàsico cittadino ha regalato miti, racconti e personaggi. In realtà, a differenza di altre compagini locali, entrambe le squadre rosarine devono la loro fondazione ai britannici, nella fattispecie alla grande industria ferroviaria inglese da un lato, mentre dall’altro al dottor Isaac Newell.

 

Dagli albori del ventesimo secolo, però, ci si riconoscerà unicamente in Canayas e Leprosos, Rosario Central e Newell’s Old Boys. Le due fazioni, dapprima, si riverseranno quasi omogeneamente in due zone distinte di Rosario, con i rossoneri nell’umile parte sud e i gialloblu all’estremità settentrionale, dove vive e tifa anche un giovane Che Guevara. La vera linea distintiva tra Central e Newell’s è tracciabile proprio da quest’ottica, quella di icone emblematiche per i club, al di là della sfera sportiva. Il Rosario Central ha sempre goduto di una cospicua tradizione culturale, dal Che stesso passando per il comico Alberto Olmedo, fino all’indimenticabile Roberto Fontanarrosa. Questa sorta di sfondo rispettabile ha arricchito, soprattutto economicamente, il Central nel corso della sua storia, portandolo persino sotto l’ala protettiva della giunta militare.

 

Un murales dei tifosi del Rosario dedicato al Che

 

L’influenza di Videla, e l’attivo collaborazionismo delle Canayas nella farsa del mondiale ’78, ha inasprito senza dubbio la rivalità, con un evento fondamentale alla comprensione della complicità del Central. Se, anche adesso, l’unico stadio rosarino modernizzato è il Gigante de Arroyito, il motivo è celato dietro la data 21 giugno 1978. Di chi fosse la colpa della kermesse assegnata all’Argentina non si sa, sicura invece è la strumentalizzazione perpetrata dal colonnello Jorge Videla del campionato del mondo, disputatosi in concomitanza con le torture della ESMA e dei “voli della morte” dei desaparecidos.

 

Il rifiuto di Johan Cruyff alla convocazione per motivi politici aveva fatto presagire un epilogo già scritto, manifesto nel controverso Argentina 6-0 Perù, gara giocata proprio allo stadio Lisandro De La Torre. Se Quiroga, portiere peruviano ma di origine argentina, riesce a subire 6 reti, risultato esatto utile al passaggio dell’Argentina, peraltro con una formidabile formazione attorno, l’intuizione diventa semplice. La prima stella conquistata dalla Selecciòn vedrà come protagonista Mario Kempes, simbolo del Rosario Central.

 

1981 (Photo by Allsport/Getty Images)

 

Lo sviluppo di una determinata porzione cittadina ha inevitabilmente decretato il decadimento della capo meridionale, in cui alberga il cuore leproso. Da quelle parti comanda la grinta, la passione, l’attaccamento viscerale al barrio. La risposta del Newell’s ai dotti cugini è un calciatore più caparbio che tecnico, dalla leadership innata, e lo dimostrerà. Di frasi iconiche, a Rosario, ce ne sono a bizzeffe, nessuna equiparabile al “Vamos Newell’s, carajo” pronunciato da Marcelo El Loco Bielsa. Abbiamo imparato a conoscerlo per i suoi metodi conservatori, spesso criticati, amatissimi, ovviamente, dalla Hinchada Màs Popular Del Mundo. I tre titoli nazionali conquistati da Bielsa sono fra i pochi successi del CANOB, al quale lui ha dedicato la vita, fungendo da guru per chi ne sta seguendo le orme, Mauricio Pochettino.

 

Accostare nomi importanti al Newell’s non è un caso, poiché la società ha costruito le proprie fortune lanciando fenomeni. Martino, Balbo, Valdano, Sensini, Batistuta, Heinze, Maxi Rodriguez hanno dimostrato la caratura formativa della polisportiva, purtroppo per loro solamente il Tata e Bielsa hanno avuto il giusto riconoscimento al valore. Secondo ogni leproso, il miglior giocatore passato dal Parque di presenze ne ha raccolte appena 5, è Diego Armando Maradona, il cui nome campeggia su una tribuna dello stadio Marcelo Bielsa. Nelle nette differenze, è accomunante la romantica devozione che ambo le parti dedicano a mistiche figure, un modesto calciatore e un’anziana signora, venerabili solamente in Argentina.

 

La bandiera di Marcelo Bielsa capeggia tra i tifosi del NOB

 

Aldo Pedro Poy ha vestito la maglia del Central durante l’intera carriera, realizzando, nell’indifferenza generale, qualche goal, sino al ’71. Un tuffo di testa che viene ricordato nelle sue fattezze artistiche, come una divina provvidenza denominata palomita che invita il baffuto attaccante a siglare la rete decisiva in un Clàsico, e quindi ai fini del titolo. Da quel momento, difficoltà fisiche permettendo, viene celebrato l’anniversario del gesto tecnico, dove Poy emula ormai goffamente, dinanzi a una folla gremita, la storica marcatura. Basti pensare che, sceso in politica, è stato recentemente eletto deputato.

 

La divinità leprosa le partite ha sempre preferito guardarle, tutte. Ai fatti, la Vieja Amelia non si sarebbe persa neanche una sfida in oltre mezzo secolo, seguendo i propri beniamini anche in trasferta, nonostante la veneranda età. Per omaggiare la tifosa ultra novantenne, è stato costruito un settore in suo onore, pur non avendo difatti mai calciato un pallone. Il tracollo urbano e sociale di Rosario ha tristemente velocizzato la fugacità di aneddoti romantici passati oramai in secondo piano, sostituiti da un far west notato troppo tardi. I governi Kirchner, amati e odiati al contempo, hanno tentato di portare lo Stato a livello del diretto competitor brasiliano, con avveniristiche iniziative come il satellite nazionale.

 

Amelia e Maxi Rodriguez

 

La crisi che ha colpito il Paese nel 2001 ha poi costretto il governo a tagli acrobatici, lasciando dunque l’Argentina orfana del suddetto macchinario, cioè senza un GPS satellitare, assist gratuito ai narcotrafficanti. Geograficamente, a Rosario confluiscono le principali arterie stradali, percorribili in tranquillità per i delinquenti che trasportano cocaina dal resto del continente. La droga ha invaso le strade, appoggiata da una situazione economica che discosta la carta straccia dal pesos unicamente per la colorazione. L’ascesa di idoli da una parte e dell’altra quali Messi e Di Maria ha funto da ancora salvifica per una generazione fragile, che è riuscita ad aggrapparsi al fùtbol fin quando pure La Pulga ed El Fideo non hanno preso le note direzioni.

 

La seconda metà del Terzo Millennio ha consegnato Rosario nelle mani di un criminoso triumvirato simile a un iceberg, una sommità regolare che nasconde qualsivoglia illecito. Garante di quest’apparente legalità è un certo Christian Bragarnik, procuratore e influente personaggio calcistico che gestirebbe gran parte del panorama pallonaro argentino. 15 allenatori e oltre 100 calciatori, tra cui Coudet, Almiròn, Zarate e Marcone, sono rappresentati ufficialmente da lui. Il suo nome è salito alla ribalta dopo il passaggio di Mauricio Macri dalla direzione del Boca Juniors alla Casa Rosada, aprendo un vaso di Pandora che include interessi dei cartelli messicani nelle sorti della Superliga.

 

Nuovi e importanti arresti sono arrivati ad aprile 2018

 

Nell’ombra agiscono Los Monos, anonima banda a capo del traffico di stupefacenti, e da poco addirittura delle barras bravas. I tridenti offensivi hanno lasciato spazio a quelli malavitosi, uno su tutti sta distruggendo l’anima calcistica di Rosario, al punto da trasformare gli intoccabili Clàsicos in sparatorie mafiose. Le misure restrittive adottate dalle autorità hanno fatto collassare le attività delittuose all’interno delle curve, riempiendo le populares di giovani tossici disposti a sostenere la squadra in cambio di dosi.

 

Gli insuccessi di Newell’s Old Boys e Rosario Centrali hanno accresciuto la potenza di Buenos Aires, facendo di Rosario una succursale mal pubblicizzata e al centro dei pregiudizi. L’indomabile città è lo specchio di un’Argentina sull’orlo del baratro, ma per fortuna anche di un popolo, ora come non mai, legato indissolubilmente alla sua tradizionale calcistica. Nel 1888 Rosario ha dato natali al calcio argentino, e ne difenderà sempre l’autentica tradizione.

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