Nemmeno il prime time del sabato sera ha salvato gli azzurri della palla ovale dall’ennesimo risultato imbarazzante. Una partita senza storia e senza senso, in cui una Francia imbottita di esordienti ha steso senza appello un’Italia sempre più spenta. Ecco cosa siamo diventati: un test per sondare il livello dei ricambi, un lento romantico sui cui far muovere i primi passi al ballo delle debuttanti. E ormai francamente conta anche poco la portata degli incontri, che siano test match o novelle competizioni come questa Autumn Cup.
Qualsiasi partita è diventata fondamentale, quantomeno per invocare tabellini diversi, cosa che puntualmente non accade. I numeri dell’ItalRugby sono impietosi. Il 6 Nazioni, interrotto a marzo e ripreso a ottobre per il Covid, ci ha visto collezionare la ventisettesima (27!) sconfitta consecutiva, e il quinto ‘Whitewash’ di fila. Per i meno familiari con la palla ovale, basti pensare che a confronto il famigerato Cucchiaio di legno, assegnato all’ultimo classificato nella storica competizione, è riconoscimento ben più nobile.
L’indegno ‘Whitewash’ spetta solo alle squadre in grado di perdere tutte le partite del Sei Nazioni, come a dire che è da cinque anni che non vinciamo una partita del torneo. A fronte di un fallimento sportivo tanto evidente, sulle cui ragioni molto ci sarebbe da scrivere, si oppone una strenua retorica comune, che invece di criticare aspramente la gestione della FIR, in grado di sperperare il successo mediatico del rugby di una decina di anni fa, continua nel canto di uno sport immacolato.
Un simulacro studiato a tavolino, in cui il rugby diventa depositario di un carattere distintivo del tutto peculiare, in grado persino di oscurare il fallimento di un movimento immobile che continua a prosperare solo nelle sparute culle di questo sport. Padova, Rovigo, Treviso, e diverse altre realtà nella roccaforte Veneto; poi Calvisano e Viadana a completare l’area nord, L’Aquila e qualche nicchia romana a coprire il centro della penisola. Poco altro.
Eppure, non si può certo dire che il rugby non abbia avuto il suo momento.
Sono passati poco più di 10 anni da quando San Siro, Scala del calcio, ha accolto la marea nera degli All Blacks, registrando un sold-out record per il movimento, con l’inno di Mameli cantato da 80.000 persone, per una volta più scenico persino della stessa Haka. Anche il Flaminio dal 2011 è diventato impianto obsoleto per i crescenti numeri del rugby: allora porte aperte allo Stadio Olimpico, con buona pace anche di Roma e Lazio, costrette a convivere con i crateri provocati dalle spinte energiche dei tallonatori in mischia a cavallo del 6 Nazioni.
Pubblico numeroso e contratti televisivi ghiotti, prima con La7, Sky e poi Discovery Channel (tramite l’emittente DMAX), non sono bastati ad armare il braccio della FIR per accrescere il numero degli iscritti e migliorare la qualità del movimento.
A 20 anni esatti dalla prima partecipazione al 6 Nazioni, è tempo di bilanci. Se ci guardiamo indietro, da quelle prime edizioni conquistate grazie al talento cristallino di Diego Dominguez, il primo decennio è stato all’insegna della progressiva crescita, culminata con la generazione Parisse che ci ha fatto appassionare e assaporare un finale diverso. Ora, al contrario, non solo la crescita si è arrestata, ma sembrano essere stati fatti enormi passi indietro.
Non pare nemmeno troppo azzardato chiedersi se meritiamo ancora di essere nel gotha del rugby europeo, come oltremanica stanno facendo già da un po’. E la risposta purtroppo è che pare sia troppo piacevole la trasferta di Roma per rinunciarvi, troppo appetibile per le televisioni. Volete mettere con Bucarest o Tblisi? Non scherziamo. Questo siamo diventati: una primavera romana, dove mettere in valigia oltre alle scarpe bullonate una macchina fotografica e un paio di occhiali da sole.
E mentre la nostra nazionale naufraga sotto guide tecniche ora francesi ora sudafricane, la stampa tradizionale insiste a proporre una retorica ridondante e stucchevole, calibrata attentamente in modo propositivo e ottimistico.
Proprio in Italia, nel Paese della critica insolente, della polemica sempre ardente, verso il rugby c’è un ritornello stonato che suona sempre lo stesso refrain. Ci si appella a segnali di crescita, sconfitte onorevoli, ottime figure. Termini che francamente configurano ossimori non solo dialettici, ma persino ideologici.
È chiara la consapevolezza che la nobiltà del rugby rappresenti un’élite in cui la mobilità di classe è una scalata quasi improba. Il gap tra le grandi tradizionali e le altre è incolmabile, eppure gli esempi di Francia – da Cenerentola del 5 Nazioni a realtà di eccellenza a livello internazionale – e Argentina – recentemente carnefice niente meno che della Nuova Zelanda – ci devono convincere che il modo di migliorare c’è.
Anche la critica in questo può e deve essere parte del cambiamento. Non lanciando segnali positivi aprioristici, ma analizzando lucidamente le partite e la salute del movimento, liberandosi dal fardello della celebrazione e aprendo la strada a un lucido realismo. Anche perché di questo passo non solo sarà più difficile edulcorare le sconfitte, ma potrebbero non esserci più nemmeno partite degne di essere commentate.