Quattro finaliste su quattro segnano una tirannia. Perché il successo non va ricercato in bilanci e diritti TV: il beatissimus annus inglese e un po' di appunti per l'Italia.
Il calcio è molto peggio della politica, tutto può essere usato per smentire quello che è stato detto subito prima o subito dopo.
Jack O’Malley
La cabala era distratta quando Eden Hazard ha calciato un pallone teso alla destra di Trapp e ha diplomato il Chelsea di Maurizio Sarri finalista di Europa League. Arrivati alla lotteria dei rigori numerologi e storiografi avrebbero scommesso contro il poker inglese: en plein nelle coppe europee è un segno d’ingordigia cui non si era mai spinto nessun movimento calcistico del Vecchio Continente, e quindi i blues, alla fine, non ce l’avrebbero fatta.
Al contrario l’arcilodato ‘movimento inglese’ nell’anno in cui era meno atteso è riuscito nell’incredibile fatica di portare quattro finaliste nelle coppe continentali permettendosi finanche l’ironico lusso di lasciare esclusa l’attuale prima in classifica, il City del sapientone Guardiola. Wilde aveva compreso che l’arroganza è un tratto congenito degli inglesi, sebbene gli inglesi nelle squadre inglesi son rari.
Eden Hazard nella semifinale di giovedì sera contro i tedeschi dell’Eintracht (Photo by Catherine Ivill/Getty Images)
Tenute fuori le battutine sulla Brexit per il mercato semplice – che ridere signori – un’analisi dignitosa di questo successo deve prendere le mosse da dati incontrovertibili: un tedesco, un francese, un argentino ed un italiano in panchina, pochi gli inglesi in campo, ancora meno i wasp, rara l’inglesità nel gioco. Come se le fortune di Atene e Firenze le abbiano sempre segnate solo e soltanto i locali. Le sterline che irrorano le casse dei club attraggono i migliori giocatori al mondo, sì certo, poi c’è il gegenpressing, la rivoluzione sarrista, il calcio verticale di Emery e il delfino di Bielsa, i campioni e gli sponsor, il branding e le TV. Programmazione finanziaria, dirigenti competenti, capitali infiniti e una platea mondiale di un miliardo di appassionati.
C’è tutto questo in Premier League e tanto altro ancora, non si può negare. Pianificare maniacalmente anche ogni piccolo dettaglio – il genio di Alexander-Arnold lo insegna –, costruire un’identità di gioco posizionale e geometrico, disporre di un infinito patrimonio tecnico eccetera eccetera. Tutto questo non può spiegare né quello che è accaduto in queste edizioni di coppe continentali né tantomeno l’autentico spettacolo che va in scena ogni fine settimana negli stadi d’Oltremanica.
Impossibile, dunque certo. (Photo by Shaun Botterill/Getty Images)
Un amico notava “in Inghilterra ci si passa la palla di collo“, notiamo noi che, complici i perfidi tecnici del suono, in Inghilterra persino un appoggio di palla ‘fa rumore’, quasi a tenere il battito di un ritmo insostenibile da mantenere nei lidi continentali. Questo è il trucco che ha generato questa nuova epoca vittoriana: una spasmodica intensità fisica portata all’esasperazione per cento minuti a partita. La superiorità del Gioco, si diceva su queste pagine due giorni fa, senza ricorrere agli accademismi del prof. Adani e all’ingegneria tattica dei vari santoni general manager dei club finalisti. La sfrontatezza dei lancieri, il Dna olandese clonato in Catalogna, soccombono davanti l’irrazionalità agonistica delle squadre di Premier, vittime della nevrastenia atletica di un calcio in cui è proibito rilassarsi.
Vero è che i teoremi degli allenatori hanno un peso specifico enorme ma farebbero poca strada in un campionato furbastro e politico come la Serie A, ove si sublimano al contrario in un contesto dove il filone tattico può saltare, e spesso salta, se in palio c’è la vittoria. Una agevole equazione potrebbe suggerire che è compiuto il processo di NBAizzazione della Premier: spettacolo continuo per tifosi-consumatori in balia dell’evento sportivo incerto fino alla fine, fiumi di pinte nei pub di tutta la nazione, merchandising e portafogli svuotati. Condivisibile, ma la realtà pare più complessa.
Euforia Spurs! (Photo by Dan Mullan/Getty Images )
Scrive O’Malley oggi sul Foglio “La verità è che il calcio è l’unico sport più incerto di un exit poll, e che in tutti i dribbling di Messi c’è appena una scintilla dell’imprevedibilità che potete trovare in un’azione di una qualsiasi delle partite di calcio giocate ogni giorno in giro per il mondo. Così la suola di un difensore dell’Ajax che devia il tiro di Moura al 96′ rendendolo imparabile per il proprio portiere manda in fumo settimane di schemi, analisi dei dati e convinzioni mainstream secondo cui chi-gioca-così-non-può-non-andare-in-finale“, e non possiamo che concordare su tutta linea.
E allora al bando sentimentalismi e retoriche da mercato della frutta e viva il calcio, quello vero, e il gioco, quello giocato: ventidue uomini, due porte, una palla. La straordinaria unicità del calcio inglese non è data dalla sua identità di gioco – poverissima se la si vede da una prospettiva latina – o dall’unica capacità di aver tirato su questo circo di entertainment senza sosta alcuna. All’Inghilterra dobbiamo invidiare solo e soltanto l’audacia di giocare a calcio nel modo più semplice e puro che esista e di rispettare gli appassionati per cento minuti a partita, onorando ogni penny speso, da quando esiste il football, e non dalla gloriosa serata di giovedì.
Anche i Gunners si fanno grandi. (Photo by Alex Caparros/Getty Images)
Football came home e che ci piaccia o meno il paragone con il calcio nostrano è impietoso: la Serie A è impaludata da anni, uccisa da presidentissimi poco capitalisti e tanto affaristi, arbitri mitomani e stadi-carcere, il tutto amministrato da un management inquietante. Risultato è un grande imbarazzo per un campionato che, fatta eccezione per l’Atalanta che spicca in questa mediocrità, è più utile da sedativo che da intrattenimento.
Una noia mortifera ogni fine settimana, azioni che vengono interrotte ogni 70 secondi da arbitri affetti da manie di protagonismo, folli regolamenti che premiano, sic!, chi retrocede, bilanci circensi, procuratori camorristi e tatticismi esacerbati. Viva i banner multimediali al posto delle pezze, ahimè che orrore, e gli stadi per sole famiglie se lo spettacolo garantito è il seguente. Il campionato inglese è il più bello del mondo perché si gioca tanto a calcio e se ne parla poco, non il contrario. Mourinho disse “La decisione di venire in Italia è stata mia, ma pensavo che l’Italia avesse più passione per il calcio e meno per tutto quello che c’è intorno“, difficile dargli torto.