Calcio
12 Giugno 2021

Russia, il tifo al di là della cortina

Un viaggio negli stadi (e per le strade) di Madre Russia.

Nemmeno il tempo di sistemare il portapenne sulla scrivania dello studio ovale della Casa Bianca che il neopresidente Biden decideva di riportare il mondo a quarant’anni fa: la definizione di “assassino” affibbiata a Vladimir Putin faceva precipitare i rapporti tra le due potenze, e sull’Occidente riprendevano a soffiare venti di Guerra Fredda. Per tutta riposta, a metà dello scorso aprile la Russia raccoglieva circa 100 mila uomini ai confini con l’Ucraina, minacciando un’invasione dell’estremo lembo di terra europea. Successivamente, sulla scia del caso Navalny, continuavano le accuse più o meno velate tra le parti, fino ad arrivare al divieto di entrare nel paese per il presidente del Parlamento Europeo, Sassoli. Risultato: recrudescenza dei rapporti tra i due rinnovati blocchi e riallineamento dell’asse atlantico USA-UE.

Secondo alcuni giornalisti ed osservatori, una prova generale di queste manovre “muscolari” da parte russa si sarebbe manifestata già in occasione di Euro 2016, coerentemente alla tradizionale concezione del calcio come strumento di potere, più o meno “soft”.

Nelle strade attorno al porto vecchio di Marsiglia, circa due centurie di russi affrontavano la fanteria alcolica della Regina Elisabetta II avendone la meglio. Mentre l’opinione pubblica inglese beveva fiumi d’inchiostro dedicato a questi mostri post-sovietici, la stampa e la politica russa osservano sornione le imprese dei loro connazionali, almeno fino alla condanna ufficiale da parte di Putin. Che i disordini siano stati parte di una trama ordita dal Cremlino, per dimostrare la prestanza della sua gioventù, appare intrigante ma forse difficile da dimostrare; senza dubbio i figli della Matuska Rossija si sono presentati agli occhi del mondo come il nuovo spauracchio degli organizzatori di tornei internazionali e, da allora, l’interesse verso la Okolofutbola, la cultura da stadio russa, è cresciuto esponenzialmente.



Prima di affrontare un’analisi della scena russa che, piuttosto che essere esaustiva, ambisce a restituire la complessità di un fenomeno e magari spingere ad un ulteriore approfondimento delle dinamiche esposte, bisogna distinguere tra tifo organizzato di matrice ultras ed hooliganismo; infatti, sebbene questi due termini siano spesso utilizzati come sinonimi, esiste un’originaria differenza almeno sul piano concettuale. Quindi quando in Russia si parla di Khuliganstvo si fa riferimento al teppismo giovanile, traducendo alla lettera “Hooligan” dall’inglese; nell’Inghilterra Vittoriana così si indicavano le bande di ragazzini del proletariato londinese, che turbavano le festività dell’upper class e cominciavano a riempire di toni allarmistici le colonne dei quotidiani; in particolare la dicitura deriverebbe dalla Hooley’s Gang, gruppo di giovani di sangue irlandese attivo nell’Est End.

Nella scelta del nome di battesimo per questo fenomeno giovanile da parte dei media, il riferimento agli stranieri non era affatto casuale, dato che non si poteva certo lasciar credere che tali comportamenti antisociali fossero di origine indigena. Una linea che segnerà la prospettiva dei mezzi d’informazione verso le sottoculture giovanili fino al giorno d’oggi. Allo stesso modo, nel secondo dopoguerra in Unione Sovietica il teppismo da strada è ricondotto a sentimenti antipatriottici, tanto da essere punito con la reclusione o la deportazione nei gulag per cinque anni; nel 1953 l’avvicendamento tra Iosif Stalin e Nikita Chruscev, la cosiddetta “destalinizzazione”, porta all’intensificarsi della repressione interna ed i numeri del vandalismo da strada lo rendono una categoria criminale di massa.

Per intenderci, nel suo “Limonov” (Adelphi, 2011), Emmanuel Carrère racconta che anche i seguaci del protagonista, i celebri Nazbol, sono condannati a due anni per il reato di Hooliganismo, in seguito agli scontri con i sostenitori di Putin all’inizio del Duemila.



Ecco che tale dicitura nasce come riferimento alle devianze dei giovani sulle strade, in un contesto ben diverso da quello sportivo, e soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale viene adottato dalla stampa per descrivere il teppismo da stadio. Con grande attenzione bisognerebbe usarlo per descrivere la tradizione ultras nostrana, che si caratterizza per le peculiari radici nell’antagonismo studentesco ed operaio di fine Anni Sessanta. Proprio queste dinamiche politiche avrebbero posto le basi per l’organizzazione collettiva del sostegno, autentica cifra distintiva della mentalità italiana.

Coevi ai gruppi ultras della Penisola, i primi nuclei di tifosi nascono quando l’impero sovietico è in crisi, sull’orlo del collasso politico-finanziario.

Il Primo Segretario del Partito Comunista è Breznev, che deve fronteggiare sia i dissidi interni alla Nomenklatura, sia la riorganizzazione dei movimenti di opposizione. In questo clima non è così sorprendente sapere che i pionieri della cultura da stadio d’Oltrecortina attirino presto le attenzioni del KGB. Portano la sciarpa biancorossa al collo, i jeans rattoppati, i capelli lunghi e si atteggiano “alla occidentale”: sono i primi tifosi che cominciano a seguire lo Spartak Mosca, la squadra del popolo, in trasferta. Sui quarant’anni, clandestinamente hanno conosciuto i Beatles e le gesta dei supporters d’Oltremanica; non ci vuole molto perché finiscano nel mirino delle autorità. Un sostegno così esuberante sugli spalti non è visto di buon occhio, è ritenuto addirittura antisovietico, tanto che i bolyelshciks (lett. i malati di calcio) sono accusati di collaborazionismo con la CIA.



Negli stadi della capitale il clima è decisamente pesante, e basta sfoggiare i colori sociali o lo stemma della squadra per essere allontanarsi dalle gradinate. La coltre di silenzio che scende sulla tragedia dello stadio Luzhniki dell’ottobre 1982, quando muoiono 66 tifosi dello Spartak Mosca, racconta perfettamente lo spirito del tempo; alle manifestazioni sportive l’ordine pubblico non può essere turbato in alcun modo.

Quindi è in trasferta che ci si diverte, dove la sorveglianza è meno opprimente: i capitolini sono sempre ricevuti da degni comitati d’accoglienza e nelle rivalità sportive rinverdiscono sentimenti campanilistici e tradizioni del folclore locale. Già negli anni ’50 il governo cercava di arginare la riscoperta del stenka na stenku (lett. muro contro muro), specie di scontri organizzati tra bande di quartiere, che traevano spunto dalle primitive forme di pugilato diffuse in Russia, Ucraina e Bielorussia durante il Medioevo; d’altronde i giovani che si presentavano pieni di lividi alla visita di leva creavano diversi imbarazzi ai graduati dell’Armata Rossa.

Negli anni ’80 le trasferte diventano regolari, così il fenomeno si diffonde in tutto il paese e nascono nuovi gruppi a Kiev e Leningrado (oggi Pietroburgo), mentre a Mosca i collettivi raccolgono fino a trecento effettivi.

Intanto, lungo il doppio binario Glanost’-Perestrojka, Gorbacev cerca di riformare l’URSS e si allentano le restrizioni verso i contatti con l’estero; complice anche la censura sulla tragedia del Heysel, ben presto l’influenza del tifo all’inglese diviene preponderante sui tifosi russi, così come la fascinazione per le gesta degli Hooligans al seguito della nazionale dei tre leoni. Nel 1987, una sortita dei tifosi dello Spartak in centro a Kiev porta allo scontro con i locali della Dinamo, scene simili a quelle che si verificano a Praga tre anni più tardi. I moscoviti biancorossi possono essere considerati i pionieri del tifo organizzato russo, poiché, seppur inizialmente all’insegna dello spontaneismo, sono stati la prima tifoseria a seguire la squadra in trasferta, anche nelle coppe europee.

tifo lotta Russia
Stampa che ritrae il stenka na stenku (sec. XVII-XVIII)

Nel 1991 l’Accordo di Belavezha sancisce lo scioglimento dell’ URSS, ed il calcio ormai post-sovietico conosce l’oblio fino alla metà del decennio: qui la rinascita parte nuovamente da Mosca, con lo stadio che diventa uno degli sfogatoi prediletti per le tensioni giovanili conseguenti alla dissoluzione del blocco comunista. Nel 1999 gli ospiti dello Spartak si scontrano con la polizia a Saturn Ramenskoye, tafferugli che portano alla prima sospensione di una partita. Nel frattempo sembra che anche la politica si sia accorta del potenziale delle tifoserie, in termini di presenza sulla strada e bacino elettorale. Negli stessi anni, i tifosi biancorossi ed i cugini della Dinamo Mosca sarebbero stati cooptati dalle forze dell’opposizione come unità di sicurezza privata; muscoli e voti in cambio di agevolazioni per viaggiare in trasferta con bus e treni, una storia già sentita.

Al centro di queste trame ci sarebbe stato Alexander Shprygin, esponente di spicco del seguito dei biancoazzurri moscoviti e vicino al Partito Liberal-Democratico di Russia, formazione che si ispira al populismo destrorso; descritto dai media (occidentali in primis) come amico di Vladimir Putin, nel 2007 fonda l’Union of Russian Fans sotto l’egida del FSB (Servizio federale per la sicurezza della Federazione russa). Insomma, un ruolo di primo piano nell’ambiente, che però non gli ha risparmiato l’arresto e l’espulsione dalla Francia in occasione dei disordini a Euro2016. Quando i media occidentali parlano di Putin è difficile capire dove finiscano i fatti e cominci l’iperbole; allo stesso modo bisogna usare cautela nel trattare i rapporti tra politica russa e tifo. Senza dubbio le dimostrazioni pubbliche di virilità da parte del Presidente della Federazione Russia possono fare presa sulla gioventù, così come allo stesso modo la prestanza ed il fideismo dei gruppi di tifosi possono essere strumentalizzati dal potere.



Sono vicende che ci riportano alla mente Renata Polverini sulla vetrata della Curva Nord laziale, oppure la recente sfilata di Matteo Salvini alla festa per i cinquant’anni della Curva Sud Milano; se vogliamo tutto il mondo è paese, dove le curve, da megafono di controcultura, possono diventare invece una potente cassa di risonanza propagandistica. Per tornare al caso russo, nel 2005 il “Nashi”, Movimento Giovanile Democratico Antifascista, raccoglieva circa 100 mila giovani tra i 17 ed i 25 anni, fungendo da sezione giovanile del partito Russia Unita; scioltosi nel 2013 avrebbe annoverato tra le sue fila numerosi esponenti dei Gladiators dello Spartak Mosca e dei Gallant Steeds del CSKA. Ancora, nel dicembre 2010 a Mosca, Egor Sviridov è ucciso a colpi di arma tra fuoco in uno scontro tra tifosi dello Spartak ed una banda del Caucaso del Nord, così in numerose città vanno in scena manifestazioni e disordini, che riaccendono le tensioni tra Slavi e Caucasici.

Nella capitale scendono in piazza oltre 5000 persone che si scontrano con la Militsiya e tra i protagonisti sembrano distinguersi i tifosi. Infatti il giovane era un esponente della Fratria dello Spartak, un collettivo che riunisce varie sigle del tifo dei biancorossi, e sarebbe stato affiancato da altre tifoserie moscovite nelle dimostrazioni di piazza; addirittura si sarebbe parlato di una sorta di trattativa tra il Cremlino e le tifoserie per riportare la pace sulle strade. Preferiamo usare il condizionale, perché da quaggiù non è certo facile ricostruire con certezza queste trame. Invece quel che è certo è che, dopo la campagna di Francia a Euro 2016, la repressione non ha risparmiato le curve russe. Il mondiale casalingo del 2018 è stato preceduto da un giro di vite ed una campagna di arresti preventivi degli elementi scomodi: la Russia doveva mostrare la sua efficienza al mondo, tutto doveva filare liscio e così è stato.



Soffermandoci sul rapporto tra società civile e curve, inscindibile a qualsiasi latitudine, altrettanto credibile è il coinvolgimento dei tifosi nel conflitto del Donbass al fianco delle milizie filorusse. Come riporta la rivista Limes, dall’altra parte del fronte i gruppi ultras ucraini, da Kiev a Donetsk, sono stati tra i principali protagonisti delle proteste antirusse ed hanno sposato la causa nazionalista; uno schema che segue il copione balcanico, dove il passo da sventolare una bandiera ad imbracciare un AK-47 è stato rapidissimo, favorito dal clima creato ad hoc da istituzioni e stampa. Come insegnano i fatti dell’Egitto e del Sudamerica, bisogna seguire con grande attenzione le dinamiche di curva che si sviluppano nei vari Paesi e le tifoserie dell’ex blocco sovietico non fanno certo eccezione. A proposito, è difficile classificare con i nostri schemi storici di sinistra e destra l’esposizione di simboli riconducibili al nazifascismo da parte di numerosi gruppi russi.

È davvero possibile che gli stessi sostenitori di Putin siano nostalgici del Terzo Reich? Considerando l’entità della sconfitta nella campagna di Russia del ’43, riportata dai tedeschi e dai nostri connazionali dell’8a Armata, ci pare un’incredibile capriola ideologica.

Il paradosso diviene ancora più assurdo in Polonia, dove è facile prima visitare l’affollato museo dell’Insurrezione di Varsavia e poi notare croci celtiche sui bicipiti dei tifosi in fila per entrare nella curva del Legia Varsavia, intitolato all’eroe nazionale Jozef Pilsudki. Se in Polonia si può pensare che con questo simbolismo si voglia tracciare un netto divario con il recente passato sovietico, in Russia questa tesi non vale. Allora si può pensare che, banalizzando l’utilizzo di certi emblemi, si voglia da un lato ostentare una posizione antagonista rispetto al resto della società, e dall’altro sintetizzare valori nazionalistici e xenofobi. Occorre ricordare che per quasi sessant’anni i Russi hanno vissuto nell’isolamento e nella diffidenza del resto del pianeta: da questa prospettiva si può provare ad analizzare, senza però giustificare, gli episodi di razzismo nei confronti dei calciatori di colore della Prem’er Liga.



Oltre al ricorrere alla simbologia della tradizione nazifascista, un altro aspetto che sembra caratterizzare le tifoserie dell’ex blocco sovietico è il particolare ricorso alla violenza. Se la mentalità ultras intende lo scontro come strumento per difendere o conquistare il territorio, in un’ottica di estremo sostegno alla squadra, nella ex URSS il confronto fisico sembra seguire logiche differenti. Traendo spunto dalla sopracitata “stenka na stenku”, dalla Polonia ha preso piede anche in Russia la cosiddetta “ustawka”, ovvero scontri organizzati a tavolino, magari nei boschi e lontano da sguardi indiscreti. Veri e propri incontri in cui a mani nude si sfidano due contingenti contati, che devono rispettare un codice che definisce i colpi proibiti. Spesso assistono arbitri, a cui spetta sancire la fine delle ostilità ed eleggere il gruppo vincitore.

Questa pratica sembra poco coerente con il sostegno alla propria squadra, e piuttosto pare rifarsi ad un campionato parallelo e clandestino tra palestre rivali. Eppure in tale usanza rivive il folclore della tradizione popolare e la passione per le arti marziali. Per aiutare a contestualizzare tali incontri e la preparazione fisico-tecnica dei “mostri” che vi prendono parte, bisogna ricordare che in Russia sono ancora obbligatori due anni di servizio militare tra i 18 ed i 27 anni.

Affinità più o meno presunte con le forze politiche, la militanza nelle organizzazione para-militari impegnate nel Donbass, la simbologia destrorsa e la violenza in cui si perpetuano tradizioni medioevali: in questo approfondimento, sicuramente parziale, si è cercato di offrire spunti per esplorare ulteriormente la scena dei sostenitori russi. Volendo concludere con un tema meno impegnativo, almeno per i profani delle differenti correnti di tifo, si può dire che nelle curve russe esista un missaggio stilistico, tra influenze ultras-italiane e casual-hooliganistiche britanniche. Ciò che rimane infine è il monito ad evitare di banalizzare le dinamiche in atto nelle curve nostrane e straniere, insieme alla speranza di poter rientrarci presto senza limitazioni e mascherine.

Gruppo MAGOG

Alberto Fabbri

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