Un (difficile) rapporto che viene da lontano.
Certo, valutare i motivi dell’ennesima disfatta europea nella settimana di sosta che segue la vittoria di un derby infuocato ha un sapore molto meno amaro. Ma il dato resta. Quando nel 2019 a Baku teneva tra le mani il trofeo dell’Europa League, Sarri non appariva cupo come si potrebbe dedurre dal suo esplicito disinteresse per le competizioni europee. Fresco del suo primo titolo da allenatore, sorrideva felice come un bambino.
Poteva essere l’inizio di una relazione ideale tra uno dei cultori massimi del “giochismo”, inteso come magia bianca nell’immaginaria lotta tra opposti con il cupo “risultatismo”, e la vittoria. Ma così non è stato. Maurizio Sarri, dopo quella serata azera dall’aria frizzantina, era tornato alle vecchie abitudini. E se per vincere uno scudetto aveva accettato di indossare completi tagliati su misura con impresso il logo minimal chic degli antichi e acerrimi rivali juventini, con le coppe europee il rapporto si era di nuovo interrotto senza possibilità di redenzione.
Tutto ha avuto inizio nel non troppo lontano 2015, quando il tecnico di Figline aveva preso il posto lasciato vacante da Rafa Benitez sulla panchina del Napoli.
Il pluridecorato tecnico spagnolo, l’anno prima, aveva dovuto ingoiare il boccone amaro di un’eliminazione in semifinale di Europa League per mano dei modesti ucraini del Dnipro – che potevano schierare tra le proprie file tutta la potenza di fuoco di Nikola Kalinic, hai detto mica – giocandosi la possibilità di disputare una finale di una competizione europea con il Napoli a più di venticinque anni dall’epico trionfo dei maradoniani contro lo Stoccarda.
A NAPOLI
Sarri, dal canto suo, all’esordio assoluto nella competizione aveva da subito fatto presagire la sua volontà di migliorare i risultati del predecessore, dominando il girone di qualificazione e mostrando sprazzi di quel meraviglioso gioco corale che a Napoli lo ha reso un’istituzione cittadina al pari di Masaniello. Figlio prediletto di un calcio minore ma ipertattico, che il giovedì sera, magari, preferirebbe passarlo a rivedere movimenti e transizioni in sala video piuttosto che giocare una competizione ritenuta meritevole di non più del 50% della formazione titolare, Sarri aveva affrontato l’andata dei sedicesimi contro il Villarreal da favoritissimo. Peccato il turnover.
La tremenda serata della sconfitta al novantesimo a Torino contro la Juve – quella del gol di Zaza da fuori e del definitivo sorpasso allegriano in testa al campionato – aveva forse lasciato più di una scoria negli azzurri, ma Sarri aveva deciso di rendere tutto più complicato facendo sei cambi rispetto alla partita di Torino. Higuain, che in quella stagione sarebbe riuscito a segnare una doppietta anche seduto su una sedia in area di rigore, era stato ovviamente lasciato in panchina. Spazio quindi a Chiriches, Strinic, Lopez, Valdifiori, poco o mai impiegati in campionato, e il Napoli in piena crisi di autostima aveva subito un altro 0-1, il classico risultato che quando il gol in trasferta valeva doppio poteva essere pesantissimo.
“In questo momento, avendo quattro partite in pochissimi giorni, non siamo andati a spremere i giocatori che hanno giocato abbastanza” era stata la giustificazione del mister, e quando al San Paolo il copione si era ripetuto (Higuain a parte) il Napoli, dopo essere passato in vantaggio, si era fatto raggiungere ed eliminare da una squadra solida ma decisamente alla portata. L’anno dopo c’era stato l’esordio in Champions, e agli ottavi con il Real Madrid solo un pazzo avrebbe messo le riserve nella doppia sfida ai blancos. Sarri sicuramente non è pazzo, magari giusto un po’ fissato su alcune idee. E in ogni caso aveva preferito scendere al Bernabeu con Diawara al posto di Jorginho.
Altro giro, altra corsa e nel 2018 il Napoli era arrivato terzo nel suo girone di Champions, retrocedendo in Europa League: quale occasione migliore per testare le seconde linee?
Ancora ai sedicesimi, il Napoli del Comandante stavolta aveva incrociato l’RB Lipsia e l’ipercinetica vitalità del suo gioco a ritmi altissimi. Era il Napoli dei 91 punti in campionato, di Mertens centravanti ombra, di Insigne al suo prime e dei tagli sul secondo palo di Callejon, di Jorginho in regia e Allan a fare legna, di Koulibaly e Albiol a comandare la difesa. Uno squadrone che in campionato schierava sempre gli stessi undici – tant’è che, secondo uno studio del CIES, il Napoli era la squadra a fare meno turnover nei principali campionati europei degli ultimi 13 anni.
All’andata al San Paolo, semi-vuoto per il generale disinteresse tutto italiano riservato alla competizione, erano però scesi in campo dal primo Tonelli, Maggio, Rog, Diawara, Ounas e Callejon da numero 9 e il Napoli era stato travolto con un netto 1-3. Sarri gongolava: “Europa League? È una manifestazione ai limiti della follia!”. E la settimana dopo il suo Napoli ne era stato estromesso nonostante, finalmente con l’undici titolare, avesse provato a ribaltare il passivo fermandosi però sul 2-0. “Pagati gli errori dell’andata”, il commento di Sarri. Soprattutto nelle scelte di formazione.
DA LONDRA A TORINO
Poi Sarri era volato a Londra e, anche grazie ai gol a raffica di Giroud, era arrivata una vittoria nettissima nella forma quanto attesa per via delle sproporzioni nei budget delle due londinesi che si erano giocate la finale, Arsenal e Chelsea, rispetto a quello di ognuna delle altre contendenti. Dopotutto farsi eliminare con quella rosa ai sedicesimi dal Malmoe, agli ottavi dalla Dinamo Kiev o ai quarti dallo Slavia Praga sarebbe stata un’impresa ben più complicata: quindi ci fu la “vittoria” in semifinale ai rigori contro l’Eintracht dopo due pareggi (1-1 e 1-1) e il trionfo nella finale secca con i Gunners.
Era stata poi la volta della Juve e, uno schiocco di dita prima dell’inizio del periodo delle mascherine e dei lockdown, Sarri era stato messo nel sacco dal Lione agli ottavi di Champions – e con lui le speranze juventine di alzare la coppa dalle grandi orecchie con CR7 alla guida. Lo 0-1 finale subito in Francia non sarebbe stato impossibile da ribaltare, ma con cinque mesi suddivisi tra inattività in clausura e poi folle corsa per recuperare il tempo perso nel mezzo, al ritorno, in agosto, la Juventus non era riuscita ad andare oltre un 2-1 che ancora una volta condannava Sarri all’eliminazione per l’ormai vetusta regola dei gol in trasferta.
“Ci prendiamo qualche giorno per fare riflessioni” aveva chiosato Agnelli a fine partita e a causa dell’ennesima debacle continentale Sarri aveva perso la panchina della squadra da lui stesso definita – raccontano i bene informati – “inallenabile”.
Nemmeno un anno di stop è servito per cambiare qualcosa nel suo giudizio sulle coppe europee e i risultati ottenuti con la Lazio sono lì a dimostrarlo. Immobile, Zaccagni, Luis Alberto, Milinkovic, Romagnoli e compagnia in campionato sono una cosa, in Europa un’altra, Sarri dixit: “In campionato siamo attenti, più applicati. La squadra potrebbe sentire in maniera inconscia di poter far meglio in Serie A che in Europa”. Poi si è fatto battere per la seconda volta in sette giorni negli ottavi di Conference League dagli olandesi dell’AZ.
ALLA LAZIO
Ma la scusa non regge. È preciso compito dell’allenatore motivare i giocatori e quando si esordisce in conferenza stampa, prima di una gara di ritorno decisiva in cui è d’obbligo rimontare uno svantaggio, dichiarando che non bisogna pensare al derby e poi si schierano titolari Basic, Cancellieri, Gila e Pellegrini (ancora mai messo in campionato) si rischia di fare la figura di Pinocchio. Tanto per restare in ambito toscano. Anche perché, il 12 marzo, il tecnico parlava così:
“Devo essere sincero fino in fondo: questa (il ritorno di Conference, ndr) è una gara che va vista con l’ottica della gara che giocheremo tre giorni dopo, e se devo fare una scelta scelgo quella di tre giorni dopo (il derby, ndr)”
In una campagna europea delle italiane finalmente convincente, al di là del trionfalismo che dovrebbe tenere conto delle buone dosi di fortuna a cui hanno finalmente attinto soprattutto le milanesi, la Lazio di Sarri è stata l’unica squadra a fare brutte figure prima in un girone sulla carta abbordabile in Europa League e poi in quella Conference League vinta l’anno prima dai rivali della Roma e bollata da Tare come “competizione dei perdenti”.
“Non abbiamo una struttura per fare più di una competizione per volta dal punto di vista fisico, mentale e numerico” era stata la solita giustificazione, ma anche di fronte al successo romanista di otto mesi prima non regge più. Inutile correre a giocare la Champions League se non si approfitta delle coppe minori per fare esperienza e allenare quella “mentalità europea” che Sarri dice deficitaria nella sua Lazio come nel Napoli e magari pure nella Juve di Ronaldo, Pjanic, Rabiot, Dybala, De Ligt e Bonucci. Come se trasmetterla fosse un compito che va oltre le possibilità e le responsabilità dell’allenatore.
Poi, per fortuna di Sarri, è arrivato il derby. E al fatto che gli olandesi dell’AZ, per usare le parole del tecnico toscano, siano più “pronti in queste competizioni” rispetto ai biancocelesti – pur privi di Immobile – non ci pensa già più nessuno. Ma non è forse per questo che servono gli articoli di approfondimento?