La lotta alla degenerazione dei costumi continua in campo.
La battaglia contro la degenerazione dei costumi, aggravata dal contributo delle ultime generazioni, è una guerriglia che va combattuta in ogni dove ed in ogni momento. Dal canto nostro abbiamo sposato questa crociata, ahinoi ormai di retroguardia, ed ovviamente abbiamo scavato la nostra trincea stilisticasul rettangolo verde. Qui, dalla massima serie alla terza categoria, passando per il calcetto con gli amici, l’accessorio principe dell’equipaggiamento del calciatore è lo scarpino, ora posto al centro del nostro mirino.
Così, per quanto oggi appaia inutile e sciocco celebrare la retorica dei bei tempi del calcio che fu, quando i giocatori accarezzavano il pallone vestendo calzature di cuoio scuro, si può almeno educare il calciatore alla coerenza tra estetica e tecnica sul campo.
La storia dello scarpino
Gli accademici fanno risalire la prima scarpa sportiva ai gusti volubili, sopratutto in termini di consorti, del sovrano inglese Enrico VIII, che ordina al cordaio reale una calzatura adatta al gioco con la palla. Verosimilmente la disciplina in cui si sollazza il monarca è lo hurling, cruenta commistione di calcio, pallamano e rugby, in cui, a fine partita, più che i punti segnati si contano i feriti.
Con l’affermarsi del calcio contemporaneo nella seconda metà del 1800, i piedi dei pionieri sono protetti da autentici stivali da lavoro, artigianali calzature di spesso cuoio, con primordiali tacchetti imbullonati alla suola di caucciù. La loro forma è testimonianza del carattere violento del primo football, che mette in serio pericolo le caviglie dei giocatori.
WR Moon, giocatore del Corinthian FC, posa con il pallone: decisamente altri tempi. (Photo by Reinhold Thiele/Getty Images)
All’avvicinarsi del XX secolo, con l’evoluzione da dribbling a passing game, la manovra corale si afferma sull’iniziativa personale, mentre si definiscono ruoli ed embrionali disposizioni tattiche. Lo spirito di collaborazione operaia prevale sull’individualismo borghese, sintomo di un gioco che ha ormai lasciato la culla delle agiate public schools britanniche per diffondersi negli spiazzi delle periferie; qui, così come nei primi stadi e nei tradizionali pub, la classe lavoratrice si aggrega nel tempo libero, una conquista dovuta al miglioramento delle condizioni di vita favorito dalla seconda rivoluzione industriale.
Agli inizio del ‘900, la foggia delle scarpe rimane per lo più immutata, anche se la nascita dei primi produttori specializzati nel settore calcistico, come l’italiana Valsport, Hummel e l’inglese Gola, contribuisce allo sviluppo tecnologico; per esempio, i modelli per i difensori sono spesso dotati di una punta quadrata e rinforzata per favorire i rinvii, mentre la linea estetica ammicca a quella delle scarpe da atletica.
le nuove linee delle scarpe da calcio, divenute più leggere e flessibili grazie all’aggiunta di materiali sintetici, liberano i piedi dei calciatori da calzature troppo coprenti, accessori ormai obsoleti in un gioco che si fa più veloce e tecnico
Nel secondo Dopoguerra, la frattura in casa Dassler innesca la scintilla dell’innovazione, che definisce un nuovo concetto di scarpino da calcio. Già produttori di calzature sportive, i fratelli Adolf e Rudolph fondano rispettivamente i colossi Adidas e Puma, che vestono i campioni degli anni a venire. Nel 1949 l’inventore del marchio con le tre strisce brevetta i tacchetti avvitabili e interscambiabili, dettaglio distintivo del modello “The Argentinian”; con questo ai piedi, i tedeschi superano l’Ungheria di Puskas nella sorprendente finale della Coppa Rimet 1954.
Di lì a pochi anni, Mary Quant affranca le gambe delle ragazze che affollano i marciapiedi di Londra, un’emancipazione sociale piuttosto che sessuale: la libertà di movimento offerta dalla minigonna permette alle signorine inglesi di superare i rigidi schemi della società britannica. Allo stesso modo, le nuove linee delle scarpe da calcio, divenute più leggere e flessibili grazie all’aggiunta di materiali sintetici, liberano i piedi dei calciatori da calzature troppo coprenti, accessori ormai obsoleti in un gioco che si fa più veloce e tecnico.
Tra i memorabilia del “Miracolo di Berna”, spiccano gli scarpini del capitano Fritz Walter (foto World Cup Balls)
Se in occasione della finale di Inghilterra 1966, sul terreno di Wembley quasi tutti i giocatori vestono i modelli di Adolph, il fratello Rudolph fascia i piedi benedetti di O’Rei, che inaugura gli anni ’70 con il suo terzo titolo mondiale. Circa due mesi dopo, il campione del mondo inglese Alan Ball veste il primo scarpino colorato nel Charity Shield tra Everton e Chelsea, una scarpa immacolata della Hummel che promette una rivoluzione estetica.
In realtà nelle due seguenti decadi si conferma il conservatorismo, incarnato da due modelli che entrano nell’immaginario dei calciofili per non uscirne mai più. Si tratta della Adidas Copa Mundial e della Puma King, eterni sinonimi di eleganza sul rettangolo verde. La prima esordisce alla fine degli anni Settanta, accessorio d’elezione per le regali giocate di Platini ed il portamento imperiale di Kaiser Beckenbauer. Invece la seconda veste i piedi profetici di Cruijff ed accompagna El Pibe de oro nella sua lotta alle regole del calcio e dei suoi padroni.
Oggi la fattura artigianale degli scarpini è ormai destinata al mercato di nicchia, mentre gli scaffali dei negozi sportivi dell’Occidente si riempiono di prodotti realizzati in stabilimenti del Terzo Mondo.
Nel 1977 in Italia Diadora tinge di giallo il suo logo, mentre negli anni ’90 il suo modello rosso esalta le falcate feline di George Weah, rossonero e Pallone d’Oro 1995. Ancora nell’ultimo decennio del XX secolo, il deciso avvento nel mercato da parte di Nike spinge la competizione sul doppiobinario tecnologico ed estetico. Intanto i Mondiali italiani eleggono il football a fenomeno globale, poi la FIFA cerca di sfondare nel settore a stelle e strisce con USA 1994.
Nel XXI secolo il calcio è ormai un prodotto televisivo e deve adattarsi alle esigenze del nuovo medium: scarpe e palloni si colorano di tinte e fantasie che devonorisaltare sugli schermi. I grandi marchi competono cercando di differenziarsi in termini di disegni, linee e materiali. Le attrezzature dei calciatori, sempre più investiti del ruolo di testimonial nella mente dei consumatori, diventano sempre più leggere e prestanti. Oggi la fattura artigianale degli scarpini è ormai destinata al mercato di nicchia, mentre gli scaffali dei negozi sportivi dell’Occidente si riempiono di prodotti realizzati in stabilimenti del Terzo Mondo.
Scarpini di dubbio gusto. (Photo by Alex Grimm/Bongarts/Getty Images)
Attualmente l’offerta di scarpe da calcio è in grado di soddisfare le esigenze tecniche e stilistiche di tutti consumatori, nonché qualsiasi condizione di gioco. Riguardo alle nuove prospettive, la recente esplosione del segmento femminile offre ricchi fatturati alle diverse marche; così le nuove colorazioni degli scarpini sembrano ripercorrere il superamento delle differenze di genere, un sentimento già espresso dalle collezioni unisex di diverse maison dell’alta moda.
Infine, a proposito dei modelli, è curioso notare la riscoperta di forme che coprono ben oltre le caviglie, come i primi stivali ottocenteschi. Tuttavia, questo ricorso stilistico appare come un mero vezzo estetico, considerando che oggigiorno il calcio è divenuto sì più fisico nelle misure dei giocatori, ma sicuramente non nella condotta sul campo; qui gli arbitri, già spogliati dell’autorevolezza etica ed estetica della giacchetta nera, cercano ogni occasione per manifestare la loro presenza, ormai messa seriamente a rischio dall’incedere dei supporti tecnologici.
La scelta dello scarpino
Attualmente la scarpa nera è considerata la calzatura d’eccellenza della classe operaia della mediana e della manovalanza difensiva, tuttavia sarebbe fortemente consigliata a chiunque giochi sotto l’Eccellenza. È un modello che rimanda ad un’eleganza imperiturae senza tempo, prosecuzione ideale della scarpa stringata che completa l’abito scuro maschile.
Anche nella sua tradizionale variante marrone, questa calzatura ha il merito di sviare l’attenzione da piedi non particolarmente educati, viceversa può esaltare sobriamente i virtuosismi tecnici di qualsiasi numero 10. Vestendo uno scarpino scuro, il portamento del calciatore appare elegante e risoluto, ma riservato allo stesso tempo; pronto alla sfida sportiva, così come all’uscita galante. In definitiva è la scarpa adatta a chiunque sogni di tuffarsi nella fontana di Trevi in tenuta da calcio, come se fosse nell’area di rigore, alla ricerca di Anita Ekberg, o più semplicemente di un gol indimenticabile.
Calcio e dandynismo (Photo by Stuart Franklin/Bongarts/Getty Images for Nike)
Passiamo ora alla scarpa bianca, immacolato emblema dell’aristocrazia sul verde prato da gioco. È la calzatura destinata all’ élite della tecnicacalcistica, atleti dal portamento regale che fluttuano e volteggiano sul campo. Come abbiamo visto, è stata sdoganata negli anni ’70 e vanta antenati nobili, calzature sfoggiate durante uscite in barca a vela, oppure esibizioni presso esclusivi tennis club.
Sul rettangolo verde, chi veste una scarpa bianca presenta un allure da Grande Gatsby: affascinante e delicato, detta il ritmo sulla pista da ballo, che si estende in tutta la metà campo avversaria; la palla è la sua dama, corteggiata e condotta con cavalleria tra le maglie della difesa, al ritmo di swing. Come monito, è bene ricordare che la lotta di classe continua nei novanta minuti, quindi è meglio non eccedere nella leziosità, per non attirare su di sé brutali attenzioni da campo di periferia.
In campo sono Johnny Rotten e Johnny Cash, un tunnel ai difensori dell’ordine costituito, un dito medio in faccia all’autorità del fischietto. Attenzione però, l’indole rivoluzionaria impone l’estrema coerenza tra pensiero ed azione.
Infine, la scarpa colorata è la scelta adatta a chiunque incarni un’anima punk sul campo. Épater le bourgeois, ovvero scandalizzare tifosi, allenatore e avversari, è la ragione di vita di questo tipo di giocatori. D’altronde le calzature variopinte ricordano i colori dirompenti dell’avanguardia dei Fauves, le Bestie che agli inizi del ‘900 sconvolgono la platea artistica parigina.
Nel tentativo di sovvertire la morale del gioco borghese, decorerebbero la divisa con spille e borchie, oppure giocherebbero direttamente con indosso il chiodo, icona ribelle dai tempi del Selvaggio di Marlon Brando. In campo sono Johnny Rotten e Joe Strummer, un tunnel ai difensori dell’ordine costituito, un dito medio in faccia all’autorità del fischietto. Attenzione però, l’indole rivoluzionaria impone l’estrema coerenza tra pensiero ed azione. Guai a chiunque scada nella vuota imitazione o nella volgare ostentazione: con questi colori ai piedi, da eversivo a pagliaccio il passo è breve.
Il rapporto con la scarpa
Innanzitutto sulla pulizia delle scarpe da calcio non si transige: è una questione di rispetto verso se stessi, nonché di passione verso il gioco in sé. Infatti dalla cura che dedica ai propri “attrezzi”, e le scarpe sono gli strumenti principali di qualsiasi calciatore, si evince molto sulla serietà del giocatore. Il dogma vale soprattutto per le categorie inferiori, forse ultimo baluardo contro la deriva post-umana del calcio.
Al termine di ogni partita o allenamento, il solerte calciatore è tenuto a pulire le proprie scarpe, a prescindere dalla stanchezza e dalle condizioni ambientali; in inverno si rischia la broncopolmonite, in estate forse l’insolazione, ma sono piccoli e necessari sacrifici. Inoltre è doveroso ricordare che le operazioni di pulizia devono essere svolte fuori dallo spogliatoio, perché va bene lo spirito cameratesco condiviso con i compagni, ma il custode del campo non vuole sentire ragioni a fine giornata (giustamente).
La passione si vede dal modo in cui ci si prende cura delle proprie scarpe. (Photo by Fox Photos/Getty Images)
Rimanendo nel sacro enclave dello spogliatoio, è bene disporre di un sacchetto in cui raccogliere lacci salvati da scarpe ormai inutilizzabili, preziosi ritagli di bende salvapelle e nastro per fasciature, boccette di olio di canfora ed intrugli vari, oltre ovviamente a tacchetti metallici raccolti qua e là. La sbadataggine dei compagni di squadra non solleva dalla responsabilità di allestire una sorta di cassetta di pronto intervento, anzi qualcuno deve assumersi l’onore (e soprattutto l’onere).
Come un guerriero che sussurra alla spada prima della battaglia, il giocatore chiede alla scarpa di non tradirlo l’indomani
È una pratica che rimanda all’antica saggezza delle nonne, secondo cui nulla si deve mai buttare via, per non farsi cogliere impreparati di fronte agli imprevisti della vita e del campo. Coerentemente, è possibile riutilizzare le scarpe “vecchie” ed è bene mantenerne un paio nella borsa; infatti l’abilità artigianale del calzolaio saprà applicare toppe, rinforzi e cuciture, per donare nuova vita alle calzature. Soluzioni a volte bislacche, ma sempre efficaci, per evitare di cadere in trappole consumistiche.
Infine, checchè ne dedicano i maniaci di tattica e statistiche, la componente metafisica rimane preponderante nell’essenza del calcio ed il rito dell’ingrassaggiodelle scarpe ne rappresenta forse l’apice. Questo rituale si celebra normalmente la sera precedente alla partita, quando il calciatore è chiamato a verificare le condizioni del suo equipaggiamento. Come un guerriero che sussurra alla spada prima della battaglia, il giocatore chiede alla scarpa di non tradirlo l’indomani, confidando le sue speranze ed esorcizzando i timori; un dialogo interiore in cui si celebra la laica religiosità del gioco del calcio.
Giunge così la fine di questo breviario semiserio, sicuramente riduttivo, si spera non completamente inutile. Si è cercato di offrireuna raccolta di consigli, piuttosto che di comandamenti, perché la padronanza dello stile risiede proprio nella conoscenza delle regole e nella loro consapevole rottura. A prescindere dal tipo di scarpe che portate, siano di pelle, plastica, o carbonio, dimostratevi degni di esse, ricordando sempre che sarete voi a renderle grandi e non viceversa. D’altronde, come è risaputo dai tempi di Enrico VIII, non è la scarpa a fare il calciatore.
Per l’immagine di copertina si ringrazia il genio di Gianluca Palamidessi.
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