Tra i banchi delle business school del Regno Unito, ai fortunati ragazzi che possono permettersi uno di questi corsi di eccellenza, viene insegnato il concetto di VUCA World: Volatile – Uncertain – Complex – Ambiguous. Un mondo volatile, incerto, complesso, ambiguo. Lo stesso mondo nel quale si era calato completamente Jeremy Wisten, un ragazzo di 18 anni originario del Malawi, ex-prospetto della Academy del Manchester City.
Suo malgrado, è giunto alle cronache internazionali per motivi drammaticamente lontani da quelli sportivi: a fine ottobre il giovane difensore si è infatti tolto la vita, aprendo uno squarcio nel calcio inglese e più di qualche necessaria riflessione su quello giovanile. Quando si parla di spettacolarizzazione dello sport, nel calcio contemporaneo, si omette quasi sempre un ingranaggio fondamentale alla base di tutto il complesso: i vivai.
Per le squadre professionistiche, si tratta di vere e proprie macchine di investimento, pensate e strutturate per reperire i migliori talenti al mondo e magari mettere a bilancio la magica plusvalenza. Del resto, quale pazzo quattordicenne rifiuterebbe una chiamata dai settori giovanili dei top club d’Europa?
I club professionistici più ambiziosi, e con il potere commerciale più elevato, reclutano ogni anno migliaia di ragazzi. Da lì inizia un percorso di allenamento intensivo che tratta adolescenti come cadetti in addestramento, costringendoli in campo fino a quattro volte a settimana, con tanto di rifinitura il sabato mattina. Spesso vengono trasferiti dalle loro città natali, portati lontano dalle famiglie e ammucchiati nelle foresterie e nei dormitori delle città ospitanti: tutto per vivere un “sogno” che, nella maggior parte dei casi, può trasformarsi nel suo contrario.
Vivono tutti assieme all’interno di una bolla in cui centinaia di essi vengono improvvisamente “scartati”, liberati ogni anno dalle rispettive squadre come una zavorra superflua: questo accade spesso dopo aver passato 4-5 anni della loro vita interamente dediti a quell’unica causa. Del resto la macchina deve continuare a macinare guadagno, e vale la pena concentrare gli sforzi solo su chi potrebbe avere una possibilità di arrivare nel calcio professionistico, così da metterlo a bilancio: il materiale umano si disperde, esattamente come il talento inespresso.
Da uno studio sul tema portato a termine dal dottor David Blakelock della Teesside University nel 2015, si apprende che il 55% dei giocatori esaminati soffre di “livelli clinici di disagio psicologico” 21 giorni dopo la mancata riconferma. Il Dr. Blakelock sostiene che l’esperienza dell’accademia può restringere a tal punto le prospettive dei giovani ragazzi da identificarsi solo ed esclusivamente in una “identità atletica”: così i ragazzi si proiettano quasi completamente come calciatori, soffrendo poi una terribile “perdita di autostima e di fiducia in se stessi” quando la prospettiva non si realizza.
«These results suggest that in the first month following release, a proportion of players can experience a range of psychological problems, namely depression, anxiety, a loss of confidence and impairment in everyday functioning». (D. Blakelock)
La UEFA Youth League – competizione giovanile che dal 2013 giocano le Under 19 delle squadre iscritte alla Champions League – con la rispettiva vendita dei diritti televisivi, si inquadra esattamente nel tipo di contesto dipinto dal Dr. Blakelock, oltre che in un’idea meramente economica di valorizzazione del prodotto. I ragazzi sono l’ennesimo elemento commerciabile del sistema da cui ricavare il più alto ritorno sull’investimento. Così si attraggono giovani prospetti, aumentando i margini sulla futura rivendita.
Ma il problema è ancora più profondo e addirittura la FIFA diretta da Blatter (si salvi chi può!), aveva provato ad arginarlo in qualche modo, non consentendo ai club Europei di ingaggiare giocatori Under 16 provenienti da altri Paesi. La Masìa ad esempio nell’ultimo decennio ha ricevuto grandi attenzioni, dopo aver sfornato alcuni dei talenti internazionali più cristallini dell’ultimo ventennio calcistico. Ma a Barcellona non tutto è sempre rose e fiori.
L’ingaggio di minori da Paesi in via di sviluppo è una pratica consolidata che ha portato anche ad una sanzione nel 2014, non consentendo in primo luogo al Barcellona operazioni di mercato per un anno. E allo stesso tempo, obbligando il club blaugrana a rinunciare alle prestazioni di giovani prospetti acquisiti illecitamente: il francese Theo Chendry, i koreani Lee Seung Woo, Paik Seung-Ho e Jang Gyeolhee, l’olandese Bobby Adekanye, il camerunense Patrice Sousia. Tutte giovani promesse in corsa per il sogno di un futuro da professionista, costretti invece a una squalifica annuale, per effetto delle sanzioni, e a ridimensionare la portata delle loro aspettative.
Alla regola imposta dalla FIFA esistono però tre precise eccezioni, che consentono di tesserare minorenni provenienti da altri Stati di residenza rispetto alla sede del club:
I – Il giocatore deve vivere nella sua casa natale a meno di 50 chilometri dal confine nazionale.
II – Il trasferimento deve essere all’interno dell’Unione Europea o dello Spazio Economico Europeo se Il giocatore ha un’età compresa tra i 16 e i 18 anni.
III – I genitori devono cambiare il loro indirizzo nel paese di residenza in cui si trova il club
Proprio quest’ultima eccezione si sta trasformando in un espediente, portando molti club a integrare tutta la famiglia dei giovani calciatori nel tessuto societario, pur di ottenere le prestazioni dei minorenni capaci di distinguersi tra Africa ed Asia pacifica. È in queste zone che i grandi club creano delle academy, spesso sfruttando la popolarità di propri ex giocatori con il ruolo di ambassador. Eto’o ne ha aperta una in Camerun con il marchio del Barcellona; lo stesso Manchester City ha un’Academy ad Abu Dhabi e una negli States, pensate per accogliere i migliori talenti del circuito mediorientale e nordamericano (e per aggirare le regole valide per tutto il calcio europeo).
L’economista Andre Gunder Frank (1969), nella sua teoria del sottosviluppo dipendente, avanza una tesi in cui definisce le nazioni occidentali industrializzate come dominatrici del nucleo centrale del sistema capitalistico globale: in sostanza, queste dettano le regole in base alle quali il commercio mondiale viene condotto. Il drammatico aumento della migrazione dei calciatori africani verso l’Europa, soprattutto negli ultimi 20 anni, ha dato vita a un acceso dibattito che ha ricondotto questo processo nella grammatica di uno sfruttamento neocoloniale. Un dibattito che non è rimasto tale, ma che ha proposto studi e ricerche.
Chissà che, proprio dai banchi di una di quelle business school del Regno Unito, non sia nato il progetto di un nuovo e fruttuoso business model da applicare ai giovani ragazzi che nel calcio ripongono le proprie speranze. La storia di Wisten è solo l’ultima ad aprire una riflessione doverosa su una macchina a tratti disumana, capace di fagocitare ogni anno migliaia di ragazzi in tutt’Europa.
Nel 2013, da un’inchiesta del Guardian, emerse infatti il caso di un altro giovane calciatore inglese che all’età di soli 16 anni, scartato poco prima di approdare in Premier, decise di togliersi la vita.
Ma la nostra memoria continua ad essere tremendamente corta. Probabilmente affrancata dalle “scoperte” dei nuovi talenti nei vivai delle big d’Europa, etichettati come predestinati prima ancora di solcare i campi professionistici. Noi siamo troppo e cronicamente alla ricerca del nuovo Golden Boy, pronti ad esaltarne le gesta più banali, come le più avvincenti, e di non riflettere minimamente su tutti coloro che non ce l’hanno fatta.
Come se non bastasse, i canali social rendono questi ragazzi dei veri e propri “riferimenti” mediatici che si rivolgono a una fanbase di milioni di utenti ancor prima di raggiungere i 18 anni: una risorsa inestimabile per le società, un ulteriore carico di aspettative involontarie e tutte da dimostrare. Ci troviamo così ad esaltare il percorso incompiuto di giovani promesse che, tra grandi contratti di sponsorizzazione e ottimi agenti di mercato, riescono a ritagliarsi una visibilità assolutamente distorta (e quasi sempre ingestibile) per chi sta ancora uscendo dall’adolescenza.
Perché in questo calcio vale di più il predestinato di chi, con il lavoro e il sudore, si guadagna lo stesso spazio. Vale di più l’arrivo del percorso. Vale più Nicolò Zaniolo infortunato di un qualsiasi Kevin Lasagna che, dalla Serie D, ha battuto i campi di ogni categoria possibile fino ad essere titolare in Nazionale. È però quando vediamo Pedri che dopo una prestazione da 7 in pagella attende il Taxi fuori dal Camp Nou – perché sprovvisto di patente – , che ci rendiamo conto di star parlando di essere umani in carne ed ossa, di avere a che fare con ragazzi spesso goffi, più o meno teneramente ingenui, sempre sognatori nel bene e nel male.
Per questo lo chiediamo quasi per favore: basta con questa retorica dell’arrivare, del tutto o niente, dei vincenti e dei perdenti. Che i vivai tornino ad essere anche scuole di vita, perché non è vero che lo sport deve rinunciare alla formazione e demandarla solo ad altri (specie quando è l’unica forma di educazione e di socialità per adolescenti completamente assorbiti). Questa è la resa dello sport, che in tal modo diventa solo un’industria intensiva: di sogni, e purtroppo anche di incubi.