Giuseppe Di Matteo
1 articoli
Per chi gioca a pallone, scrive Eduardo Galeano in Splendori e miserie del gioco del calcio (tradotto ed edito in Italia da Sperling & Kupfer), la vecchiaia arriva a trent’anni e ha la faccia di un paio di scarpe che non servono più. Talvolta si manifesta come un lampo improvviso: un infortunio maledetto e imprevisto che ti porta ad ammainare i sogni come si fa con le bandiere. «E un brutto giorno il giocatore scopre che si è giocato la vita in un colpo solo e che il denaro è volato via e la fama pure».
A Gaetano Scirea la vecchiaia non volle far vedere la sua faccia. O forse decise di farlo nel modo peggiore. La vita gli volse tragicamente le spalle il 3 settembre dell’89, a sipario appena calato su una carriera scintillante (spesa tra Atalanta, Juventus e Nazionale) e a poche settimane dal crollo di un mondo diviso in due dal Muro di Berlino.
L’epilogo si consumò in un incidente stradale, avvenuto sull’autostrada Varsavia-Katowice, in Polonia, dove Scirea si era recato, in qualità di vice allenatore della Juventus (la panchina era allora affidata a Dino Zoff), per seguire i giocatori del Gornik Zabrze, la squadra polacca che avrebbe dovuto affrontare i bianconeri in coppa Uefa. La Fiat 125 su cui Scirea viaggiava venne tamponata da un furgone e, a seguito dell’impatto, prese fuoco a causa di alcune taniche di benzina che erano nel bagagliaio. Assieme a lui morirono l’autista polacco e l’interprete. Si salvò soltanto un dirigente del Gornik.
La notizia si diffuse in un battibaleno. Prima un laconico comunicato dell’agenzia polacca Pap, rimbalzato come una pallina da flipper impazzita nelle redazioni dei quotidiani sportivi e non. Poi arrivò la voce commossa di Sandro Ciotti, che con proverbiale compostezza regalò ai telespettatori della Domenica Sportiva il ritratto di «un campione di sport e soprattutto di civiltà».
Parole per nulla banali. Specie se si pensa al calcio gridato di oggi. In quasi vent’anni di carriera, Scirea non fu mai espulso (e forse nemmeno ammonito). Mai una parola fuori posto. E le poche che si concedeva lasciavano il segno. Durante la terribile notte dell’Heysel (29 maggio 1985), teatro della finale insanguinata di coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, fu lui, da capitano, a lanciare un messaggio di speranza al cielo squarciato dalla furia criminale degli hooligans inglesi (che costò la vita a 39 persone, senza contare i feriti):
La partita verrà giocata per consentire alla polizia di organizzare la protezione durante l’uscita dallo stadio, non rispondete a provocazioni, restate calmi, giochiamo per voi.
Alla fine, quella che Mario Desiati ribattezzò «la notte dell’innocenza» celebrò il suo rito funerario. La Juventus vinse e 1-0 (gol su rigore, inesistente, di Platini) e sollevò la coppa nella serata in cui, come ebbe a dire lo stesso Le Roi, «il calcio è morto».
La fama se ne va quando arriva la vecchiaia, dice Galeano. Il ricordo di Scirea, a poco più di trent’anni dalla scomparsa, è un monumento intatto di cui vogliono parlare ancora in tanti. Darwin Pastorin, che di calcio e di Juventus mastica da quando portava i calzoni corti, ha provato a restituirlo con una biografia non convenzionale, intrisa di sentimento e delicatezza, ma soprattutto refrattaria al sensazionalismo che, talvolta, è un marchio di fabbrica di questo genere letterario.
Quasi a voler assecondare i modi di Gaetano, leader garbato in campo e riservato fuori. Ma Gaetano Scirea. Il Gentiluomo, edito da Giulio Perrone (93 pp., 13 euro) è anche, e soprattutto, la testimonianza di un calcio che se n’è andato per sempre assieme alle movenze delicate, e spettacolari, di un campione d’altri tempi.
Aveva iniziato nell’Atalanta, Scirea, come mediano, grazie ai suoi piedi buoni (58 le presenze con la maglia nerazzurra). Poi Heriberto Herrera lo riadattò a libero, ruolo che gli calzava a pennello e di cui fu forse il miglior interprete in Italia e non solo. Con la Juventus, dove approdò nel 1974, e il leggendario numero sei incollato sulla schiena, visse l’èra Trapattoni conquistando sette scudetti, due coppe Italia, una coppa Uefa, una coppa dei Campioni, una coppa Intercontinentale, una coppa delle Coppe, una Supercoppa europea e un Mundialito per club.
Ma nella sua bacheca c’è anche il titolo Mondiale, conseguito in Spagna nell’82 con la leggendaria Nazionale di Enzo Bearzot, di cui fu lo straordinario direttore d’orchestra in fase difensiva (78 presenze in tutto e dieci da capitano). Vestì la maglia bianconera 552 volte, realizzando e 32 reti (24 delle quali in serie A). Attraversò gli anni Settanta e Ottanta rimanendo sempre fedele a sé stesso e a un calcio raccontato con il rombo di tuono delle macchine da scrivere. E che era già letteratura nelle piazze.
«Le cartelle a fare le porte, sette contro sette – annota Pastorin mettendo in fila con le parole le diapositive di quegli anni –. La nostra età arrogante. Le ragazze ci battevano le mani, la rivoluzione poteva aspettare perché c’era la partita da vincere, sette contro sette e tutto intorno scompariva».
La televisione non era più un lusso per pochi, ma il pallone non se l’era preso ancora tutto. Tra giocatori e giornalisti non si frapponeva la “gerarchia ecclesiastica” di manager e procuratori (a tal proposito sono gustosissimi alcuni aneddoti riportati dall’autore, molti dei quali fanno parte di un’intervista realizzata nel 1983 per il programma televisivo Tutti casa, stadio e…, che andava in onda sull’emittente torinese Videogruppo).
Si respira l’odore della maglia di Scirea, ma anche di Paesi lontani. Troneggia il Sudamerica, che è da sempre l’altro cielo di Pastorin. L’eredità di Borges è ovunque, ma non manca un omaggio struggente ai maestri del giornalismo Italiano (Gianni Brera e Wladimiro Caminiti su tutti).
A proposito di Latinoamerica: fu proprio durante il Mondiale in Argentina che Scirea diede un saggio del suo bon ton sul rettangolo verde. Correva l’anno 1978. Il 2 giugno l’Italia fece il suo esordio nella competizione sfidando la Francia. Ma la partita iniziò nel peggiore dei modi. Dopo appena trenta secondi, infatti, i francesi passarono in vantaggio con un colpo di testa di Lacombe, abile a sfruttare un cross dalla sinistra del velocissimo Six.
Scirea, che arrivava di gran carriera facendo la diagonale, avrebbe potuto fermarlo (di quell’episodio parla anche Gigi Garanzini nel suo splendido Il minuto di silenzio. La storia del calcio attraverso i suoi eroi, Mondadori) ma limitò il suo intervento, ritraendo il petto, per paura di fargli male. Poi guidò gli azzurri alla rimonta (2-1 il risultato finale, gol di Rossi e Zaccarelli). Quella coppa del Mondo, per la cronaca, la vinse l’Argentina, che “ospitava” anche la dittatura feroce di Videla. Ma gli Azzurri uscirono a testa alta, anzi altissima. Di fatto, è ancora Galeano a dire la sua, la squadra italiana aveva già cominciato a vincere il Mondiale di quattro anni dopo. Con Scirea in regia, a proteggere Zoff.
«Editorialista» quando trattava con i giornalisti – per cercare lo scoop bisognava rivolgersi per forza di cose a Boniek o a Platini – non ha mai amato la luce dei riflettori. La sera in cui si laureò campione del Mondo (l’11 luglio dell’82) scelse di festeggiare quel trionfo grandioso nello stile che gli era più congeniale, e cioè nella sua stanza d’albergo assieme a Dino Zoff e all’abbraccio di parole semplici e schiette. Come, del resto, è stata la sua vita. Dall’inizio alla fine.
Il 15 maggio 1988 Scirea disputò l’ultima partita con la maglia della Juventus. In panchina sedeva Rino Marchesi. Platini si era ritirato, romanticamente, l’anno precedente. Il calcio stava vivendo una nuova fase, ma nelle piazze si giocava ancora. Poi è cambiato tutto. «In piazza, oggi, Gaetano, nessuno gioca più», mormora Pastorin nella sua «lettera di un fratello a un fratello». «Ci sono ragazzi che fumano, malinconici, il capo chino, i migranti che chiedono la speranza. Ci sono donne sole». E non c’è più Scirea a deliziarci in campo, ma soprattutto fuori, con il suo silenzio che tanto piaceva a Zoff. La giocata più sublime di un artista del pallone che era anzitutto un gentiluomo.