All’inizio del terzo millennio il fax era uno dei mezzi di comunicazione più utilizzati al mondo. La mail aveva già messo la freccia, per carità, ma in mancanza d’altro quell’aggeggio lì andava più che bene. Ne vendono tanti, in Argentina. Uno di loro, comprato da una famiglia residente a La Plata, un giorno trasmette un foglio di carta intestata FIR. Federazione Italiana Rugby. Il destinatario è uno studente liceale alto e muscoloso, stella delle squadre giovanili della città. È il figlio di Sergio, ex gloria ovale aquilana, trasferitosi a La Plata per lavoro alla fine degli anni sessanta, e di una figlia di emigrati calabresi.
Qualcuno a Roma deve aver saputo della sua esistenza e ha colto la palla al balzo, cosa non semplice da fare quando si è in un’ottica ovale. Il fax dice che la Nazionale Italiana under 19 è in Argentina per uno stage, deve partecipare di lì a qualche settimana al Mondiale di categoria in Cile e vorrebbe testare il livello del ragazzo per, nel caso le voci sul suo conto fossero corrette, aggregarlo ai convocati. Non è che ci voglia molto, al figlio del signor Sergio, per decidere del suo destino. Volendo potrebbe puntare alla Nazionale Argentina, ai Pumas, ma decide di rendere onore ai natali paterni. E a tutte le vacanze in Abruzzo, finite a far girare una palla ovale con i figli degli amici di papà. Il provino, se così vogliamo chiamarlo, non è che vada bene: va splendidamente.
Lo convocano subito, sarà titolare fisso per tutti e quattro gli incontri. Il figlio del signor Sergio è degno figlio di suo padre, rugbista nell’animo. Ne è pure una copia spiccicata. Da questo momento comincia il cammino di un giocatore unico. Nel 2002 John Kirwan diventa CT azzurro a seguito del licenziamento di Brad Johnstone. Decide di svecchiare la rosa della Nazionale: in Nuova Zelanda, a casa sua, si porterà una squadra giovane. Attinge a piene mani dalla Nazionale under 19 che tanto bene ha fatto ai mondiali casalinghi di quell’anno, poi affida la fascia di capitano ad un ventiduenne padovano, Marco Bortolami, che da quel momento sarà capitano ovunque deciderà di giocare. In quella tournée debuttano ragazzini come Matteo Barbini, Martin Castrogiovanni e, last but not least, Sergio Parisse. Titolare da subito, maglia numero otto.
Kirwan ci ha visto giusto: il ragazzino ha stoffa e tempra da campione. Non ha il fisico della classica terza centro, non è un armadio compatto e potentissimo uso a lanciarsi a mille sulle difese avversarie. Sergio supera di poco il quintale e lo distribuisce su 196 centimetri di anima lunga. Sa correre, però. Sceglie spesso traiettorie non scontate, anziché cercare il buco a forza di botte cerca di sbiellare le gambe altrui con una rapidità di pensiero che lascia gli avversari, il più delle volte, con un pugno di mosche. Ma non ci sono solo gambe e corsa nel gioco di Parisse: Sergio ha mani enormi, ma educatissime. “Possono esse fero e possono esse piuma”, per citare il grande Mario Brega. Placca forte, usa il frontino come biglietto da visita, ma quando ha il pallone in mano compone endecasillabi. Anche dietro la schiena, specialità della casa.
No, una terza con quelle corse, quell’intelligenza vitruviana e quelle mani non si è mai vista. Se ne accorgono pure a Treviso. La Benetton brucia qualsiasi avversaria e conquista il gioiellino. Non è semplice giocare da quelle parti, visto che dal 2002 al 2005 a Monigo scende in campo una delle squadre biancoverdi più forti di sempre: ci sono fenomeni come Dingo Williams, Marius Goosen e Franco Smith, altri gioiellini italiani come Gonzalo Canale e Salvatore Costanzo, colonne della Nazionale come Fabio Ongaro, Andrea Gritti e Alessandro Troncon. È una squadra fortissima, capace nel dicembre del 2004 di vincere tre partite in Heineken Cup in un girone composto da Leinster, Bath ed i campioni francesi del Bourgoin e quindi ad arrivare a ottanta minuti dai quarti di finale. Statistiche alla mano, mai una squadra italiana è andata così vicina alla qualificazione alla fase finale della massima coppa europea per club d’Europa. Sergio diventa ben presto uno dei fari dei Leoni e quindi uno dei pezzi pregiati del mercato.
Qui non si parla più di squadre italiane. Lo vogliono soprattutto francesi e inglesi. La spunta lo Stade Français, di proprietà allora di un istrionico imprenditore di origini italiane, ex addetto stampa di Dalida. Si chiama Max Guazzini ed è uno che si fa notare sempre e comunque. Con lui arriveranno nel rugby che conta le prime maglie leopardate, i primi calendari (i famosi Dieux du Stade, nei quali Parisse sarà uno dei più fotografati) e i primi spettacoli prepartita. Insomma, cose che difficilmente sarebbero definibili sobrie. Lo Stade, però, è anche una delle squadre più forti d’Europa, unica in grado di vincere scudetti in tre secoli diversi. Da queste parti gravitano mostri sacri del rugby francese quali Christophe Dominici, Fabien Galthié e Pascal Papé, il meglio della generazione di Pumas in grado di vincere il bronzo alla Coppa del Mondo del 2007 (Roncero, Pichot, Corleto, El Mago Hernández) e i migliori italiani del momento, i fratelli Bergamasco. E Sergio, per l’appunto, che negli anni parigini arriverà tre volte tra i primi cinque giocatori al mondo e giocherà tre volte (una da capitano) con i Barbarians.
No, non l’hanno mai visto neppure loro un numero 8 così. Né lui vedrà altri colori sociali, fino ad oggi. Ci proveranno in molti, a dir la verità, a tentarlo: soprattutto varie squadre inglesi. Al di là della Manica Sergio ha fatto strage di cuori. Venderebbero l’anima al diavolo, gli inglesi, per un giocatore del genere. Sergio decide di restare, mostrando una capacità di prendersi delle responsabilità che noi, in un certo senso, conoscevamo già da qualche anno.
È del 2008 infatti la decisione di Nick Mallett, nuovo commissario tecnico azzurro, di dare la fascia di capitano a Sergio. Non che la cosa non fosse nell’aria! Uno così non poteva non ambire un giorno ad essere un leader. Con la maglia della Nazionale Sergio si trasfigura: è sempre e comunque il primo uomo in piedi a sostenere i compagni, placca come un ossesso. Calcia addirittura, segnando un drop nel 2009 a Murrayfield e sbagliandone uno allo scadere che, nel 2016, sarebbe valso la vittoria a Parigi. Non era suo compito, ma era necessario che qualcuno ci provasse, vista la scarsa abitudine dell’allora numero 10 Kelly Haimona a calciare di rimbalzo. Con i colori azzurri batterà ogni record di presenze, nonostante un brutto infortunio lo tenga fuori per tutta la prima parte del 2010. Nel 2019 diventa il giocatore più presente nella storia del Sei Nazioni, record scippato al leggendario Brian O’Driscoll. Strapperà poi un altro record, molto meno prestigioso: sarà infatti il primo giocatore al mondo a raggiungere la poco onorevole quota di 100 sconfitte con la propria Nazionale.
Avesse scelto, in quel pomeriggio di La Plata, di stracciare il fax marchiato FIR e di sentirsi un puma fino in fondo, molto probabilmente avrebbe raggranellato più vittorie. Forse avrebbe una medaglia mondiale al collo. Di certo sappiamo che è stato il numero otto più forte dell’emisfero nord, secondo solo (e nemmeno sempre) al neozelandese Kieran Read.
Ma Sergio Parisse ha il senso di responsabilità del campione e dell’uomo grato ai suoi natali distanti solamente dal punto di vista geografico. Quando lascerà l’Olimpico per l’ultimo giro italiano della sua carriera, presumibilmente alla fine del match contro quella Francia che l’ha svezzato al grande rugby, l’ovale azzurro risulterà un po’ più incontrollabile del solito. Grazie di tutto, Sergio.