Signor*, Patrick Zaki è libero! Squillo di trombe e suono di fanfare! È un gran sollievo, un traguardo del nostro governo che pure viene sbertucciato da uno studente di Gender Studies a Bologna – così mi immagino il mio personalissimo inferno, se esiste la legge dantesca del contrappasso – che di passerelle non ne ha voluto sapere. Ad ogni modo su Patrick Zaki, visto lo stato desolante dell’italico calciomercato, potrebbero piombare le nostre squadre.
Sì perché con buona pace dei camerati da social, nostalgici di un’Italia del pallone che non c’è più, il fatto che la scorsa stagione le nostre abbiano compiuto un’ammirevole cavalcata europea (poi comunque infrantasi sul più bello) non ha certo dimostrato una ‘ripresa’ del pallone tricolore, anzi. Così era stato riassunto il tutto da molti piazzisti, gente con lo stesso grado di interpretazione della realtà di quello che ha Gianrico Carofiglio per la grande letteratura, ça va sans dire – eppure basta accogliere un po’ di evidenze dal calciomercato, e anche analizzare il rapporto entrate/uscite delle cinque maggiori leghe europee, per capirci di più.
La Premier compra ma fa un campionato a parte, spendendo 680 milioni più di quelli che incassa; la Ligue 1, trainata dal PSG, acquista anch’essa spendendo 120 milioni più di quelli che ricava; la Liga, tolto il solo Real, sta in attivo di circa +80 milioni tra incassi e spese; pure la Bundesliga vende, e fa segnare un +104 milioni tra cessioni e acquisti; ma peggio (o meglio) di tutti fa la Serie A, che incamera dal mercato 150 milioni in più di quelli che investe.
Sostanzialmente nessuno in Italia può permettersi di comprare se prima non vende, e spesso non può farlo neanche in questo caso (prendiamo la Roma, finalista di EL, che ha incassato una quarantina di milioni e ha speso al momento 0,00€, un vero e proprio record). Così il Milan può ricostruire la squadra grazie alla cessione di Tonali – anche qui, con buona pace dei conservatori senza più nulla da conservare, è stato fatto un piccolo capolavoro di mercato.
Il Napoli non può acquistare senza prima vendere, così come ha dovuto fare l’Inter e sono obbligate a fare Lazio, Atalanta e Juventus – quest’ultima avrebbe anche bisogno di una fornitura di lettini da psicologo e di una seduta di analisi collettiva che negli ultimi anni, alla Continassa, sembrano più in confusione di Joe Biden. Un trend in ogni caso che conferma quello del mercato invernale 2023, in cui siamo stati il fanalino di coda per soldi investiti sul mercato ma tra coloro che hanno incassato di più dalle uscite di calciatori. E che dimostra il grado di impotenza economica del nostro calcio.
Così mentre rotolano le balle di fieno e friniscono i grilli durante le aste per i diritti tv, «fotografia che riassume lo stato del nostro football, alla ricerca di un valore perduto tra debiti colossali e vergogne giudiziarie» come scrive Tony Damascelli, c’è ancora chi si ostina a non voler fare i conti con la realtà: siamo un campionato pseudo-fallito, espressione di dirigenti e presidenti da commedia dell’arte, a dir poco grotteschi e imbarazzanti, e di vertici sportivi divisi tra mille interessi e incapaci solamente di immaginare una visione, figuriamoci di realizzarla.
In Spagna ad esempio Tebas ce l’ha, piaccia o meno, e per questo si è inimicato Real e Barcellona; in Germania hanno il 50+1%, ma chissà per quanto vista la direzione che sta prendendo il calcio; la Premier è la Premier, incassa tra diritti domestici ed esteri circa 10 miliardi a triennio, e la Ligue 1 beh… chissenefrega della Ligue 1, ma chi se la vede, per quanto il presidente Labrune è sicuro al prossimo bando di piazzarsi sul terzo gradino del podio – sotto Inghilterra e Spagna ma decisamente sopra l’Italia – per incassi dai diritti tv.
Un campionato, il nostro, costretto ad elemosinare giocatori in esubero dall’estero grazie al Decreto Crescita, allo stesso tempo boomerang e fonte di ossigeno per il pallone nazionale. Anche perché è meglio non approfondire le moli debitorie dei vari campionati, ovvero dell’insieme dei singoli club. Questo è forse il dato più preoccupante (aggiornato al 2023), e qui casca l’asino del pallone nazionale: in Germania tutti i club sono indebitati per 10 milioni totali (sic!), in Francia per 755. Poi si alza l’asticella.
I club inglesi, paradossalmente, sono indebitati meno degli italiani: 1.946 miliardi di euro vs 1.968 miliardi di euro.
Peggio di tutti fa la Spagna con 2.517 miliardi di passivi, però ripartiti fra le tre grandi – Real più Barcellona insieme fanno 1.8 miliardi, l’Atletico Madrid altri 536 milioni. Una netta differenza con l’Italia in cui il debito è spalmato su diversi grandi club, dall’Inter alla Roma alla Juventus al Milan – esclusi Napoli, Lazio e Atalanta – ma anche sulle altre squadre del campionato, considerato che le quattro big di cui sopra insieme fanno circa 950 mln di debiti, meno della metà del totale. Debiti che si potrebbero pure reggere, se ci fossero fonti di ricavo all’altezza.
Comunque sciorinare dati mi annoia più dei sermoni psicotici degli ambientalisti, con quelle voci stridule e quegli occhi da matti che si ritrovano. E mi annoia più di quel patriottismo residuale e impacciato che, per non cedere al ‘disfattismo’ anti-italiano (neanche fossimo in guerra), preferisce bearsi di risultati estemporanei come quelli europei della scorsa stagione. Ma che vi credete, che ogni anno l’Inter trovi sulla sua strada Porto, Benfica (in caduta libera) e Milan per arrivare all’atto finale della competizione per club più importante del mondo? E che la Roma possa evitare tutte le prime teste di serie fino alla finalissima in Europa League?
Finiamola con questa destra terminale nel pallone che si culla nel mito di un’Italia tramontata, e che offre così un alibi a tutti quelli che il nostro calcio, negli ultimi 15 anni, lo hanno mutilato per una radicale incapacità gestionale. Insomma, signori, che dirvi. Qui la situazione è grave ma è pure seria, per citare a sproposito Flaiano, e c’è un intero movimento che non sa dove sbattere la testa per riacchiapparsi, naufragate pure le speranze di spremere a dovere quella gran vacca rappresentata dalle pay tv.
Il calcio italiano, gira che ti rigira sembra il PD: diviso tra mille correnti, incapace di proporre una visione, aggrappato a misure bandiere che nascondono un vuoto allo stesso superficiale e abissale.
Servono rottamatori, alla Patrick Zaki. Prima che venga candidato nel collegio blindato di Bologna allora, quello che in nome della tradizione comunista e del sol dell’avvenire ha fatto eleggere con il PD anche Pier Ferdinando Casini, vorrei proporlo qui come prossimo presidente FIGC. Ebbene sì: Zaki al posto di Gravina, e i punkabbestia bolognesi al posto di dirigenti e presidenti. Tanto, peggio di questi, è difficile che possano fare.