Un paradosso che svuota la propaganda dello spettacolo.
Anche noi, per mesi, siamo stati risucchiati dalla propaganda (al contrario) su questo nuovo calcio: il nostro era un rifiuto razionale, quasi ideologico al “calcio come intrattenimento” ormai dominante. Sapete no, tutti i discorsi fatti sul football come fenomeno sociale, culturale, territoriale, sulla centralità dei tifosi ridotti oggi a meri clienti/consumatori e via discorrendo. Tutto sacrosanto – almeno secondo noi – ma il punto è che con una simile critica rappresentavamo solo l’opposizione, facevamo un po’ la figura degli inguaribili romantici superati dalla “storia” (e continueremo a farla senza nessun problema).
Rifiutando però a priori il linguaggio sensazionalistico e retorico del nuovo pallone, sempre più elitario e privatizzato, non ci eravamo in realtà sforzati di guardarlo a fondo. Ecco allora che ci sono venute in soccorso le prime giornate di campionato e, pur avendole seguite molto distrattamente, queste ci hanno letteralmente illuminato: mettiamo da parte per un attimo le giuste rimostranze al calcio venduto come prodotto, non parliamo del come ma del cosa. Giudichiamo finalmente il calcio secondo la loro dialettica, quella appunto del prodotto da intrattenimento: la domanda non è quindi se sia nobile venderlo in questo modo (spoiler, la risposta è no), la domanda riguarda invece le caratteristiche del prodotto stesso.
Il paradosso, allora, sta proprio nel fatto che questo prodotto è assai scadente. È terribilmente noioso, e guai a dirglielo, a loro che vedono nella noia il più grande rischio da scongiurare, ben più della critica anti-moderna. Il nuovo calcio però, e ci spiace deluderli, è inguardabile proprio da un punto di vista estetico: sfilacciato, svuotato, senza il calore e il colore dei tifosi (intesi qui solo come elemento di sfondo, che aiuta la riuscita della rappresentazione), senza misure, disarmonico e spaventosamente nudo. Una nudità in cui difetti ed errori individuali non solo si accentuano, ma la fanno addirittura da padrone.
Ecco allora che giungiamo al cuore del paradosso dell’adanismo, dei nerd del calcio e di Caressa (che, almeno, nel suo “più segnano più me diverto” lanciava la classica sparata da bar da accogliere con il giusto grado di ironia e indulgenza): in questo nuovo calcio più segnano più ci annoiamo! Ogni giornata assistiamo distratti a partite pirotecniche con 6 o 7 gol e nel frattempo siamo insofferenti, scrolliamo il telefono, imbracciamo il computer. I capovolgimenti di fronte perdono quell’adrenalina elettrica che hanno sempre avuto, gli sbadigli sostituiscono le palpitazioni.
Proprio nel posticipo dell’ultima giornata, Milan v Roma, a inizio secondo tempo ci sono stati quattro capovolgimenti di fronte con le squadre letteralmente spezzate in due: una roba quasi surreale, da amichevole estiva, per usare un eufemismo. In un simile contesto si perde e si disinnesca anche il valore catartico del gol, si smarrisce la tensione dell’attesa. Malgrado i telecronisti (colposi) costretti ad usare un linguaggio commerciale, e i ragionamenti (dolosi) del filosofo del futbol, Adani, per cui «meno male che sci scegna tanto Riccardo, il calcio è uno sport per farli i gol, non per non prenderli» noi assistiamo inermi alla realtà dei fatti che ci travolge:
questo calcio fa pena, è un prodotto che non vale assolutamente il prezzo del biglietto, anzi dell’abbonamento.
Tralasciando i fantacalcisti radicali e gli sfigati brufolosi che perdono le proprie giornate a giocare a FUT, nessun amante del pallone preferirà un Sassuolo-Bologna 3-3 a un tirato Sassuolo-Bologna, derby dell’Emilia con il pubblico, che finisce con 3-4-5 gol di meno. Il problema è che si sta assecondando una deriva, quella spettacolarizzata, sia per vendere il pacchetto calcio (e questo è pienamente comprensibile nell’ottica di chi deve incassare), sia per coccolare chi ha Djuricic al fantacalcio (e ciò è un po’ meno onesto, oltre che leggermente inquietante).
Il buon Adani nella sua equazione più gol=calcio più bello dimentica l’essenza di questo sport: eppure da sudamericanista, sempre che Adani sia qualcosa, dovrebbe conoscere quanto il gol non possa essere tutto ciò che conta. L’importante è il cammino, come direbbe Tabarez, e quindi anche il modo in cui si arriva alla rete; un modo che non è solo tattico, ma è soprattutto emozionale. Il gol è momento liberatorio, è un miracolo che, per dirla con Galeano, deve concedersi poco.
“L’entusiasmo che si scatena ogni volta che la palla bianca scuote la rete può sembrare mistero o follia, ma bisogna tenere in considerazione che il miracolo si concede poco. Il gol, anche se è un golletto, risulta sempre un gooooooooooool nella gola dei radiocronisti, un do di petto capace di lasciare Caruso muto per sempre, e la folla delira, e lo stadio dimentica di essere di cemento e si stacca dalla terra librandosi nell’aria” (Eduardo Galeano).
Il valore del gol è tale allora proprio per la difficoltà che lo precede. È il fascino della conquista che rende tutto più vivo; non tanto l’atto in sé, quanto invece tutto ciò che lo circonda. Il gol è un’invenzione, una sovversione del codice. È «ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica», per dirla invece con Pier Paolo Pasolini. In fondo il sintomo più angosciante della nostra epoca è proprio l’aver perso stupore per qualsiasi cosa, l’esserci abituati a tutto. È lo stupore che tiene accese le nostre fiamme, che dà un senso alle nostre vite: quando perdiamo la meraviglia, anche per le valanghe di gol, è proprio lì che riemerge ineluttabile la noia.
Abbiamo grandi progetti per il futuro, ma prima vogliamo raccogliere suggerimenti, pareri e critiche. Abbiamo preparato qualche domanda per Voi. Badate bene: non è un semplice questionario ma un appuntamento per entrare nella nostra storia.