Il sessismo nel mondo del calcio c'è, ma sta altrove.
Premettiamo che non abbiamo alcuna intenzione, anche noi, di sviscerare il tema Greta Beccaglia, e così di barcamenarci tra le opposte fazioni dei puritani woke che invocano il licenziamento per il conduttore Micheletti (reo di aver “lasciato correre”) e dei giustificazionisti per cui si è trattato solo di un gesto goliardico (non è così). Vogliamo però affrontare qui il macro-argomento del sessismo nel mondo del calcio da un’altra angolatura: quella della meritocrazia. Il maschilismo nel mondo del pallone, che pure esiste, non va infatti cercato nella molestia alla giornalista toscana: lì c’è un effetto, o peggio una squallida manifestazione, non certo la causa. La causa sta altrove, e rappresenta un problema molto più serio del gesto del tifoso viola (già identificato).
Ne scrivevamo tempo fa, avanzando dubbi sulla scelta di Melissa Satta come presenza fissa a Sky Calcio Club; per usare la parole di Alessia Tarquinio, ottima e navigata giornalista sportiva: «se Melissa Satta non è a conti fatti una giornalista sportiva, perché è stata scelta per partecipare alla trasmissione, a discapito di molte altre ragazze sicuramente più preparate? Perché far passare l’idea che questa cosa possono farla tutte? Se mi chiedessero di fare la show girl probabilmente non accetterei».
La diretta interessata aveva risposto di essere stata chiamata non per fare la giornalista, bensì per fare “spettacolo”. Ecco, il punto sta proprio qui. Accettiamo pure il fatto che Melissa Satta sia stata chiamata per fare spettacolo, ma oggi quanto è difficile per una donna farsi largo nell’ambito sportivo – soprattutto calcistico? E quali compromessi deve accettare? Personalmente conosciamo diverse giovani aspiranti giornaliste sportive, e tra di loro alcune molto preparate. Quasi sempre però, visto come tira il vento (e il lavoro), queste sono ossessionate dal loro aspetto fisico, dalla presenza in video. Sanno che per “arrivare” non basterà semplicemente essere competenti e preparate, forse neanche raccomandate.
Dovranno essere invece avvenenti, seducenti, quasi fosse un casting estetico o un concorso di bellezza.
Ci manca solo che qualcuno chieda loro di sbottonarsi la camicetta e di accorciare la gonna, e non escludiamo che da qualche parte abbia funzionato così. Guardando tutte le reti, da quelle provinciali a quelle nazionali, si nota infatti come la stragrande maggioranza delle giornaliste, conduttrici o inviate sia selezionata anche per criteri estetici, in un ammiccamento evidente – ma sempre negato, non sia mai – ai milioni di calciofili principalmente maschi. Il modello Diletta Leotta, d’altronde, spadroneggia e funziona: ammessa e non concessa la preparazione della giornalista, si crede davvero che sia diventata il volto di DAZN solo per le sue competenze specifiche?
Ma questo, ripetiamo, vale per tutte le reti, malgrado di giornaliste brave ce ne siano e anche molte. Ecco perché fa comodo a tutti concentrarsi sull’episodio singolo, ripulirsi la coscienza sbattendo il mostro in prima pagina (come ha fatto Repubblica, forse il tutto un po’ eccessivo), e far scattare un processo senza quartiere non solo all’autore del gesto, ma anche a tutti coloro che avrebbero minimizzato o tollerato il fatto. Si guarda così al dito e non alla luna, anche perché altrimenti andrebbe messo in discussione un intero sistema in cui l’immagine è diventata più importante dei contenuti. E questo sistema, sia chiaro, lo hanno accettato tutti, anche quelli che oggi invocano punizioni esemplari.
Questa potrebbe essere allora l’occasione di denunciare meccanismi davvero sessisti nel mondo del calcio in tv, ma non ricorrendo ai soliti ritornelli sul Medioevo e limitandosi a crocifiggere un ignorante reclamandone la pubblica gogna.
Se davvero vogliamo denunciare la discriminazione delle donne nella narrazione sportiva, facciamolo in modo serio e coerente: interrogandoci sul loro ruolo, sugli ostacoli che si trovano ad affrontare, smettendola di assecondare la prassi per cui una inviata debba essere esteticamente perfetta, magari anche rifatta, così avrà più possibilità di apparire in televisione. Perché alcuni non vorranno sentirselo dire, ma è in questo modo che funziona. Tutti lo sanno, tutti lo accettano, e purtroppo quasi tutti lo sfruttano.
Che poi nel calcio resista del maschilismo, non prendiamoci in giro, è evidente ed anche fisiologico: in un mondo che per decenni è stato appannaggio esclusivo degli uomini, e che tutt’ora si alimenta in gran parte dell’interesse maschile, è naturale che ci siano ancora simili meccanismi. Il modo migliore per superarli non è però inaugurare una caccia alle streghe neo-puritana in cui si trova il diavolo nei dettagli della piccola molestia, del catcalling, della battuta offensiva. Si pensi piuttosto a valorizzare il merito anziché l’immagine, a premiare giornaliste preparate e competenti anziché modelle da “intrattenimento”. Perché tutti siamo buoni a condannare la molestia in diretta, ma sembra che tanti non aspettassero altro. D’altronde lo diceva anche Fabrizio De André, a proposito di donne, ballate ed ipocrisie:
si sa che la gente dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio, si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio.