Papelitos
16 Marzo 2022

Diego Padre Simeone

Guai a dare per morto il Cholo.

A sentire le campane degli ultimi mesi, Simeone era improvvisamente diventato un limite per l’Atletico Madrid. Non solo il punto di vista di un “calcio senza memoria”, per citare l’espressione che Luis Suarez ha rivolto ai tifosi del PSG dopo i fischi a Messi e Neymar, ma la controffensiva di tutti quelli a cui, diciamolo francamente, Simeone non è mai andato giù fino in fondo. Un dibattito che in Spagna è da mesi vivace ed esteso, fin da quando ormai a inizio 2022 lo aveva inaugurato Gonzalo Calderón, nipote dello storico patron Vicente, che aveva dichiarato a Radio Marca:

«Simeone è il primo responsabile di questa situazione dell’Atletico, e qualsiasi altro allenatore sarebbe già stato
esonerato o avrebbe ricevuto un ultimatum».

Qualsiasi altro allenatore, vero forse. Non uno che in più di un decennio alla guida dell’Atletico Madrid ha vinto 2 Liga, 2 Europa League, 2 Supercoppa europea, 1 Coppa del Re e 1 Supercoppa di Spagna, sfiorando per due volte la gloria e la consacrazione del massimo torneo mondiale (le due finali di Champions perse con il Real), ma che soprattutto ha reso il club una certezza del calcio spagnolo ed europeo. Eppure il dibattito su Simeone non si è scaldato solo in Spagna. Anche in Italia molti ne hanno parlato, e proprio ieri Alfonso Fasano su Rivista 11 si chiedeva se il Cholismo non fosse diventato “un limite” per lo stesso tecnico e soprattutto per la sua squadra.

«Negli ultimi dieci anni, il tecnico argentino ha ottenuto risultati incredibili con i Colchoneros. Ma il suo approccio radicale e intransigente ha impedito all’Atlético di provare a essere altro, e forse gli ha precluso la possibilità di allenare in un altro club».


Intanto precisiamo, la scelta di rimanere per dieci anni nello stesso club può essere motivata da altri fattori che non siano l’impossibilità ad andare altrove: una posizione difficile da digerire nel nuovo calcio liquido – in cui l’identità e l’attaccamento ad una piazza risultano valori obsoleti, e i successi personali l’unico obiettivo – ma una scelta di campo e di cuore che per qualcuno (come Simeone) può valere ancora. Tornando però ai fatti, ieri l’Atletico Madrid ha sbancato Old Trafford e conquistato i quarti di Champions League essendo cholista purosangue. Un Atletico che ha ricordato quello degli anni scorsi, con grande applicazione difensiva di tutti, dal primo all’ultimo, e qualche contropiede fulminante.

Che poi si parla tanto di bellezza, ricadendo nel soggettivo, ma l’abnegazione di giocatori di talento che si immolano per i compagni se non è estetica è certamente etica, e spesso le due cose si mischiano fino a confondersi. Vedere il sacrificio di giocatori come Koke, De Paul (che giocatore e che rimpianto), João Félix che si mettono a disposizione della squadra, che donano la propria tecnica sull’altare più alto del bene collettivo, è almeno per noi emozionante. E come ha dichiarato Marcos Llorente prima della partita, un altro calciatore fantastico e quando conta quasi sempre tra i migliori in campo:

«Chi non ha passione e cuore non può giocare nell’Atletico».

Passione e cuore. Uomini, prima che giocatori. Questo ha fatto la differenza. Anche perché, a dirla tutta, ieri il Manchester United ha disputato una delle migliori partite della sua stagione. Un’ottima prestazione, finalmente concentrata, che soprattutto nel primo tempo ha consentito di schiacciare gli avversari, e per lunghi tratti di dominare la partita; dalla difesa, per una volta attenta e disciplinata, agli altri reparti, che hanno alternato ottime giocate in velocità e nitide occasioni da gol (Oblak è tornato super, con un paio di parate importanti, ed è stato anche molto fortunato, come quando ha respinto di faccia la volèe a botta sicura di Elanga sotto porta).



Fatto sta che Diego Padre Simeone, come lo ha ribattezzato ieri il club sui suoi profili ufficiali, con le sue milizie sta ancora lì: tra le migliori 8 di Europa, da campione di Spagna in carica. Per la terza volta, nelle fasi ad eliminazione diretta, avendo espugnato stadi-monumento in terra d’Albione: nel 2014, quando nella semifinale di Stamford Bridge sconfisse 1-3 Mourinho conquistando l’atto finale del torneo (sia maledetto Sergio Ramos); nel 2020, quando negli ottavi di Anfield ha avuto la meglio sul Liverpool campione d’Europa per 2-3; e infine ieri, ad Old Trafford. Senza morire e senza mollare mai, a testa dura e altissima. Con il pubblico colchonero in trasferta unito nel gridare a squarciagola, anche ieri, il suo nome.

Il tutto in un contesto in cui Julian Nagelsmann dichiara a L’Equipe che «è importante considerare il calcio anche come uno show. Alla fine il risultato ha la precedenza, ma possiamo sempre ottenerlo in un modo tale che sia emozionante. È un po’ come andare a un concerto: se compri un biglietto a 100 euro, è bene che il chitarrista vada oltre una o due note ben intonate». È questo lo scenario in cui lo stesso Fasano su 11 aggiunge:

«In un contesto del genere, e che va sempre più in questa direzione, Diego Simeone è un allenatore decisamente fuori tempo. Magari non fuori luogo, ma certamente fuori tempo».

Probabilmente ha anche ragione, e il suo è un punto di vista ragionato e da molti condiviso. Fatto sta che Simeone, in un calcio senza memoria ma ancor prima senza cuore, sta dando una lezione a tutti noi: di identità, ma soprattutto di risultati. Hasta siempe, Comandante!


Immagine di copertina dal Twitter dell’Atletico Madrid, che ci ha anche ispirato il titolo di questo articolo


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