A poche ore da un rinnovo che aleggia sul capo di Inzaghi ormai da qualche mese, viene quasi da chiedersi se Lotito – un po’ come la sua nemesi Friedkin – non abbia pensato ad un altro profilo per guidare la sua Lazio. L’ultima volta che un nome di un certo livello – Marcelo Bielsa – aveva ingolosito sir Claudio, Simone Inzaghi già allenava i biancocelesti in qualità di traghettatore (chiusa l’era Pioli nell’aprile del 2016).
Quell’inciampo, quella faccenda tutta lotitiana del rifiuto di Bielsa e della proclamazione di Inzaghi come nuovo allenatore della Lazio (estate 2016), rappresenta uno dei non rari momenti della storia nei quali l’errore – presunto tale, ça va sans dire – capovolge l’ordine cosmico delle cose. Inzaghi è come il fiocco di neve che si posa sulla campana stonandola (Hölderlin): è una cosa da niente che produce un effetto inaspettato.
Eppure lui le idee chiare ce le aveva già dal giorno zero: «Voglio essere l’allenatore attuale, ma anche quello del futuro.» Nessuno je dava ‘na lira, come dicono a Roma, e in parte ancora oggi Inzaghi – dopo quasi cinque anni a dir poco trionfali – ha i propri detrattori nascosti qua e là (pronti a uscire dalla caverna quando c’è puzza di bruciato). Tare lo aveva presentato sottolineandone i meriti del cuore più che quelli dello spirito: «Lui rappresenta la lazialità», aveva detto. Non poteva sapere, come nessun altro, che il piacentino avrebbe riscritto la storia della Lazio.
Ai meriti del cuore, dopo cinque anni, vanno aggiunti quelli dello spirito. Che Inzaghi conoscesse la Lazio – e la piazza romana – meglio di chiunque altro era già noto ai più: con 20 gol, è ancora oggi il miglior marcatore dei biancocelesti nelle coppe europee. È a Roma dal 1999 e qui ha appeso gli scarpini al chiodo, nel 2010. Solo l’anno successivo è diventato allenatore degli allievi regionali, poi di quelli nazionali fino al 2014, quando Lotito lo promuove ad allenatore della Primavera.
Passano un paio d’anni memorabili, in cui la Lazio torna a fare la voce grossa dopo 35 anni di giovanili discrete ma non eccellenti: Inzaghi vince la Coppa Italia per due anni di fila, prima contro la Fiorentina poi contro la Roma, alzando una Supercoppa col Chievo e perdendone un’altra col Toro l’anno successivo. Sfiora lo Scudetto, che sfuma ai rigori proprio contro il Torino al secondo anno sulla panchina dei giovani biancocelesti.
Il suo palmares, quando si ritrova ad allenare i «grandi», è di tutto rispetto. Pochi, però, avrebbero scommesso sulle sue capacità di allenatore di prima squadra. Inzaghi ha bruciato le tappe ma lo ha fatto nell’ombra, senza cedere a sensazionalismi di sorta – senza ergersi a maestro, come altri meno bravi di lui sono soliti fare.
Probabilmente è questa la chiave del successo di inzaghino: egli ha fatto del proprio anonimato un punto di forza. Con la Lazio ha vinto per tre anni di fila: nel 2018 la Supercoppa, nel 2019 la Coppa Italia – contro quel Gasperini così decantato dalla stampa –, nel 2020 un’altra Supercoppa. Dopo aver intravisto ma smarrito sul più bello la qualificazione in semifinale di Europa League nel 2018, ha condotto la Lazio agli ottavi di Champions League a vent’anni dall’ultima volta, quando in campo c’era lui: per i curiosi, vedasi Lazio 5-1 Marsiglia (marzo 2000) con quattro reti di simoncino.
Unione di due mondi apparentemente inconciliabili – quello di Cragnotti e quello di Lotito –, Inzaghi conosce quindi la Lazio come un tifoso ma meglio di un tifoso. Perché all’Inzaghi passionale, scatenato, senza voce, dispiazuto, piangina, ne va affiancato un altro tatticamente impeccabile, psicologo, motivatore. Dopo le prime due stagioni, la Lazio di Inzaghi ha fatto la voce grossa anche con le grandi del nostro campionato – fino a giocarsi lo Scudetto lo scorso anno. Il rinnovo contrattuale alzerà l’ingaggio da 2 a 2.5 milioni; soprattutto, farà sedere Inzaghi sulla panchina biancoceleste per altri tre anni.
I tifosi si chiedono, sognando, se con lui possa aprirsi un ciclo stile Ferguson. I tempi che corrono, certo, rendono difficile una prospettiva di questo tipo, ma chi conosce Inzaghi giura sulla sua fedeltà eterna a questi colori. Solo qualche giorno fa Franco Recanatesi ha dichiarato:
«Credo che Inzaghi sia un’anomalia nel mondo del calcio. Sono vent’anni che è nella Lazio, da calciatore ad allenatore, per cui credo che ami la squadra. Anche per durare a lungo con Lotito ci vuole pazienza. Se il presidente desse al mister qualcosa che lo soddisfi, diventerebbe davvero il Ferguson del club.
So per certo che ama la Lazio e che resterebbe anche in avanti. Nel calcio si va a caccia di opportunità, di avanzamenti di carriera. Nel calcio si ambisce a giocare in grandi competizioni. Inzaghi è un’eccezione: non ricordo un allenatore più innamorato di lui».
Inzaghi ha i suoi difetti, chiaramente. È un fanatico del 3-5-2, che non cambia neanche quando la squadra è in emergenza in difesa – da qui l’utilizzo di Parolo braccio destro nei tre dietro, più volte avvenuto quest’anno –; eppure questa testardaggine, questa determinazione lo ha portato al contempo a proporre un calcio brillante, bello da vedere, divertente e a tratti esaltante. Soprattutto, efficace. Ma è proprio vero che il gioco della Lazio si ripete identico a sé ad ogni partita? Niente affatto. Qui sta la chiave del segreto del suo successo: Inzaghi sa rinnovarsi rinnovando le motivazioni di un gruppo che, ad eccezione di pochi innesti, è lo stesso da quattro anni.
Con l’acquisto di Pepe Reina, ad esempio, la Lazio ha radicalmente cambiato il proprio modo di giocare. Il portiere è uno degli uomini più coinvolti nella manovra, ma il gioco di Inzaghi è aperto a più soluzioni tattiche. La Lazio è una squadra fisica, che sfrutta tanto il lancio lungo – grazie al lavoro di Milinkovic-Savic, baluardo della banda Inzaghi – quanto le palle da fermo. Ma è anche una squadra tecnica, che ha in Luis Alberto il faro del proprio gioco e in Ciro Immobile l’uomo più prolifico d’Europa. Dietro, poi, c’è Acerbi, il miglior difensore italiano in circolazione insieme a Chiellini.
Cosa accomuna i quattro pilastri sopracitati del gioco di Inzaghi? Tutti sono esplosi – o rinati – grazie al lavoro di inzaghino. Milinkovic era già un talento, ma inconsistente e discontinuo. Da quando c’è Inzaghi, il serbo non sbaglia una partita, soprattutto quando il gioco si fa duro. Luis Alberto doveva addirittura smettere di giocare a calcio, ora è tra i centrocampisti più forti d’Europa. Discorso simile per Immobile e Acerbi, che da buoni giocatori che erano, sono diventati fuoriclasse sotto la guida di Inzaghi. Non citiamo Lucas Leiva perché la sua carriera, come quella di Reina, non aveva bisogno di alcun riscatto. Anche il brasiliano, comunque, ha vissuto con Inzaghi una seconda giovinezza.
Inzaghi è quanto di meglio la Lazio potesse desiderare. Ha preso una squadra sballata, l’ha aggiustata e l’ha resa una realtà del nostro calcio. Probabilmente, Gianni Brera ne avrebbe cantato le lodi. Italiano, umile ma preparatissimo, sarebbe il profilo ideale per la Juventus, che non a caso lo segue da un po’. «Io alla Juve? Fa piacere l’interesse ma la Lazio è casa mia; sono tifoso laziale, come lo sono i miei figli. Per me la Lazio è un punto d’arrivo», aveva dichiarato tre anni fa. Si è ripetuto nel post-partita dell’ultimo derby. Al cuor non si comanda, soprattutto non si mente.