Puck. Mazze. Pattini. Se in Slovacchia esiste una cultura sportiva, e non vi è dubbio, allora porta in dote queste tre parole appena citate. Perchè in questo Paese di poco più di 5 milioni di abitanti, che allarga i suoi lembi dalla mitteleuropea Vienna alla rutena Uzhorod, esiste una e una sola religione pagana: l’hockey su ghiaccio. Il credo che unisce la nazione ogni dodici mesi, tra maggio e giugno. I mondiali di questa disciplina, la cui eco arriva in Italia solo grazie a qualche pellicola drammatico–sportiva made in USA, si disputano a ridosso dell’estate. E hanno rischiato, nell’anno di grazia 2021, di sovrapporsi con un altro evento al quale, con un misto di fierezza e stupore, parteciperà un’altra selezione nazionale. Gli Europei di calcio.
Premessa d’obbligo. Parlare di sport, come di arte e, soprattutto di storia, slovacca senza tenere in considerazione i settantacinque di anni di Cecoslovacchia non ha alcun senso. E non serve spulciare tra libri, magazine o cercare ossessivamente video su YouTube. Basta farsi un giro tra l’elegante centro di Bratislava, oppure tra i villaggi sparsi oltre la pianura di Nitra, dove il verde della natura esplode all’ombra delle Tatra. Chiunque vi dirà che non è possibile scindere l’esistenza dei due Paesi con l’esperienza novecentesca. Quella che ha visto l’alba durante gli ultimi colpi di cannone della Prima Guerra mondiale. Ha attraversato la dittatura socialista, il che ha significato quarant’anni di fame, sospetti e chiusure. E, dulcis in fundo, ha sperimentato la divisione pacifica del 1993. Esempio più unico che raro, in un mondo dove la partizione porta con sè sangue e odio.
E lo sport? Cosa c’entra in tutto questo? C’entra, perchè la cultura calcistica della Slovacchia non inizia agli albori degli anni ’90. Ma è collegata al cordone ombelicale del football danubiano, quello degli anni ’30.
Coppa Internazionale e secondo posto ai Mondiali del 1934. Bican e Planicka. Passa per il secondo dopoguerra, il Pallone d’Oro di Masopust e la Coppa delle Coppe dello Slovan contro il Barcelona nel ’69. E arriva, come ultima fermata, dinnanzi all’impianto che, ufficialmente si chiamerebbe Stadion Crvena Zvezda, ma che tutti a Belgrado e non solo conoscono come “Marakana”. La data è rimasta impressa a imperitura memoria. 20 giugno 1976. Al cospetto della Mannschaft campione del Mondo, vi è un gruppo di outsider che non conosce nessuno, semplicemente perchè, fino al compimento dei 32 anni, la cortina di ferro che imprigionava il Paese valeva anche per le star del calcio.
La finalissima del quinto campionato europeo. La sorpresa che elimina l’Olanda del calcio totale e che va avanti 2-0 contro i tedeschi occidentali. Il peccato, mortale contro Beckenbauer e compagni, di non chiuderla. Di non ammazzare la gara, perchè la Germania non muore mai. Il pari che sa di beffa. I supplementari, impantanati come il terreno del “Maksimir” nella semifinale di qualche giorno prima. I rigori. I primi, storici penalty di una finale per nazionali. Il tocco sotto di Antonin Panenka. Quello che solo noi, provinciali e egocentrici, chiamiamo “cucchiaio” non sapendo, o facendo finta, che in tutto l’universo pallonaro quel tiro beffardo ha preso il cognome del suo inventore. Il trionfo, coppa al cielo yugoslavo con le maglie degli avversari addosso.
Soffermarsi a sottolineare il trionfo agli Europei della nazionale di Jezek non serve solo a ripassare l’album storiografico del calcio cecoslovacco. Esiste un altro significato, molto più profondo. Perchè, su ventidue convocati per la final four, quattordici, per ogni maledetta domenica, indossavano le divise dei club slovacchi. Slovan, Inter, Kosice, Spartak Trnava. Lo stesso capitano, il gigantesco stopper Ondrus, era il totem dei bianco azzurri di Bratislava. E se restringiamo il campo alla formazione della finalissima, allora il dato diventa quasi impressionante. Viktor, Panenka, Nehoda.
Sono loro gli “intrusi” cechi perchè il resto, gli 8/11 che il ct manda in campo a giocarsi la gara della vita, arrivano da quel sud slovacco, dal quale il calcio attinge a piene mani, tanto per la nazionale quanto per il campionato, dove i team locali la fanno da padrone.
L’epoca d’oro è tanto sfolgorante quanto breve. Dura meno di un lustro, ma porta in dote, oltre all’alloro europeo, altre due gemme inattese. Un podio, questa volta il gradino più basso, quattro anni dopo Belgrado. Quando, dopo che i tedeschi si sono presi la rivincita, ci vuole una estenuante maratona contro gli azzurri padroni di casa per vincere ai rigori la finalina di Napoli che, a dirla tutta, interessa solo ai danubiani. La seconda perla arriva nella stessa estate, con l’oro olimpico di Mosca, nel mezzo dei Giochi del boicottaggio occidentale, gentilmente restituito in California al giro successivo. Il gol di Svoboda allo stadio Lenin fa calare il sipario sulla loro golden age.
Quando il Muro cade, il comunismo smette di illudere le masse ed arricchire la nomenklatura e i due blocchi scompaiono, l’alba del calcio slovensko ha un colore grigio come le pietre che abbracciano il castello di Devin, naturale spartiacque tra due mondi scollegati per decenni. Non esiste nemmeno un bagliore di qualche potenziale crack che possa guidare la riscossa, fatto salvo il povero Dubovsky, che fa in tempo a vincere da comparsa una Liga con il Real, prima di trovare la morte tra le cascate thailandesi. E in questo periodo, che attraversa gli anni ‘90 e i primi lampi di nuovo Millennio, il paragone con i cugini del nord è deprimente. Mentre a Praga fiorisce la generazione d’oro, tra Euro ’96 e il trionfo della Under nel 2002, a Bratislava si fatica.
Una ragione, però, deve esistere. Una differenza abissale con la medesima base di praticanti. Come è possibile? C’è chi dice che la carenza di assimilare i metodi di allenamento portati da oltreconfine sia stato un fattore chiave, ma c’è dell’altro. Questione di mentalità, raccontano da queste parti. Tanto determinati e lottatori i cechi, quanto umorali e ondivaghi gli slovacchi. Psicologicamente deboli. La facilità nel perdersi (e perdere) alla prima occasione, come se la Storia li abbia infilitto ovunque, anche nel calcio, il ruolo di parente povero del ricco cugino ceco. Quello che economicamente cresce il doppio, che mette in vetrina Praga “la magica”, che come presidente elegge Vaclav Havel, che in campo schiera Nedved, Rosicky e Poborsky. E gli altri? Meglio rifugiare le delusione nel caro e vecchio hockey. Ma, mentre nel ghiaccio la nazionale alza a Goteborg la Coppa del Mondo, qualcosa inizia a muoversi.
La mentalità perdente, la mancanza di organizzazione, tutti i punti deboli, poco alla volta, scompaiono. Il boom tanto atteso è pronto all’esplosione. La conferma che, oltre ai ghiacci e alle piste da sci, esiste una scuola calcistica locale sta per arrivare. E ce ne accorgeremo anche noi italiani.
2 Dicembre 2009. Il giorno del sorteggio per i gironi di Sudafrica 2010. Gli azzurri del Lippi bis ci arrivano da campioni del Mondo, ma la gioia di Berlino appare molto più antica dei quattro anni che la misurano. Vecchi, appagati e senza ricambi all’altezza. Ci tocca un gruppo che, nemmeno in un mondiale pilotato da compiacente dittatura, avremmo potuto immaginare. I modesti paraguaiani, i neo zelandesi (ma non giocavano solo a rugby?) e proprio la Slovacchia. La Stampa di Torino titola, in barba alla scaramanzia e con uno scontato gioco di parole: “Sorteggio paraGUAI”. Quando il flash forward sposta la lancetta della storia di sei mesi, ci accorgiamo di quanto sia dura la realtà.
Facciamo 1-1 con i sudamericani e si fa male Buffon. Stesso risultato con i kiwi bianchi, che per poco non ci fanno vivere un’altra Corea (del Nord). E nel dentro / fuori con gli Slovacchi di Weiss, in quello che dovrebbe essere il punto forte della nostra nazionale, alziamo bandiera bianca. Doppietta del bomber Vittek, terzo gol di Kopunek, meteora nel Bari di Ventura. In mezzo, l’album degli orrori, in attacco e in difesa. I nostri, forse persi tra i fianchi di Shakira che canta Waka waka e la tortura delle vuvuzela sugli spalti, escono da Ellis Park con in mano il biglietto di ritorno Johannesburg – Roma. E tutti scoprono che non solo di puck vive la Slovacchia.
D’altronde, il migliore di loro lo abbiamo preso, svezzato e trasformato in un idolo. Quel Marek Hamsik apparso a Brescia ed esploso a Napoli, che ancora oggi è il recordman di presenze, nonchè capitano e icona della nazionale. Ci sarà anche lui, forse all’ultima recita, all’europeo itinerante che sta per iniziare. Insieme al numero 17, un misto di vecchi leoni come Hubocan, Kucka, Weiss jr più un gruppo di promesse mai mantenute. Duda, Mak, Dubravka. Insieme dovranno ripetere il risultato di cinque anni prima. Difficile, se come compagni di viaggio ti ritrovi i vicini di casa polacchi, la Svezia e gli spagnoli.
Non impossibile se si pensa che, eccezion fatta per l’impresa del 2010, le partite-icona del calcio nazionale sono state proprio contro due delle future rivali nel girone. Ottobre 2009. In Polonia basta un autogol per staccare il biglietto per la prima partecipazione ai Mondiali. Autunno 2014. A Zilina, i padroni di casa battono 2-1 i campioni continentali in carica delle Furie Rosse. Scalpi importanti. Perle sparse in poco meno di trent’anni di storia. Se anche a Bratislava credono ai ricorsi storici, forse esiste una speranza per replicare l’esito di Francia 2016.