22 anni dopo l'ultima vittoria, Roubaix si tinge nuovamente di azzurro.
La bicicletta ricoperta di fango si leva sotto il cielo di Roubaix mentre nel Velodromo si scorgono volti trasfigurati. Su uno di questi, le lacrime scavano nel fango: è lui, Sonny Colbrelli, campione europeo in carica, l’uomo che ha riportato in alto l’Italia nell’Inferno del Nord.
La Roubaix è tornata maestosa e bastarda come la conoscevamo: pioggia dal mattino, la polvere che diventa fango e le pietre ricoperte dal pantano che sfidano l’equilibrio.
E poi il boato del Velodromo, il tempio del ciclismo, preceduto da un istante di silenzio: Colbrelli avrà trattenuto il fiato, scrutando le maschere di Mathieu Van der Poel e Florian Vermeersch. Ha tentennato per un attimo, quando il giovane belga aveva deciso di sbeffeggiare la logica e invertire i pronostici. Sonny lo ha sfidato con gli occhi e battuto con le gambe: classe e potenza a respingere persino il tentativo disperato di Van der Poel, rimasto a secco di energia e scopertosi improvvisamente umano. Perché la Roubaix bagnata, che mancava da 19 anni, ha ribaltato le gerarchie premiando la classe operaia al cospetto del talento.
La vittoria di Colbrelli, arrivata 22 anni dopo l’ultimo trionfo italiano di Andrea Tafi, parte da lontano: la rincorsa al professionismo, gli anni alla Bardiani, l’approdo nel WorldTour e l’aurea dell’incompiuto ad accompagnarlo chilometro dopo chilometro. I 75 secondi posti in carriera parevano pronunciare l’incantesimo: Colbrelli non ha il talento di Sagan, nemmeno quello di Van der Poel e Van Aert, ma è l’esaltazione del lavoro, la meta ambita del sacrificio. Quest’anno la definitiva esplosione: campione d’Italia e d’Europa prima del successo più prestigioso. La giornata d’oro di Sonny Colbrelli e del ciclismo azzurro è stata sublimata dall’epicità di una classica tornata in calendario 903 giorni dopo l’ultima volta, cancellata dal Covid come prima era successo soltanto a causa dei conflitti mondiali. La Roubaix ha riconciliato epos e ciclismo, spazzando via le contraddizioni di uno sport diventato ostaggio della scienza, prigioniero del progresso, miope e smemorato, un po’ trendy e perbenista.
La Regina ci ha restituito il volto di un ciclismo duro e spietato, arte nobile e sadica, perversa e un po’ blasfema. Crudeltà estrema che bramavamo nel nostro inconscio, con i volti dei ciclisti tumefatti dal fango a sputare fatica e imprecazioni.
E che dire di Gianni Moscon, in fuga dopo 30 chilometri e piegato soltanto dalla sfortuna: una caduta e una foratura lo hanno fermato sul più bello. Il quarto posto finale riconsegna un talento cristallino inceppato dagli ingranaggi della Ineos Granadiers. Era la nostra giornata, attesa e sognata. Ci portiamo a casa la terza classica monumento delle ultime tre stagioni, dopo la Sanremo di Nibali del 2018 e il Fiandre di Bettiol del 2019. Restiamo a galla, nonostante tutto, ondeggiando nel limbo tra speranza e depressione. Ci destreggiamo nel fango, cercando di risollevarci dal pantano. Ne usciamo spesso a testa alta, con il sorriso, le lacrime e le braccia levate a disegnare un arcobaleno nel cielo plumbeo.
La vittoria di Sonny Colbrelli è quella di un’Italia operaia in perenne lotta col talento. È l’umiltà che si ribella al volere divino. Non poteva esserci successo più bello: un italiano primo a Roubaix, e poi la pioggia, il fango, la fatica. Nella corsa più barbara che ci sia. Estasi. Ha vinto Colbrelli, ha vinto l’Italia, quella che non molla. Mai.