Intervista a Mauro Bonvicini, esperto ed interprete delle sottoculture giovanili.
Qual è il valore dello studio delle sottoculture nella comprensione delle dinamiche sociali che caratterizzano un determinato periodo storico? Cosa significa conciliare estetica ed antagonismo nella realtà odierna? Quali vie prenderanno le forme di aggregazione giovanili nei prossimi anni? Queste sono alcune delle domande a cui si rivolge la ricerca di Mauro Bonvicini, che scandaglia le pulsioni dei giovani che vivono i marciapiedi sin dall’età dell’Inghilterra vittoriana, quando il processo di industrializzazione porta con sè il concetto di “tempo libero”. Dai banchi del liceo alle piste degli allnighters, passando per le gradinate ed i palchi, vivere in prima persona le scena sottoculturale, gli ha permesso di conciliare l’esperienza diretta con l’approccio scientifico, l’attenzione dell’accademia ma senza la pedanteria nel tono.
Classe 1980, nativo di Spilimbergo e bassista nei The Shed, gruppo terrace punk, da vent’anni si dedica alle “mode ideologizzate“, l’estetica che rafforza l’identità tra sodali marcando la differenza con il resto della società. I primi scritti sono rappresentati dalle pagine della fanzine “Our Game – terrace and street culture fanzine”, che anticipa la tripletta di fatiche letterarie, “Irregolari” – “Glasgow belongs to me” – “Il ruggito di Hampden”, in cui emerge come lo scenario privilegiato di questo simbolismo, antagonista ed aggregativo al tempo stesso, sia lo stadio. Infatti, da sempre lo sport diviene mezzo di sfogo per forze carsiche che montano in seno alla società, e proprio i settori popolari vedono il battesimo dell’unica sottocultura indigena nostrana, gli ultras, oggetto della sua tesi di laurea.
Quali sono le esperienze più significative che ti hanno portato a vivere le sottoculture e scrivere un’opera, di vera divulgazione scientifica, quale “Irregolari”?
Il mio primo contatto con questo mondo è avvenuto attraverso la scena mod pordenonese che è sempre stata particolarmente attiva, vivace e numerosa. La presenza nella mia scuola superiore di diversi ragazzi che ne erano parte mi ha aperto gli occhi sull’esistenza di un mondo autenticamente alternativo al di fuori di quanto veniva spacciato come tale dai media (senza contare la presa di coscienza di come ci si potesse distinguere dai modaioli di paese senza necessariamente avere le pezze al culo o le camicie di flanella…). Da quel momento in poi sono stato parte attiva del contesto sottoculturale sebbene mi sia gradatamente allontanato a livello estetico dalle origini e, dal punto di vista musicale, mi sia invece avvicinato maggiormente al punk. Su questo sostrato musicocentrico si è poi innestato il ramo calcistico che, nella mia esperienza personale, non è mai stato scisso dagli interessi e dalle attività portate avanti durante la settimana: al mio fianco in gradinata la domenica c’era la stessa gente con cui la sera prima si era ballato northern soul o si era cantato a squarciagola sotto un palco.
Tale evidente interconnessione tra ambiti almeno all’apparenza diversi mi ha portato prima alla riflessione e poi alla ricerca e allo studio dei fattori responsabili delle modalità espressive di ampi settori della gioventù che si consideravano estranei alla dinamiche, ai gusti e – non di rado – ai valori del resto della società. Illuminante, da questo punto di vista, è stato l’incontro attorno al 2010 con le ricerche di Philip Gooderson che, descrivendo minuziosamente le gang della Birmingham vittoriana non soltanto dal punto di vista del curriculum criminale, ha aperto scenari di straordinario interesse: in sostanza ho scoperto come già all’epoca esistessero una serie di caratteri estetici e “culturali” veri e propri assolutamente innovativi e del tutto simili a quelli che siamo abituati ad associare agli youth cults del secondo dopoguerra, da un’opinione diffusa – ed errata – reputati invece un fenomeno del tutto originale e inedito.
Ho quindi iniziato un percorso a ritroso nel tempo lungo questo filo rosso per cercare di comprendere il perché questo meccanismo di “moda ideologizzata” si sia innescato proprio nella seconda metà del diciannovesimo secolo non soltanto in Gran Bretagna (per molti versi a ragione vista come la patria delle sottoculture), ma anche in Europa continentale come testimonia l’epopea degli Apaches parigini.Avendo accumulato una discreta bibliografia e avendo pubblicato sulla mia fanzine Our Game una serie di articoli a riguardo (che, per inciso, volevano essere anche uno sprone per evitare di inquadrare questo ambito sotto una chiave di lettura squisitamente ludica e privilegiarne una invece critica e più attenta all’aspetto culturale), ho poi pensato di rendere il tutto più organico e fruibile – oltre che ulteriormente approfondito – trovando supporto in Alessandro di Eclettica Edizioni. Una collaborazione concretizzatasi con l’uscita di Irregolarinel marzo del 2019, per i cui complimenti non posso che ringraziare.
Estetica, ritrovi, abitudini, musica, consumi: come si può definire una sottocultura?
Il tema è alquanto complesso. Tendo a ritenere che una sottocultura senza apparato critico (filosofia?) sia una semplice moda, mentre quando viene a mancare la dimensione estetica e si privilegia una visione del mondo che è inevitabilmente antagonista siamo di fronte a mera ideologia. La sottocultura è quindi il giusto bilanciamento di simbolismo stilistico, dinamica aggregativa e, appunto, sensibilità antagonista. Il fatto stesso che si parli di “cultura” presuppone un humus su cui costruire una struttura più elaborata e sfaccettata, motivo per il quale, ad esempio, non ho mai reputato degno di particolare considerazione il fenomeno dei Paninari – da molti invece considerato pivotale nello sviluppo dell’underground italiano.
Per entrare nel dettaglio, le aggregazioni di strada e di stadio non emergono semplicemente perché gruppi di giovani si trovano a condividere il tifo per la stessa squadra o il medesimo gusto in fatto di abbigliamento. All’epoca dell’esplosione del fenomeno (parliamo dell’età Vittoriana) la società intera già denotava una particolare attenzione all’estetica (che spesso assumeva i contorni di moda vera e propria) e gli stadi erano stracolmi, così come era enorme la fetta di popolazione che si interessava di sport attraverso i nascenti mass media. Ma questo non aveva dato vita a nulla di socialmente e culturalmente rilevante fino a quando estetica, prassi e club calcistici non sono stati interpretati come veicoli attraverso i quali cavalcareuna visione del mondo “alternativa” e come simboli tramite i quali ricreare una aggregazione capace di rimettere al centro i vincoli aggregativi (quasi “clanici”), che si stavano via via erodendo in seguito all’irrompere della Rivoluzione Industriale.
Non è un caso, rimanendo sul tema estetico, che i primi “irregolari” adottino una eleganza estranea ai canoni imperanti: attraverso il peso simbolico dato a questo aspetto da un lato si marca anche visibilmente il confine tra “noi” e la società che per comodità possiamo definire borghese, e dall’altro ci si riconosce tra pari esaltando quella sensazione di costituire un mondo a parte che poi è alla base di ogni pulsione sottoculturale. Alla fine penso che la definizione di “moda ideologizzata”, ovvero di dinamica capace di utilizzare il linguaggio simbolico dato dall’estetica per veicolare una forma di contestazione – sicuramente assai più temperamentale che non ideologica – all’esistente possa riassumere in maniera sufficientemente concisa, ma anche accurata, la questione.
La sottocultura nostrana per eccellenza è quella nata sui gradoni degli stadi, ovvero gli Ultras. Qual è stato il valore di questo modo di intendere il calcio e la vita per i giovani degli Anni ’80 e ’90? Pensi che oggi sia giunta al capolinea, oppure possa evolversi e sopravvivere?
L’importanza della sottocultura ultras italiana è incommensurabile. Nella fase di riflusso dall’impegno politico che rischiava di svuotare di contenuti la società, ha rimesso al centro del vissuto quotidiano il concetto di aggregazione garantendo, al tempo stesso, un carattere informale che l’ha resa appetibile a larghi settori della gioventù. In sostanza, ha rappresentato il polo d’attrazione principe per almeno tre generazioni, che hanno ritrovato il gusto di essere protagonisti all’interno di una dimensione collettiva che altrove si era andata sfilacciando. La centralità delle curve negli equilibri sociali della Penisola è testimoniata anche da un aspetto spesso sottovalutato, ovvero la sua capacità di definire una estetica ben riconoscibile che ha influenzato ambienti ad essa esterni e si è evoluta nel tempo: dal trittico bomber, anfibi e sciarpa degli anni Novanta siamo passati alle Adidas Stan Smith, alle giacche The North Face e ai cappellini Lyle & Scott, ma la sostanza – intesa come capacità di distinguersi nel mare magnum delle nostre città – non è cambiata e assicura alla scena ultras una sua specificità anche stilistica.
Se mi si permette poi un passo ulteriore, e senza con questo voler idealizzare un contesto comunque la si pensi sfaccettato e ricco di contraddizioni, direi che nelle sue incarnazioni migliori il mondo ultras rappresenta(va?) un estremo bastione a difesa dei concetti di radicamento, identità e libertà di espressione messi a repentaglio dalle tendenze più nefaste della società odierna. Davanti all’imposizione violenta di un mondo informe dove tutte le differenze sono forzosamente annullate, l’amore viscerale per i colori cittadini e il campanilismo delle curve ci ricordano che quello che siamo si definisce anche attraverso il confine (molto spesso simbolico, ovviamente) tra noi e l’altro. Davanti alla volontà di trasformare le nostre comunità in agglomerati di individui definiti esclusivamente da logiche di produzione e consumo, arriva il senso feroce del gruppo da difendere a prescindere. Davanti all’attacco al concetto stesso di aggregazione perché intrinsecamente “pericoloso” (restrizioni covid docet), la gioia della condivisione del “freddo gradino” ci fa capire che le emozioni non si vivono attraverso lo schermo di uno smartphone.
Davanti all’appiattimento avvilente sulla narrazione dominante che non tollera nessun sussulto, dubbio o scostamento, troviamo la salvifica vitalità dello striscione offensivo che rompe la quiete mortifera dello “sportivamente corretto”.Se possa sopravvivere o meno ai mutamenti del nostro calcio (e ancora di più di una società dove la passione disinteressata è vista con crescente sospetto) dipende molto dalla capacità di analisi critica di chi ne fa parte. Il mero perpetuare la propria presenza sugli spalti sulla scorta di un (a tratti malinteso) “senso del dovere” non può che inficiarne la credibilità e trasformarne gli attuali protagonisti in semplice contorno folkloristico in stile americano. D’altro canto le potenzialità lasciate trasparire, e spesso anche concretizzate, nel corso di questi cinquant’anni abbondanti di presenza attiva dentro e fuori gli stadi confermano che c’è vita anche lontano da questi. Senza che ciò significhi automaticamente ripudiarli, sia ben chiaro. Un esempio da cui si dovrebbe trarre insegnamento arriva – una volta di più – dalla Gran Bretagna: lungi dallo scomparire sotto il maglio della repressione thatcheriana, la scena casual si è ridefinita facendo propri nuovi contesti mantenendo al contempo un legame sufficientemente solido con il calcio.
Qual è il rapporto tra il nostro Paese e le sottoculture originarie del Regno Unito?
Inevitabilmente derivativo, ma non sempre privo di originalità. E questo al netto delle pur evidenti influenze che l’estetica prodotta dal nostro Paese ha avuto nel definire l’apparato estetico-simbolico delle sottoculture britanniche (in particolare il Modernismo). L’Italia, così come la Germania, vive effettivamente un periodo di fermento giovanile originale che, utilizzando un criterio sufficientemente estensivo, per certi versi può anche connotarsi in senso sottoculturale: con il primo dopoguerra emergono i wandervogel, la jugendbewegung, le burschenschaften e, in Italia, lo squadrismo. Ma come è evidente il filo conduttore è dato da una prospettiva ideologica e non temperamentale che, quindi, le pone su un piano radicalmente diverso rispetto all’esperienza vissuta in Gran Bretagna e in Francia. Certo in Germania, almeno in una fase iniziale, questo aspetto è sicuramente più sfumato, ma nondimeno lo sbocco di tutte queste componenti del mondo giovanile è inevitabilmente nell’alveo della politica. Il perché l’Italia abbia sviluppato tardi – e quasi solo in ottica revivalistica – una propria scena credo stia tutto in questo dato, ovvero nell’accento che da sempre si pone sul piano politico e ideologico e che invece nel resto d’Europa, pur non essendo assolutamente assente, rimane molto spesso sullo sfondo. Non è un caso che l’unica vera sottocultura autoctona emersa nella Penisola, quella ultras appunto, mutui dalla prassi politica gran parte del suo primo bagaglio comportamentale.
Detto questo, il rapporto tra l’Italia e la Gran Bretagna rimane – a mio modo di vedere – privilegiato e fecondo, motivo per il quale siamo risultati spesso in anticipo rispetto a tanti altri Paesi nell’assimilare quanto avveniva oltre la Manica. Punk, skinhead, mod (e ultras) sono stili apparsi nelle nostre città quando altrove ancora si faticava a decifrare il vocabolario culturale di cui essi si facevano portatori assicurandoci così, col tempo, la possibilità di rielaborarli e declinarli in un chiave almeno in parte nuova. Da questo punto di vista si può dire che il nostro contesto ha per certi versi favorito una contaminazione con ambiti specificatamente italiani (come il beat all’interno del modernismo o un certo hardcore nel filone skinhead) mentre nel resto d’Europa si è rimasti più legati ad una logica di riproposizione ortodossa e, di conseguenza, meno vivace.
Come hai spiegato nei tuoi scritti, dalla fanzine “Our game” fino a Irregolari, non solo in Europa, ma dal Giappone agli USA, è possibile trovare terreno fertile per germogli underground; puoi farci qualche esempio?
Il fiorire di dinamiche sottoculturali anche al di fuori del loro alveo naturale (l’Europa appunto) non deve sorprendere se si fa riferimento alle motivazioni che le hanno inizialmente generate e cui ho già avuto modo di accennare in precedenza. Risulta evidente che, a fronte di condizioni sociali e contesti culturali almeno parzialmente omogenei, ci si può aspettare una risposta simile da parte dei singoli attori. Gli Stati Uniti di fine Ottocento, ad esempio, hanno partorito il fenomeno del tifo sportivo organizzato quasi in anticipo rispetto a quella che ne è considerata la patria (ovvero la Gran Bretagna) “sfruttando” il frazionamento e la successiva ricomposizione etnico-comunitaria che sono insiti nella dinamica immigratoria in modo assai simile a quanto stava avvenendo a Glasgow.
Il Giappone dei primi anni Cinquanta è un altro caso particolarmente interessante perché, con i Bosozoku, crea un inedito crogiolo dove si fondano conservatorismo ideale e ribellione estetica: rifiutando non tanto la tradizione culturale del Paese quanto invece ciò che sta diventando sotto la pressione dell’Occidente vincitore della Seconda Guerra Mondiale, i giovani ribelli dagli occhi a mandorla si impossessano del bagaglio estetico e musicale degli occupanti e lo mescolano con uno spirito gerarchico ed eroico che sembra preso pari pari dal bushido e ne fanno una potente arma di critica all’esistente. Se questo può in parte riallacciarsi all’interpretazione delle primissime sottoculture quale risultato di un rifiuto non ideologico della società industriale e delle sue conseguenze in termini di sgretolamento dei legami comunitari, nondimeno rappresenta un esperimento interessante in un contesto che tende spesso alle fughe in avanti.
Spostandoci ancora più lontano, l’Australia è sempre stata terreno più che fertile da questo punto di vista e, sebbene il legame strettissimo con la Gran Bretagna non possa che influenzarne le forme di espressione, molto spesso gli Aussies sono stati capaci di allontanarsi dal puro e semplice revivalismo. Penso ad esempio agli Sharpies che, pur mutuando alcuni caratteri dai coevi filoni britannici (boot boy, glam…), hanno assunto una connotazione fortemente originale grazie all’adozione di un altrettanto corposo insieme estetico e culturale specifico.
Segui attivamente la Scozia, tanto che la tua ultima fatica letteraria è proprio “Il ruggito di Hampden”, una storia culturale del tifo scozzese. Cosa ci puoi raccontare di questa esperienza? Perchè il seguito scozzese ha caratteristiche ben distinte da quello inglese?
Le differenze tra seguito scozzese e inglese sono svariate a partire dal dato squisitamente temporale: se il primo emerge già negli anni Venti del Novecento come tifoseria “organizzata” che supporta massicciamente la propria Nazionale anche nelle trasferte londinesi, il secondo inizia a fare la sua comparsa solo mezzo secolo più tardi e anche qui con numeri così ristretti da non necessitare nemmeno di un settore ospiti dedicato (che infatti viene allestito per la prima volta ad Hampden solo nel 1987). I Bianchi recupereranno il tempo perduto solo successivamente quando, estromessi dalle coppe europee in seguito ai tragici fatti dell’Heysel, si concentreranno sulla scena internazionale diventando senza ombra di dubbio una delle tifoserie più numerose e calorose.
Il perché in Scozia tale dinamica sia emersa con simile anticipo sul resto d’Europa è motivo di ampio dibattito, ma di certo non risulta estraneo il ruolo di preminenza politica, culturale ed economica ricoperto dall’Inghilterra all’interno degli equilibri istituzionali britannici. Ciò significa, per chiarirsi, che il pubblico inglese non necessita di veicoli alternativi (come appunto il calcio) attraverso cui rivendicare la propria esistenza quale popolo a sé stante, mentre – al contrario – quello scozzese interpreta il sostegno alla squadra anche (mi sia concesso sottolineare questo avverbio) come modoper rinforzare la propria identità. Motivo per il quale, anche una volta colmato il gap temporale cui si è fatto cenno e pur con le dovute eccezioni che non mancano, le differenze sono rimaste abissali: da una parte l’amplissimo uso di elementi capaci di sottolineare la propria appartenenza etnica (kilt, tartan, cornamuse, glengarry…), dall’altra l’evidenza di una contiguità strettissima con scene sottoculturali quali quella skinhead prima e casual poi. La stessa natura assolutamente pacifica che è caratteristica peculiare della tartan army origina negli anni Ottanta in parte dalla volontà di distinguersi dalle pratiche conflittuali dei cugini spesso protagonisti di intemperanze sul continente. Un modo semplice ed immediato per sottolineare di essere “Scots, not English” agli occhi del pubblico europeo.
Non è un caso che, fino a quando l’attenzione del tifoso scozzese medio è rimasta concentrata più sul British Championship che non su Europei e Mondiali (cioè indicativamente fino alla seconda metà degli anni Settanta) le dinamiche comportamentali dei tifosi scozzesi siano sostanzialmente diverse proprio perché non c’era il bisogno di utilizzare il palcoscenico dello stadio per chiarire ad occhi esterni equivoci di sorta sulla propria identità. Ecco quindi che ancora nel 1977 un deputato inglese può considerare gli Scozzesi “a nation of hooligans” in virtù di comportamenti che un osservatore italiano poco attento potrebbe associare più facilmente alla controparte. Questo per dire che in realtà la tifoseria scozzese ha attraversato diverse fasi nel corso della sua storia – a volte persino in evidente contrasto tra loro – e limitarsi a prendere in considerazione esclusivamente la prospettiva attuale sarebbe fuorviante. Per intenderci le risse furibonde attorno a Wembley fanno parte dell’album di famiglia tanto quanto i premi per il fair play conquistati e Euro ’92 e a Francia ’98.
Per quanto riguarda poi la mia esperienza personale, posso semplicemente dire che da oltre vent’anni frequento attivamente questo contesto, cosa che mi ha permesso di vivere momenti indimenticabili in giro per l’Europa (e a Glasgow!) e di intessere amicizie durature che si sono estese anche al di là del mero ambito calcistico. Dal gelo di Kaunas al mare di Malta, dai pub clandestini di Dublino alle grigliate sotto la tribuna a Vaduz, dalla prima linea di Novi Sad ai “polizeikontrolle” di Dortmund, dal trionfo sulla Francia ai troppi “glorious failures”… le istantanee degne di nota sono infinite. IlRuggito di Hampden, oltre a descrivere minuziosamente le varie tappe di un percorso iniziato ormai quasi un secolo fa, è quindi anche una sorta di tributo ad una squadra ed una tifoseria che rivestono un ruolo importante nella mia vita.
A proposito di Scozia, sappiamo che Glasgow rappresenta per te una seconda casa, tanto da averle dedicato il libro “Glasgow belongs to me”. Come potresti spiegare la sua unicità? Cosa deve il calcio a questa città?
Sarebbe banale e scontato rispondere che a fare la differenza è l’atmosfera che si respira sulle sue strade e nei suoi pub perché in sé questo non spiega nulla. Il particolare clima (inteso in senso culturale) non nasce spontaneamente, ma è il frutto di una serie di fattori.Per quanto mi riguarda, forse il più importante è il suo essere lontana dalla principali direttrici turistiche che pur attraversano copiosamente la Scozia e ne fanno una meta appetibile a molti (per quanto, a mio modo di vedere, parecchio idealizzata e fraintesa nelle sue natura più autentica). Ciò fa in modo che davanti a chi vi si avventura con giusto spirito critico si spalanchino le porte di una comprensione più profonda della città e dei suoi abitanti rispetto a quanto può avvenire qualche decina di miglia più a est dove, al contrario, i visitatori sciamano a torme lungo il Royal Mile. Come dice sempre il mio amico Cise, che ha curato assieme a me il volume, a Glasgow quando capiscono che sei forestiero prima ti guardano perplessi e poi ti offrono da bere perché se hai fatto lo sforzo di arrivare fin lì e non ti sei ancora rintanato in qualche ristopub dal sapore contemporaneo, alla fine tanto diverso da loro non puoi essere. Il che è per me un gran complimento.
Nel libro cito un paio di episodi come la sera in cui uno dei frequentatori abituali dell’Horseshoe, pub straordinario nei pressi di Central Station, si è rivolto a me chiedendomi molto semplicemente cosa ne pensassi della pinta che stavo bevendo, quasi fossi anch’io “parte dell’arredamento” come lui e gli altri avventori. Ecco, situazioni del genere mi sono capitate solo a Glasgow nonostante abbia comunque gironzolato abbastanza anche nel resto del Regno Unito. Glasgow è ancora fortemente legata al suo retroterra operaio e forse per questo la vitalità che la contraddistingue non suona mai falsa o costruita anche se inevitabilmente i processi di gentrificazione che hanno caratterizzato gli ultimi trent’anni ne hanno in parte modificato il volto. E non sempre in peggio, nonostante quel che si è soliti credere.
Oltre a questo aspetto diciamo più emozionale, la città offre poi comunque moltissimo quanto a scorci suggestivi: penso agli straordinari colori di Kelvingrove in autunno, a People’s Palace e al Glasgow Green adagiati sul Clyde, alla Necropolis, al profilo del St Andrew’s Building che si ammira da Garnethill, alla Mitchell Library illuminata la sera… E ovviamente ad Hampden Park il giorno della partita, con la sua mole imponente che emerge all’improvviso dopo aver attraversato Cathcart Road, le strade invase dai tifosi, l’odore di fish supper che impregna l’aria, i cori e le urla dei venditori di programmi. Se esiste il paradiso, non potrei immaginarmelo diversamente.
Cosa deve il calcio a questa città? Penso soprattutto la consapevolezza che non si tratti solo di un gioco, ma di una dimensione in primis culturale e identitaria come dimostra il fatto che il Celtic (uno dei club più prestigiosi a livello europeo, primo vincitore britannico di una Coppa dei Campioni) sia stato fondato esplicitamente per rivendicare una specifica appartenenza etnica. Il fatto poi che il principale antagonista abbia assunto una connotazione opposta altrettanto marcata e funga da coagulante per l’identità scozzese, scoto-irlandese e presbiteriana e al tempo stesso abbia raggiunto successi di non secondaria importanza (si veda la Coppa delle Coppe del 1972) conferma che un forte radicamento culturale non va sempre a detrimento dei risultati sul campo. Certo, la situazione è parecchio sfaccettata e i club dell’Old Firm (e le rispettive tifoserie) sono realtà comunque ricche di sfumature che meriterebbero un discorso a sé. Se poi ci spostiamo sul palcoscenico internazionale, come già accennato, la situazione non è per nulla diversa con la Nazionale – che qui gioca appunto le sue partite casalinghe – a rappresentare da oltre un secolo un elemento fondamentale nel definire e veicolare all’esterno l’idea di una identità scozzese autonoma rispetto a quella britannica.
Spaziando sul mappamondo, quali sono le città dai marciapiedi più vivaci? Quali le scene sottoculturali da tenere d’occhio?
Ammetto di essere piuttosto impreparato per questo genere di domanda. La recente pandemia ha impedito a me, come a tutti, di viaggiare e ho onestamente perso un po’ il filo dei tanti discorsi che fino a qualche tempo fa erano in piedi. Anzi, credo che due anni di stop forzato abbiano messo a repentaglio molte delle evoluzioni che erano in atto obbligando – soprattutto in ambito musicale – a premere più sull’acceleratore della produzione finalizzata ad una fruizione individuale piuttosto che sulla dimensione aggregativa (leggasi serate, concerti…). Il che, è inevitabile, toglie peso alla collocazione geografica. Ciò premesso, e forse per mia deformazione o per miei gusti specifici, non posso che ritenere la Gran Bretagna ancora un centro di produzione culturale di prim’ordine, non fosse altro per il fatto che a Londra e dintorni esiste una capacità critica – frutto di decenni di avanguardia culturale – che molto spesso permette a queste tendenze di inquadrarsi all’interno di un perimetro di riferimento assai più ampio del mero binomio musica-estetica che pure ne rappresenta il lato palese. Un esempio è la fanzine Subbaculture, di cui suggerisco una attenta lettura, che sta facendo un lavoro enorme di contestualizzazione e analisi pur senza mai scadere nello sterile intellettualismo.
Ripensando anche ai Paninari, l’altra sottocultura autoctona italiana, l’aggregazione giovanile sembra un fenomeno tramontato con il ‘900. Condividi questa conclusione?
Come accennato in precedenza, mi permetterei di contestare l’inclusione dei Paninari all’interno di un alveo sottoculturale. Indipendentemente da questo, ritengo il problema italiano essere leggermente diverso rispetto al resto d’Europa in quanto la peculiarità nostrana di fare in larga misura perno sull’aggregazione di stadio presta il fianco non soltanto all’incedere dei cambiamenti socio-culturali, che pure sono evidenti, ma anche agli strali di una crescente repressione poliziesca e istituzionale che inevitabilmente “giocano contro”.
Fuori dallo stadio le singole scene rimangono tutto sommato nicchie prive di massa critica e incidono poco sugli equilibri generali della questione. Altrove, e penso soprattutto al Regno Unito, le dimensioni del fenomeno, anche da un punto di vista meramente quantitativo, sono altre e hanno permesso una sopravvivenza assai proficua per quanto magari sotto traccia. Il problema, a mio modo di vedere, è però solo in parte riconducibile al contesto sottoculturale tout court: come giustamente lascia intendere la domanda, è in generale la capacità/volontà di creare aggregazione a tutti i livelli ad essere sulla difensiva (quando non direttamente sotto attacco).
Per tornare all’esempio dello stadio, è evidente che questo ha rappresentato per decenni uno spazio di socialità trasversale alle classi o alle stesse categorie generazionali e non una pura e semplice arena dove gli stili irregolari potevano esprimersi. E quando le attuali dinamiche di finanziarizzazione e spettacolarizzazione aggrediscono voracemente il calcio, a subirne le nefaste conseguenze è anche il tifoso di mezza età che magari non si sogna minimamente di condividere la prospettiva conflittuale delle curve, ma nondimeno vive il rito della partita come un momento di socialità, condivisione e identità. Personalmente ritengo che si debba ampliare lo sguardo al di là dei gradoni per riconoscere che problema dell’atomizzazione e della disgregazione sociale – specie in seguito alle dinamiche repressive e di controllo introdotte post covid – stia ormai facendo terra bruciata anche nella società dopo aver in parte neutralizzato le potenzialità delle sottoculture.
Detto questo, confrontandomi ultimamente con molte persone attive nelle varie scene, non solo italiane tra l’altro, assieme alla constatazione delle evidenti difficoltà che si stanno attraversando colgo sempre più frequentemente la convinzione che l’aggregazione giovanile stia attraversando solamente una fase di ridefinizione dei propri caratteri e delle proprie dinamiche espressive e che le motivazioni profonde che le hanno dato vita e che le hanno permesso di caratterizzare in maniera così profonda oltre un secolo di storia sociale europea esistano ancora. Inevitabile prodromo ad una sua rinascita in forme nuove e adeguate ai tempi. Una frase che amo ripetere spesso, tratta da un brano degli On File, è “the kids on the streets will always remain”. Io ci spero davvero.
La redazione di Rivista Contrasti ringrazia Mauro Bonvicini per la disponibilità e la cortesia.
Le opere citate sono “Irregolari – Sottoculture di strada e stadio tra Europa e Nord America 1870-1914” (Eclettica edizioni, 2019); “Glasgow belongs to me” (Eclettica, 2020); “Il ruggito di Hampden – Storia della tifoseria scozzese dai Wembley Warriors alla Tartan Army” (Eclettica, 2021).