Calcio
06 Luglio 2021

La Spagna che non tifa Spagna

La Roja non unisce tutto il Paese.

Cominciano gli inni sul rettangolo verde, quello spagnolo suona marziale peró monco, nessuno canta; non perché i calciatori non conoscano le parole, come accadeva anni fa in Italia, o perché ci siano molti che non le sentano proprie, come succede nel caso del Belgio o della Svizzera. Non cantano perché di parole proprio non ce ne sono. È uno degli inni più antichi di Europa e di parole ne ha avute durante i secoli, venivano cambiate dai differenti re che si succedevano sulla corona di Spagna; anche il caudillo, Francisco Franco, ne volle una sua versione. Dopo la fine della dittatura si scelse di far suonare solo la musica ma non ci si è mai messi d’accordo sulle parole. E pensare che nel mondo solo altre due Nazioni hanno un inno senza testo: San Marino e Bosnia Erzegovina, non grandi esempi di identità nazionale.

Una storia molto raccontata in Spagna sostiene che la nazionale di Aragones e poi di Del Bosque – quella capace di vincere due Europei e un Mondiale fra il 2008 e il 2012 – unì la Nazione e aiutò a lenire le ferite provocate dalla crisi economica, che in quegli anni investì il Paese provocando un aumento della disoccupazione e una durissima recessione dopo anni di progresso economico. Peccato che questa narrazione confortante, che vede una Nazione unita attorno alle vittorie della Roja – solo da noi chiamate “furie rosse” per chissà quale arcano motivo – e ai successi di Rafa Nadal, risulta abbastanza superficiale, di comodo.

La Spagna ha una lunga storia di rivendicazioni regionali, molte delle quali esplose nell’ultimo decennio: è un Paese che il primo ministro Sanchez, con un equilibrismo decisamente ipocrita, definisce “nazione di nazioni”, e in cui qualsiasi lingua si è conquistata il suo posto al sole, ovvero il diritto ad essere riconosciuta ufficialmente.

Il basco, il catalano, il gallego sono lingue insegnate a scuola, necessarie per vincere un concorso pubblico e ogni giorno più influenti: d’altronde la lingua è, da sempre, la base per chiedere e ottenere maggiore autodeterminazione. Fatto sta che la nostra immagine della Spagna profonda, tutta ventagli e sole accecante, è lontana parente della realtà conflittuale in cui interi pezzi della Nazione non si sentono tali: dai Paesi Baschi usciti a fatica da anni di terrorismo dell’Eta, dove l’ansia secessionista si è trasformata in un forte autonomismo, alla Catalogna, che nell’ultimo decennio ha visto il rafforzamento costante dei partiti indipendentisti.

Ma non solo, anche altre comunità autonome (17, secondo la Costituzione Spagnola del 1978) hanno il loro partito regionale, con rivendicazioni sempre maggiori che stanno erodendo il potere centrale. Se poi il simbolo di unità nazionale è la monarchia, macchiata da anni di scandali della famiglia reale ed in particolare dell’ex re Juan Carlos, costretto a un esilio dorato negli Emirati Arabi, non sembra che ci sia molto da celebrare.



Nei suoi anni migliore la nazionale fu una sintesi fragile, ma efficace, delle due anime calcistiche dal Paese; anche se lo sbilanciamento a favore del Barcellona era evidente – sia nello spirito del gioco che nei principali interpreti (Xavi, Iniesta, Puyol, Piqué, Villa, Jordi Alba, Sergio Busquets, Pedro) – il Real Madrid contribuì ai trionfi con alcuni elementi fondamentali (Casillas, Sergio Ramos, Xabi Alonso): eppure, proprio a Barcellona, molti non si sentivano rappresentati da quella nazionale. Il proces, come si chiama l’agognato tentativo dei partiti indipendentisti catalani di ottenere un referendum che li liberi dal presunto giogo dello Stato spagnolo, era ancora embrionale ma in pochi anni diventò qualcosa di concreto, fino al goffo tentativo di organizzarne uno senza avere alle spalle nessun consenso istituzionale.

Il primo ottobre del 2017 il governo regionale, una coalizione formata da partiti indipendentisti con orientamenti politici diversi (dal moderato Junts agli anarchici della Cup), ne convocò uno senza nessuna autorizzazione, e i tentativi di definirlo in seguito come una pacifica consultazione si scontrarono con le pene inflitte ai principali organizzatori. Proprio pochi giorni fa il governo di Sanchez, per calcolo elettorale, ha deciso di indultare i reclusi dopo anni di continue discussioni giuridico-mediatiche, nelle quali sono entrati a gamba tesa anche il Barcellona e alcuni dei suoi (anche ex) più celebri rappresentanti: Piqué e Guardiola su tutti. Sembrerebbe un tentativo, in periodo di Europei, di stimolare una nuova riconciliazione nazionale, eppure non è stato questo l’effetto provocato.

Così la nazionale meno madridista della storia – nessun convocato delle merengues, un po’ perché sono quasi tutti stranieri, un po’ perché gli unici spagnoli sono arrivati alla competizione fuori forma (Isco, Asensio) rotti o quasi rotti (Sergio Ramos, Carvajal) – e allenata da Luis Enrique, esponente di spicco del barcelonismo, continua a fingere di unire un Paese che da troppi anni si sta frammentando.

Se in Italia il tricolore spesso viene tirato fuori solo in caso di pandemia o di competizioni calcistiche, in Spagna la bandiera nazionale è quasi sempre simbolo di una parte sola, e perfino i moderati spesso si vergognano di esibirla sui balconi o per strada durante Europei e Mondiali. Si segue la nazionale in modo molto più freddo rispetto alla passione con cui si vive ogni settimana la Liga – ed in particolare il duello che da sempre divide il Paese, quello tra Real e Barcellona, fatte salve le incursioni di quei miliziani disperati dei colchoneros.

Spagna Nazionale
Grafica Rivista Contrasti

Nessun clacson dopo le vittorie sofferte contro Croazia e Svizzera, un’altalena di emozioni che non ha smosso davvero il Paese, se non nelle copertine dei giornali e nei programmi radio che imperterriti continuano, quasi come dispacci di propaganda, a vendere il mito della Seleccion tifata all’unisono dai Pirenei a Gibilterra, ignorando una realtà molto diversa, esemplificata da alcuni dati incontrovertibili. La nazionale spagnola non gioca da 17 anni in Catalogna e da ben 54 nei Paesi Baschi; inoltre da tempo in entrambe le regioni è proibita l’installazione di mega-schermi per guardare un Mondiale o un Europeo, così come il Covid è stata la scusa perfetta usata dal governo basco per ritirare Bilbao come sede degli Europei, evitando un polemico ritorno della Spagna.

Le partite degli Europei poi sono trasmesse da Mediaset Spagna, esattamente come accadde con i Mondiali di Russia del 2018, anche perché la tv pubblica da anni ha lasciato il campo dei diritti calcistici delle competizioni internazionali alle televisioni commerciali – casomai qualcuno si lamenti di come sono spesi i denari dei contribuenti, altro segno evidente della disaffezione istituzionale rispetto al calcio delle nazionali. Una situazione radicalmente differente alla nostra, in cui ci si scanna fra Nord e Sud e abbondano le polemiche fra napoletani e juventini, fino a quando un bianconero si esalta per o tir’ a gir‘ Insigne o un partenopeo dimentica i suoi pruriti neo-borbonici di fronte alle qualità sabaude della coppia Bonucci-Chiellini.

In Spagna la questione è molto più seria del campanilismo: qui semplicemente intere zone del Paese, quando non tifano espressamente contro, si mostrano indifferenti a ciò che accade.

Basta sfogliare un quotidiano sportivo molto venduto in Catalogna, lo Sport, nel quale le principali notizie di questi giorni sono gli ultimi colpi di mercato del Barcellona, le imprese di Messi alla Coppa America, e perfino il Tour o un gran premio di Formula 1 senza spagnoli in pole sembrano avere più peso della compagine di Luis Enrique.

È una sensazione strana che attanaglia il Paese: il patriottismo quando è declamato sembra forzato, quasi dovuto. Chi tifa Spagna lo fa a mezza voce, quasi con riserbo; gridarlo troppo forte d’altronde potrebbe disturbare qualcuno, mentre gli addetti ai lavori (giornalisti, commentatori, telecronisti) sembrano gli unici che hanno davvero il diritto di alzare i toni. D’altronde cosa aspettarsi da una Nazione che nemmeno può avere il privilegio di cantare a squarciagola, una volta ogni tanto, delle parole – a volte desuete, spesso rimbombanti di retorica o vuote di significato –  ma che acquisiscono senso proprio in quanto tutti assieme le cantano?

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