Per ammissione dello stesso Spalletti.
Appena sette giorni fa, il Napoli di Spalletti ci costringeva ad un elogio (peraltro sentito) del carattere degli azzurri – elemento che risulta e risulterà decisivo ai fini della lotta scudetto. Quel giocherellare con l’anello, nella conferenza stampa post-partita dell’Olimpico, ci aveva evidentemente ingannati: ci era parso un Luciano Spalletti maturo, consapevole sì della forza dei suoi ragazzi ma altrettanto sicuro di doverne smorzare i facili entusiasmi.
Eppure già in settimana, vale a dire nella conferenza pre-partita di Napoli vs Milan, Spalletti si era parzialmente smentito: «Le mie sensazioni sono buone, non so quelle degli altri, ma non possono essere più motivati di noi. Stiamo costruendo una bella squadra, tutti insieme, includo anche il pubblico che ci caratterizza nell’essere napoletani. Insieme al pubblico c’è anche il nome di Maradona, mettiamoci anche la sua benedizione già che ci siamo». Contestualizziamo: queste frasi, in qualunque altra città – già nella stessa pagana Roma, come direbbe Pasolini – suonerebbero giocose, retoriche. Non a Napoli, non in una città che nel nome di Maradona battezza i figli suoi.
Ecco allora perché ci sentiamo di sposare il pensiero di Caressa e Di Canio nel post-partita al Club di Sky, rilanciato anche oggi da Luigi Garlando sulla Gazzetta dello Sport: Spalletti, bravissimo fin qui nella gestione del gruppo, ha probabilmente caricato in eccesso i suoi ragazzi in vista della sfida scudetto contro il Milan. Ultimamente, il tecnico aveva parlato addirittura di “immortalità”, della differenza che passa tra gli eroi e chi viene dimenticato, della possibilità di «rendere indimenticabili le nostre carriere».
Era un test di pressione della squadra: come disse Allegri a inizio anno, a marzo i punti iniziano a pesare, anzi è il pallone che inizia a pesare di più. Allora viene fuori il carattere.
Spalletti ha voluto responsabilizzare (pure troppo) i suoi, sapendo che comunque quella personalità avrebbero dovuto necessariamente tirarla fuori per puntare allo Scudetto. Così è stato lui stesso ad ammetterlo a fine partita, ai microfoni di DAZN: «Se non sai reggere le tensioni e le pressioni allora diventa quasi impossibile vincere. Ci sono delle qualità, dei caratteri, ci sono delle anime che sono fatte in un modo e altre fatte in un altro. Il livello di calcio che bisogna giocare in una città come Napoli è questo, se non reggi le pressioni devi spostarti, devi andare più in là. È un discorso sul dove sei nato, chi sei, cosa avevi in tasca quando sei nato: in me trovi un cliente scomodo. Io comunque domattina sono qui un’altra volta, se credi che non arrivi con un allenamento preparato allora hai perso».
Poi, c’è modo e modo di gestire e far sentire le pressioni. Probabilmente il tecnico di Certaldo ha caricato in modo troppo brusco e poco graduale, pretendendo risposte immediate, ma parlare a posteriori è assai facile. In un periodo in cui lo stesso Napoli, come le altre grandi, sembrava subire un po’ di annebbiamento fisico, sarebbero dovute intervenire le energie nervose, mentali e caratteriali a fare la differenza. Così non è stato.
Il Napoli ha tremato, il Milan no. Sì perché dall’altra parte Pioli ha aggiunto un altro tassello al suo miracolo laico, un’altra prestazione di carattere per sbancare – con merito – il San Paolo. Ieri sera lo ha fatto innanzitutto tatticamente, modificando l’assetto in campo dei suoi per inaridire le fonti di gioco del Napoli, ma ancora prima è la convinzione che il tecnico ha trasmesso alla squadra a risultare impressionante: il Milan corre (tanto), pressa (altrettanto), scende in campo senza paura, con sfrontatezza ma anche con intelligenza. Si propone sempre di controllare il gioco – «dobbiamo fare di più per dominare le partite», ha dichiarato addirittura Pioli a fine partita – e sembra essere talmente consapevole di sé da non subire neanche la pressione (basta guardare i suoi giovani, che giocano da veterani).
Sul Milan però ci torneremo perché oggi è il Napoli, di fronte ai 40mila del San Paolo, che ha deciso di essere mortale, dimenticabile. Non è un caso che lo stesso capitano Insigne (non benissimo ieri, lui come chi doveva incidere: tic-toc, Zielinski ci sei?), abbia ammesso senza giri di parole: «più demeriti nostri che meriti del Milan» . E poi, quasi a suggellare il pensiero del proprio allenatore: «Giocando così nessuno si ricorderà di noi». È un pensiero oscuro, che come direbbe Pascal getta la mente sull’«eterno silenzio degli spazi infiniti». Quelli che il Napoli dovrà colmare, adesso, con dieci partite perfette. Potrebbe non bastare, l’importante è non avere rimpianti.