Nonostante la sfortuna, questa stagione è ancora tutta nelle mani dei partenopei.
Da quando siede sulla panchina del Napoli, all’abito scuro Luciano Spalletti preferisce la tuta di ispirazione sarriana. Indossa i panni dell’antico sognatore, la rivincita sugli allenatori indossatori. Senza giacca e cravatta è uno Spalletti riflessivo, profondo e iconoclasta. Ai piedi del Vesuvio, nella città che mostra orgogliosa il proprio arsenale di ricchezze, Luciano ha ritrovato quella passione ancestrale che sembrava aver smarrito tra la seconda esperienza romana e l’ultima stagione all’Inter. La tuta acetata, larga e nera, simboleggia un ritorno alle origini.
Con un linguaggio dolce e cadenzato, Spalletti stimola gli uditori e fissa con forza alcuni concetti. Le sue parole trasudano saggezza antica e popolare. È un toscanaccio d’autore, come Bartali e Benigni:
«Io non sono nato in Toscana, sono voluto nascere in Toscana. Infatti ho le gambe storte di chi fa solo sali e scendi e non può mai andare pari».
Nato e cresciuto a Certaldo, la patria di Boccaccio, Spalletti ha trascorso gli ultimi due anni rifugiato nelle campagne di Fucecchio, sulle colline che riposano ai fianchi dell’Arno. «Vivere in campagna a volte fa bene perché si cammina a piedi, siccome c’è tanta strada da fare avere i piedi forti è importante. Io sono sempre emozionato perché questo lavoro mi piace e mi crea sempre dei battiti forti».
La vita di campagna lo ha purificato dalle tossine dell’esperienza interista. Luciano, nel primo giorno da allenatore del Napoli, ha esordito con parole semplici e dirette, varcando il confine che divide il sacro dal profano: «Sono orgoglioso di venire a Napoli perché siederò sulla panchina dello stadio dove ha giocato Diego Armando Maradona. È il mio tour dell’anima perché qui ha giocato lui, Napoli è la città di San Gennaro e una città dove il calcio e i miracoli sono la stessa cosa».
Spalletti ha aperto concetti profondi, ha parlato di San Gennaro e Maradona, di ‘scugnizzi’ e miracoli. Era l’8 luglio scorso. Numero, l’8, che nella Smorfia simboleggia ‘A Maronna, come a voler infondere ulteriore sacralità a quel preciso istante.
Eppure oggi, a distanza di sei mesi, Spalletti e il Napoli si scoprono – parafrasando Pirandello in ‘Pasqua di Gea’ – mesti profani. Il traviamento, tema ricorrente nell’opera di toscani illustri come Dante e Petrarca, è quello di aver sciupato il vantaggio acquisito fino alla metà del girone di andata del campionato. Gli azzurri hanno perso dall’Inter capolista 14 punti in sette giornate. Prima dello scontro diretto di San Siro erano davanti ai nerazzurri di sette punti mentre ora inseguono a sei punti ma con una partita in più. I 46 punti dopo la terza di ritorno sono da distribuire nei 32 delle prime dodici giornate e negli 14 delle successive nove, dove il Napoli ha vinto solo tre volte (contro Lazio, Milan e Sampdoria) e ha perso in casa contro Atalanta, Empoli e Spezia.
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Peccato mortale, o quasi, perché gli azzurri avevano incantato nelle prime otto giornate ed erano rimasti imbattuti fino alla sfida contro l’Inter. È qui che Victor Osimhen, infortunatosi allo zigomo dopo uno scontro aereo con Skriniar, è tornato a fare i conti con la sfortuna, ‘A disgrazia, numero 17. L’exploit del nigeriano, dieci gol tra Serie A ed Europa League, aveva acceso i sogni dei tifosi: il suo mix di velocità e potenza, unito a un’andatura sgraziata ma dolcemente anacronistica, sembrava la soluzione naturale al palleggio e alle geometrie di una squadra raffinata ed elegante, che Spalletti ha ereditato dai predecessori Benitez, Sarri e Ancelotti.
Problema infortuni
Le progressioni di Osimhen avevano dato profondità alla manovra, rendendo il gioco più imprevedibile ed efficace. Le sue qualità, sbocciate dopo una prima stagione tempestata da problemi fisici, avevano dunque completato la squadra proprio dove questa mancava prima dell’ennesimo infortunio che ha riportato a galla antichi problemi.
Sul rendimento di Osimhen, strappato al Lille per la cifra record di 70 milioni nell’estate 2019, interessante la riflessione di Claudio Savelli su Libero: «Osimhen rischia: ha solo 23 anni e il futuro davanti a sé ma la continuità di rendimento è la condizione necessaria per mantenere le promesse e non perdersi per strada e nei primi due anni al Napoli non c’è stata. È stato fuori dal campo più che al suo interno: ha saltato 29 partite su 75 totali, quasi la metà. Anche in questa seconda stagione, quella della consacrazione, ha disputato solo il 50% dei minuti in campionato e il 31% in Europa League: abbastanza per mostrare qualità indispensabili e decisive, pochi per essere il vero leader del Napoli».
Spalletti come Gattuso?
Il percorso del Napoli, segnato da diversi ostacoli durante la parentesi Gattuso, sembrava dunque giunto a un punto di svolta con l’arrivo di Spalletti. E invece la stagione è stata (finora) la riproposizione di un passato recente: un’ubriacatura collettiva seguita dai postumi amari della delusione e del rammarico e un quesito ancora irrisolto: dove può crescere il Napoli per competere con le grandi? Ancora fresco, in tal senso, il ricordo dello scudetto sfumato in albergo a Firenze. Le continue fasi altalenanti testimoniano le fragilità di una città e una piazza prigioniera delle emozioni.
I tanti infortuni della stagione in corso spiegano solo in parte il calo della formazione di Spalletti. Dopo Osimhen, si sono fermati anche Koulibaly, Anguissa, Fabian Ruiz e Insigne. Assenze che hanno prosciugato le acque della qualità napoletana. Le rinunce a Fabian Ruiz (in seguito positivo al Covid) e Anguissa hanno privato la mediana di tecnica, fosforo e fisicità mentre l’Inter di Inzaghi spiccava il volo e l’Atalanta tornava a macinare gol e punti dopo un avvio stentato. Persino il Milan, funestato dagli infortuni al pari dei partenopei, riusciva a risollevarsi e a riprendere il cammino in scia ai cugini nerazzurri.
Ma torniamo alle assenze. Zambo Anguissa, pescato dalla periferia della Premier League, è stato la rivelazione della stagione. Le ultime apparizioni prima della partenza per la Coppa d’Africa (insieme a Koulibaly e Ounas) ne hanno certificato la centralità nello scacchiere spallettiano. Cos’altro aggiungere di Fabian Ruiz, 5 gol (tutti da fuori area) e 4 assist, al quale Spalletti ha consegnato le chiavi della manovra riscoprendo un calciatore dalle movenze angeliche e dalla conclusione chirurgica.
Senza Koulibaly poi, e con Manolas in uscita, la difesa si è ritrovata sguarnita del suo guardiano principe, nonostante l’impressionante crescita di Rrahmani e Di Lorenzo. Ecco, se proprio va cercato il tassello mancante quello è a sinistra, dove Mario Rui non offre garanzie e Ghoulam è ancora lontano dalla migliore condizione.
E che dire poi di Insigne, fresco di firma con il Toronto dopo un lungo braccio di ferro con il presidente De Laurentis per il rinnovo del contratto in scadenza. Un addio, già certo a fine stagione, che rischia di lasciare strascichi all’interno del gruppo e che conferma la fama di “mangia capitani” di Spalletti dopo i casi Totti alla Roma e Icardi all’Inter.
Al netto delle vicissitudini legate al destino di Insigne e del rendimento in calo di alcuni singoli, la riflessione costante è sulle ataviche fragilità di Napoli e del Napoli, una città e una squadra in continuo equilibrio tra gloria e dannazione. Il filo sottile su cui viaggia l’entusiasmo partenopeo induce la squadra a vivere di umori. La piazza napoletana, capace di esaltarsi e deprimersi come poche, è un propulsore inesauribile di entusiasmo e pessimismo.
Ed è qui che sono emersi i limiti di personalità della squadra: come evidenziato dalla Gazzetta dello Sport dopo la sconfitta al Maradona contro lo Spezia «a volte manca personalità e questo forse è un problema antico, che finora Spalletti è riuscito a camuffare».
Lo stesso Spalletti ha parlato di quella consapevolezza che delle volte sembra mancare: «Il Napoli è una squadra forte, sono curioso di entrarci dentro per capire se riesce a vedere fino in fondo quanto ne è consapevole», aveva detto nel giorno della presentazione. E ancora: «Se si è forti senza esserne consapevoli, non si completa un percorso. Il Napoli mi piace, mi assomiglia, ma poi bisogna darci dentro e darsi da fare».
Carenze in termini di personalità che stridono con l’esperienza della rosa, la seconda per età media più alta in Serie A, e con il talento individuale. In alcuni momenti critici della stagione è però emerso un carattere encomiabile: contro il Leicester, all’apice dell’emergenza infortuni, gli azzurri hanno conquistato la qualificazione al turno successivo di Europa League estromettendo dalla corsa la quotata formazione inglese. Lo stesso vale per il pareggio di Torino contro la Juventus, in cui il Napoli ha dominato per larghi tratti nonostante una formazione falcidiata dal Covid.
Rigurgiti di orgoglio figli del lavoro di Spalletti. Sta quindi nella continuità, di gioco, carattere e risultati, l’obiettivo da perseguire per riprendere la corsa scudetto o assicurarsi una qualificazione alla Champions League vitale per il futuro del club. Il tutto con il fine, non ultimo, di non tradire l’identità ammirata in avvio di stagione: una squadra che palleggia, pressa e va in profondità come poche altre in Italia. A tutto ciò non guasterebbe un aiuto dalla dea bendata, in un’annata ricca di suggestioni e in cui è più vivo che mai il ricordo di Diego Armando Maradona, ultimo Masaniello del popolo napoletano. Basterebbe dunque appellarsi alla fortuna. ‘O culo, numero 16. A Napoli non si compie peccato ad aggrapparsi alla sorte.