Si ritira Alberto Contador, ultima perla rara di un ciclismo fatto anche di stile.
È il momento della fine a dare un senso ciò che è accaduto prima. L’ultimo Grande Giro poteva essere una piatta passerella, con sorrisi alle televisioni e foto per i tifosi. Ma se quando hai 21 anni, da due sei un ciclista professionista e per una caduta il tuo cervello viene aperto per operare un aneurisma cerebrale, e dopo un anno torni a correre diventando nei successivi 13 il crono-scalatore più amato nell’era post-Pantani, uscire di scena come una persona normale non fa per te. Men che meno se il tuo nome è Alberto Contador Velasco. Nato a Pinto, vicino a Madrid, il 6 dicembre 1982, è uno dei sei uomini che nella storia del ciclismo hanno vinto almeno una volta Tour, Giro e Vuelta, ma è il più giovane di tutti a farlo, a 25 anni: ne ha vinti 7 in totale ed è l’unico, insieme al tasso Bernard Hinault, ad averli vinti tutti almeno due volte. Una carriera perfetta con la sola macchia della (molto) controversa bistecca avvelenata, e conseguente squalifica annuale con revoca di un Tour de France e un Giro d’Italia vinti tra 2010 e 2011. Eppure un vincente, un combattente. Sicuramente il più bello di tutti in sella. O meglio, in piedi. Perché quando inizia la salita e il cronista esclama: “Parte Contador!” – non “dice”, non si dice mai niente di Contador: lo si esclama o lo si acclama – è un brivido sulla pelle di tutti. Alto sui pedali, longilineo, la sua pedalata ha lo stesso impatto sul mondo che ha il pettinarsi di una ragazza al fiume. Apparentemente, non succede nulla. Ma per i fortunati che assistono allo spettacolo, quel momento non ha né prima né dopo: il Tempo smette di scorrere. Un eterno presente che si ripete cadenzato e si apre e si chiude in un gesto perfetto e naturale, come rassettarsi i capelli dietro l’orecchio. Solo chi c’era sa come, da allora, tra i granelli di Bellezza nell’Universo se ne conti uno in più, come l’orizzonte degli eventi ne esca increspato. Il leggero ed elegante ondulare che si sprigiona quando si issa sulle leve, quella farfalla che è il disegno scolpito nell’aria dalla sella del Pistolero va a mettersi, nella bacheca del Bello assoluto, tra le carezze alla sfera di Roberto Baggio e il rovescio di Roger Federer: dopo averli visti, non sei più la stessa persona.
Uno dei tanti video tributo, dove si può vedere la danza del pistolero
Se per una prima parte della carriera la sua conduzione di gara è stata più affine al suo nome e infatti soleva guadagnare nelle tappe a cronometro e gestire il vantaggio con pochi attacchi – “contador” in spagnolo vuol dire “contabile” – invece negli ultimi anni lo si è visto sferrare attacchi senza ritegno e fughe da lontano. Uno degli unici corridori con la voglia di vincere volendo spettacolo e sapendo di farlo, con la coscienza di giocarsi tutto: o salta il banco o salta lui, come ha fatto in questa ultima Vuelta. Un attacco ad ogni salita, tre settimane di “Parte Contador!”, tre settimane di pomeriggi da brivido e serate tra tifosi a parlarne, per far durare il più possibile quelle pendenze, quegli scatti, quei colpi di pistola.
Contador salendo a La Camperona con la maglia rossa del leader alla Vuelta 2014. Foto: BrakeThrough Media
Quest’anno non ne aveva sparato nemmeno uno: il pistolero ha tenuto il proiettile d’oro per l’ultima ascesa, il mostro dell’Angliru, scalato con la maestria e la forza di chi sa che sta dando il massimo all’ultimo appuntamento. Il Caso, nota divinità inesistente, ha messo sul percorso anche un piccolo simbolo della fine di un’epoca: Enric Mas, neo pro uscito dalla fondazione giovanile dello stesso Contador, a tirare per un poco e senza pretese il suo mentore e maestro. Ma Contador ha staccato tutti, ancora una volta. L’ultima. Il coro dei “Gracias Alberto” si è snodato per tutti i 3000km di strade e borghi del suo Paese e da lì in tutto il mondo; e non è quantificabile l’esplodere di un’emozione fatta di malinconia e gratitudine che ha invaso noi tifosi adoranti, riconoscenti a questo sport per avere generato un ultimo poeta di cui imparare i versi.
L’ultima salita, l’Alto de l’Agliru, incitato dal cronista: “Vamos Alberto vamos, lo tienes! Que sufrimiento, que dolor!”
Ora il ciclismo vive di altre tattiche, altre sfide: uno spettacolo diverso da quello in cui Contador era nato, un nuovo ciclismo che si sta ancora formando e in cui gli attacchi, la signorilità e l’eleganza del pistolero mancano già. Un onore essere stati il tuo bersaglio. Sparaci addosso, Alberto!
Di fronte a un'ingiustizia che sa di sconfitta, Nibali ci insegna a perseverare nella pazienza. Invece della burrasca, il mare calmo, prima che il sole sorga.
Luis Ocaña era per tutti l'uomo giusto per interrompere il dominio del Cannibale, ma sui pedali come nella vita era una tenebra a spingerlo avanti. Vincitore, non vincente.
Discussioni sul Tour de France 2018: dialogo-intervista multipla nella redazione ciclismo di Contrasti. Rispondono Alessandro Autieri, Davide Bernardini, Leonardo di Salvo, Alessandro Veronese, Francesco Zambianchi.