In un mondo privo di regole, c'è un posto che impone ancora la propria legge.
Nell’estate del 2010, Sky raggiungeva un accordo storico con la Lega Calcio; ad iniziare dalla prima giornata del campionato di Serie A, i telespettatori avrebbero potuto «godere» di uno spettacolo senza precedenti: entrare negli spogliatoi a pochi minuti dall’ingresso in campo delle due squadre. Un unico camera-men, tanto solo quanto più ingombrante per i calciatori, avrebbe permesso ai telespettatori un’esperienza unica, altrimenti inaccessibile: vedere i propri beniamini in mutande scambiarsi qualche chiacchiera – più sovente qualche urlaccio di incoraggiamento –, donare all’occhio luminoso della camera un ultimo sorriso per stemperare la tensione – o per far innamorare migliaia di telespettatrici da casa.
Così, per la prima volta nella storia, il Grande Fratello s’infiltrava nella «vita reale» dei calciatori professionisti. Una rivoluzione senza pari, un’emozione unica per tutti noi. Almeno fino alle prime due/tre volte. Prima cioè di rendersi conto che lo spettacolo offertoci non solo era inevitabilmente falso e falsato – chiunque, dinnanzi ad una telecamera, sente di dover recitare la propria parte – ma terribilmente e squallidamente pornografico. I giocatori, davanti alle telecamere, sono osceni, imbarazzanti come tutti noi: sembrano più stupidi del solito. Mentre si cambiano, gridano con lo sguardo un sentimento che dal loro disagio si trasferisce fino a noi (fino a quelli di noi, perlomeno, che hanno giocato a calcio nella propria vita).
Dietro al porno della ripresa negli spogliatoi si cela qualcosa di più profondo – ciò che accade d’altronde anche nella pornografia in senso stretto: ci si fonde totalmente, e inconsapevolmente, con l’oggetto del desiderio. In questo modo, noi crediamo di entrare negli spogliatoi, ma ce ne stiamo solo più rigorosamente distaccando. Il che, d’altra parte, è un gran bene – il porno, pur negativamente, educa sempre. I giocatori, infatti, i soggetti del porno, osceni fino al ridicolo, detestano essere ripresi. L’ultimo spazio sacro rimasto loro, l’ultimo angolo di terra in cui potersi prendere a parolacce, eventualmente far la pace, risolvere i problemi con una sana scazzottata di gruppo o applicando un gerarchico bullismo all’ultimo – magari strapagato – arrivato; la legge dello spogliatoio, residuo arcaico di una società ormai in frantumi, cade dinnanzi alla ripresa delle telecamere.
L’importanza di uno spogliatoio la si comprende dalla reazione di CR7 – il superuomo Cristiano Ronaldo – che, ripreso dalle telecamere prima del big match contro il Napoli nel marzo del 2019, intima stizzito al cameramen di allontanarsi immediatamente da lui. Lui, proprio CR7, lo strapagato ultra-miliardario icona social, fotografato 24 h su 24, persino nella propria abitazione, persino lui, l’uomo più iconico nel mondo del pallone, si spazientisce quando viene inquadrato da un’innocua telecamera nello spogliatoio.
Ve li immaginate quei ragazzi brutti, sporchi e cattivi allenati dal mister dei mister, Tommaso Maestrelli detto “Il Maestro” (mica a caso), ce li vedete, voi, Chinaglia, Martini, Wilson, darsele di santa ragione – leggi anche: tirar fuori la pistola per la minima marachella – dinnanzi alle telecamere? Chiaramente no. Certi problemi vanno risolti nel segreto dello spogliatoio. Certe coppe – lo dimostra il video con cui Zidane carica i suoi all’intervallo della finale di Champions 2017 (vedi sotto) – si vincono con poche e misurate parole nel silenzio dello spogliatoio. Altre volte, invece, basta sfogarsi per qualche minuto, appiccicarsi al muro e risolverla tra uomini – horribile dictu. Forse lo spogliatoio, da questo punto di vista, rimane oggi anche l’unico luogo al mondo nel quale l’uomo può essere uomo senza sentirsi in colpa.
Non si impara molto, a scuola. Nello spogliatoio, invece, si impara tutto (così Camus, tra gli intellettuali).
Meglio, si apprende il rispetto reciproco, si apprende il sacro valore della gerarchia, la forza del gruppo la cui unione fa la forza del singolo, e non viceversa. Si impara a vivere e convivere, a piangere e sentirsi umiliati, a crescere come persone non in virtù di qualche stramba imposizione moralistica ma per il bene di tutti. Nello spogliatoio non si sceglie di diventare grandi; lo si diventa senza accorgersene. La purezza di questa massima è confermata dall’esperienza di ciascuno di noi. Chi è cresciuto in un campo di calcio lo sa bene, perché prima di esperirlo non lo sapeva affatto.
Lo sanno le grandi società che, lontane dai riflettori dei social e del marketing vomitato in faccia alla “fanbase” sparsa in giro per il mondo, possono sempre contare, a livello tecnico e sportivo, a livello prestazionale, sui “leader” dello spogliatoio. Perché mai Lotito avrebbe comprato Pepe Reina? Perché mai Buffon rimane fondamentale (come Chiellini) per la Juventus? Perché Ibrahimovic è stato (ri)presentato in pompa magna dal Milan? Tutti questi grandissimi ma ormai attempati calciatori condividono l’uno con l’altro una qualità indispensabile per compattare il gruppo e renderlo vincente: la leadership.
Il discorso di Zidane nell’intervallo della finale di Champions del 2017, poi vinta 4-1 dal Real Madrid
Nel libro Le undici virtù del leader, Jorge Valdano definisce lo spogliatoio un habitat. In quest’habitat convivono «furbi, stupidi, gentili, ombrosi, buoni, cattivi, coraggiosi, vigliacchi, vanitosi, umili, leader, gregari. Il cemento che unisce quei tasselli così diversi è la generosità di alcuni». Non è difficile capire quindi perché oggi un allenatore deve essere prima un abile psicologo e solo poi un preparato matematico. In un mondo ormai pienamente orwelliano, i calciatori sono come degli attori che vanno in scena nella vita reale. L’unico momento autentico è quello in cui inizia lo spettacolo – cioè la partita, paradosso dei paradossi.
I calciatori bisogna saperli prendere. Già quando si è piccoli è difficile gestire certe dinamiche senza il rischio di venire emarginati. Figuriamoci da “adulti”, per giunta a livelli alti se non altissimi, quando una sola parola può recidere un’intera stagione. L’allenatore deve interessarsi il giusto, cioè disinteressarsi. Come Maestrelli, appunto, che lasciava i suoi ragazzi liberi di ammazzarsi per poi amarsi nei 90’: «Chiaritevi, quando avete finito bussate e vengo ad aprirvi», diceva sempre.
«Uno spogliatoio è l’esatto contrario dei famosi non-luoghi di Marc Augé. È un iper-luogo, dove si crea l’anima della squadra e regna un realismo magico. È un contenitore di simboli con riti auto-referenziali e pseudo-religiosi. Un leader non si sceglie, si impone con il suo curriculum di credibilità» (Bruno Barba, Un antropologo nel pallone).
Si può rimanere scioccati da certe affermazioni. Come quando Diego Armando Maradona, commentando l’episodio del tradimento di Icardi nei confronti di Maxi Lopez, asseriva pacatamente che: «Ai nostri tempi, se qualcuno osava guardare la donna di un compagno, nello spogliatoio ci mettevamo a turno per prenderlo a pugni». Parlare dello spogliatoio come luogo fondamentale per una squadra di professionisti strapagati ed egocentrici può risultare scandaloso. Ma come? Risolverla da bruti? E il dialogo? E la società che parla dall’alto? Sappiamo tutti come va a finire quando ci si intromette tra compagni di squadra (il caso Napoli-Edoardo De Laurentiis è in questo senso emblematico). I panni sporchi si lavano in casa; la casa dei giocatori è lo spogliatoio.
Che i giocatori non gradiscano le telecamere, è probabile. Che l’iper-luogo dello spogliatoio serva loro per risolvere le cose in maniera arcaica e primitiva, questo è certo. Che alcuni calciatori gradiscano avere gli occhi su di sé proprio per poter fregare tutti alle spalle, è altrettanto probabile. Non serve Orwell né Augé, né Carmelo Bene, per spiegarlo. Solo chi ha vissuto il sudore, il sangue e le risate di uno spogliatoio, può davvero capire cosa significhi viverci dentro. Non esiste preparazione, per una cosa così. Non esiste spiegazione. Ed è proprio per questo che lo spogliatoio resiste ancora oggi alla secolarizzazione del nostro tempo.
In copertina: i giocatori dell’Ipswich Town si riposano al termine del replay del terzo turno della FA Cup disputato contro l’Aston Villa, 11 gennaio 1939 (foto da London Express/Getty Images)