Il recente botta e risposta tra Ibrahimovic e Lebron ha riacceso il soporifero dibattito inerente la legittimità delle prese di posizione politiche degli atleti. Soporifero non per mancanza di netflixiani plot-twist e godibili baruffe, ma per quella sua certa attitudine – in vero anch’essa molto netflixiana – a basarsi su canovacci triti e ritriti, imbellettati a seconda della moda del momento: da un lato i puri, sempre, che non accettano che lo sport venga utilizzato dalla politica per ottenere consensi. Dall’altra i giusti, ovvero chi tramite lo sport non fa di certo politica (ormai un tabù) bensì aiuta il mondo a progredire.
Per evitare di cadere in facili partitismi sembra necessario affrontare il problema del ruolo politico degli sportivi promuovendo una discussione diversa, che superi tale tipo di schermaglie e soprattutto che riconferisca spessore umano alla figura dell’atleta, in accordo con le parole di Ibrahimovic.
“Fai quello in cui sei bravo”
Tutto è iniziato quando in un’intervista rilasciata a Discovery+ Sport lo svedese ha criticato l’esposizione politica del suo ex concittadino di Los Angeles: «Quello che fa LeBron è fenomenale, però non mi piace quando le persone con qualche tipo di ‘status’ parlano di politica. Fai quello in cui sei bravo. Fai quello che fai. Io gioco a calcio perché sono il migliore nel giocare a calcio». L’attivismo politico imputato a Lebron è quello relativo alle battaglie contro le discriminazioni portato avanti da Black Lives Matter, ovvero «l’intervento ideologico e politico in un mondo in cui le vite dei neri sono sistematicamente e intenzionalmente colpite a morte», secondo una delle sue tre fondatrici Alicia Garza.
“Non starò mai zitto contro qualcosa di sbagliato”, ha risposto prontamente il giocatore NBA. “Non potrò mai limitarmi allo sport perché conosco questa piattaforma e quanto sia potente la mia voce, […] (Ibrahimovic) Può semplicemente chiedere a Renee Montgomery cosa sarebbe accaduto se avessi taciuto e dribblato la questione.”
Renee Montgomery, per la cronaca, è un’ex giocatrice WNBA che, grazie all’appoggio di Lebron e della sua no-profit More than a vote, è riuscita ad acquisire insieme a due soci il club Atlanta Dream. James e la sua organizzazione, secondo Renee, sono stati “la connessione con le persone giuste per rendere il sogno realtà”.
Negli stessi giorni sulle pagine del Guardian Etan Thomas, ex-giocatore NBA che ora si definisce poeta, attivista e motivatore, ha parlato dell’attacco di Ibrahimovic a Lebron come di un “eco dell’ipocrisia della destra americana”, paragonandolo a quello della giornalista di Fox News Laura Ingraham che aveva chiesto a James di “stare zitto e dribblare” in risposta alle sue critiche del 2018 all’amministrazione Trump (la giornalista stava sostanzialmente auto-citando il suo best-seller del 2003 dal titolo Zitti e cantate, nel quale aveva criticato celebrità come Barbra Streisand per il forte impegno politico contro l’allora presidente George W. Bush).
Il punto però non è certo censurare gli atleti che vogliono esporsi “politicamente”, e in tal senso le critiche agli sportivi che trattano temi sociali mancano clamorosamente il bersaglio: è questa una narrazione fallace, quella del zitti e giocate – controalimentata anche dalla risposta di Lebron e dal suo “non mi metterete mai a tacere” – che va evitata come una pericolosa trappola, pena la riproposizione stantia del conflitto e nessuna possibilità di superamento. Bisogna invece capire di quali sportivi e di quale politica stiamo parlando.
Quando Mura assolse Balotelli
Lebron forse non seguiva ancora il calcio italiano quando si verificò il culmine di quella che, ai posteri, potremmo tramandare come “L’era di Balotelli il Folle”, temuto come un Caligola pallonaro o assecondato al pari di un allegro Eulenspiegel a seconda dei punti di vista, ma soprattutto personaggio mediatico dominante la narrazione sportiva italiana a partire dagli anni dieci del ventunesimo secolo.
Nel suo Sei passeggiate nei boschi narrativi (trascrizione di sei letture tenute presso l’università di Harvard), Umberto Eco esaltò l’importanza della figura del “matto” in letteratura, al quale, per definizione, va spiegato tutto nei minimi dettagli, con risultati comunque deludenti. Per il lettore però la spiegazione è funzionale a comprendere le sottigliezze della trama del romanzo e allora, sperando possa assolvere alla sua funzione anche per chiarire la natura dei rapporti oggi esistenti tra sport e politica, parliamo di Balotelli, “matto” per eccellenza del nostro calcio.
Balotelli è stato fondamentalmente un calciatore che, in un certo periodo della sua carriera, ha avuto un’esposizione mediatica non conforme alle sue gesta sportive. Ne parlò Prandelli nel giugno 2013, quando era ancora il suo Ct, intervistato da Gianni Mura in occasione di Macchie d’azzurro, un evento ideato da La Repubblica:
“A livello mediatico, non è uguale agli altri: giriamo il mondo con campioni come Buffon e Pirlo, e il più osannato è Balotelli. I ragazzini impazziscono per lui e il fatto che lo abbiano accettato, che abbiano deciso che poteva essere il nuovo simbolo dell’Italia, un ragazzo di colore che veste la maglia della Nazionale.
Vuol dire che forse i ragazzi sono più avanti di noi adulti, hanno superato certe barriere. Però quello che gli chiediamo è di fare il calciatore di una squadra, non il personaggio”.
L’intervista arrivava con la Confederations Cup alle porte, e la tirata d’orecchi di Prandelli si riferiva alla sfuriata di Mario dopo l’espulsione che si era procurato nell’ultimo turno delle qualificazioni mondiali contro la Repubblica Ceca (due ammonizioni in 5 minuti), e quindi all’anacronistico invito che aveva rivolto ai suoi fan su twitter di tifare un’altra nazionale di lì in avanti (perché? Chi lo sa).
È sorprendente notare come al nuovo simbolo dell’Italia Balotelli venisse richiesto di “fare il calciatore di una squadra, non il personaggio”. Trattasi di una contraddizione in termini fondamentale sulla quale torneremo. Ma per adesso soffermiamoci sul pazzo Balotelli, che invita i suoi connazionali a tifare un’altra nazione rispetto a quella della quale dovrebbe essere il “nuovo simbolo” e pochi mesi dopo, in un crescendo di follia, si mette pure a rifiutare il suo ruolo anti-camorra.
È il 13 ottobre e ancora una volta dal suo profilo twitter Mario lancia una stoccata delle sue, dopo aver letto un titolo della Gazzetta dello Sport che lo definisce “simbolo anticamorra” per via della partita che la nazionale sta per giocare nel comune di Quarto (provincia di Napoli), in un campo confiscato alla malavita. È più uno sfogo a dire il vero, uno sfogo sgrammaticato e pieno di punti esclamativi:
«Questo lo dite voi! – tuona Mario – Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c’è la partita!»
La reazione della stampa e della politica italiana è facile da immaginare: si grida allo scandalo, per lo più, e si richiede gentilmente la testa del 23enne. Il prete anticamorra Aniello Manganiello, parroco a Scampia dal 1994 al 2010, si domanda ai microfoni di Radio 24 se Balotelli «abbia ancora diritto ad essere convocato nella Nazionale». Tra le mille levate di forconi si distingue però, provvidenzialmente, un fondo di Repubblica intitolato: Non usiamolo come simbolo. Rassegnatevi, non è Thuram. L’articolo è a firma Gianni Mura e dà una visione molto diversa dell’accaduto.
Impavidamente Mura difende Mario dalle critiche e ricorda che se si viene innalzati a simboli inconsapevoli poi la liberazione dalle aspettative altrui non può essere considerata un gesto deprecabile. Nel dire ciò si riferisce al “simbolo” Balotelli nella sua interezza, quindi anche al Balotelli simbolo anti-razzismo del quale parlava Prandelli:
«[…] Si sta esagerando l’importanza di Balotelli, sia come calciatore sia come simbolo. E non da oggi. Questo almeno è il mio parere. […] Non c’è bisogno di spiegargli cosa sia il razzismo: ci convive da quando è nato e ancor più da quando ha cominciato a tirare calci a un pallone. Ma non è Thuram. Thuram ha studiato la storia dell’Africa, dai Faraoni all’isola di Goree, sa di Lincoln e di Mandela. Thuram, sul campo e fuori, è un vero protagonista della lotta contro il razzismo. Balotelli no, tant’è che all’incontro con il ministro Kyenge non s’è presentato. È ignorante, nel senso che non sa, o non ancora. Idem per la camorra».
“Lo difendo, in questo caso, perché in una battaglia, di civiltà e culturale, si possono arruolare solo volontari consapevoli e motivati, altrimenti è un’operazione di facciata”.
Guardando oltre la legittimità del tweet di Balotelli, ciò che mirabilmente Gianni Mura mise in evidenza fu la possibilità che gli sportivi, in un mondo oltremodo mediatizzato, potessero divenire paladini di una battaglia politica loro malgrado. Il suo Balotelli è un personaggio capace di rendere manifeste due sponde altrimenti sommerse: è al confine tra la propria libertà d’opinione e la spinta della società a farne un simbolo.
Questo conflitto non rappresenta un unicum nella storia sportiva in generale – probabilmente non tutti gli atleti dell’Italia fascista erano lieti di salutare romanamente – ma è certamente uno scandalo per una società che si considera democratica e tutelante le libertà dell’individuo, nella quale le spinte totalitarie e conformatrici vengono temute come la peste. Uno scandalo che ci obbliga a riflettere su quanta libertà abbia qualunque sportivo se privo dei mezzi per poter operare una scelta morale, e quindi su quale sia l’impatto sulla società di messaggi politici veicolati ad un pubblico di massa a prescindere dalla consapevolezza di chi li esprime.
Contro le icone a prescindere
Alla luce del discorso di Mura e delle numerose iniziative politiche che i singoli, le squadre o addirittura le federazioni possono intraprendere sfruttando la propria cassa di risonanza, le parole di Ibrahimovic assumono una profondità della quale sarebbe stupido non tenere conto: quando afferma che gli atleti “di un certo status” non dovrebbero schierarsi politicamente, sta di fatto dando per assodato che l’impatto sulla società delle dichiarazioni di un atleta molto esposto non corrisponda mai al suo livello di consapevolezza dei temi trattati. Ciò è forse semplicistico, certo, ma pone il problema della consapevolezza anziché quello della censura.
L’opposizione che le sue parole fanno emergere non è quindi, come afferma Lebron, quella tra l’esporsi e lo “stare zitto”, ma tra l’esporsi consapevolmente e l’esporsi inconsapevolmente, alla Balotelli, con il rischio di fare danni. Se infatti altre caratteristiche dell’individuo divengono “elemento di consapevolezza politica” a discapito della ricerca intellettuale, c’è il forte rischio che le questioni vengano affrontate sempre più superficialmente, compiendo errori imperdonabili.
Addirittura Massimo Gramellini, che autoironicamente si è definito più volte “buonista” (con tutte le connotazioni politiche del caso), in uno dei suoi caffè per il Corriere della Sera parlò dell’esposizione mediatica di Balotelli denunciando la presenza nella nostra società dei bravi a prescindere. Era il 23 agosto 2014 e l’Italia era da poco uscita rovinosamente dai Mondiali in Brasile (col senno di poi, l’inizio della fine per la carriera di Super Mario):
«Prandelli e Balotelli, gli eroi negativi dell’ultimo Mondiale, si sono appena accasati all’estero con stipendi raddoppiati. Pur non essendo dei fenomeni, sono delle icone: uno del buonismo e l’altro del cattivismo. Il loro è solo l’ultimo esempio di una tendenza universale che privilegia l’immagine alla bravura, i venditori di forma ai costruttori di sostanza. […] Le energie che gli altri, i perdenti, mettono nell’attività specifica, essi le concentrano sulla comunicazione». E ancora:
«Godono di una fama immeritata ma luccicante e le loro banalità, pronunciate sempre nel luogo o sul “social” giusto, oscurano le manifestazioni di intelligenza di chi fatica nell’ombra. […] Un mio amico li chiamava “bravi a prescindere».
La sensazione è che però, provando a fare lo stesso discorso di Mura privandolo del suo concetto base, ovvero l’assenza di consapevolezza di Mario, le sue argomentazioni siano discutibili: l’articolo inizia citando Prandelli e Balotelli come “icone del buonismo e del cattivismo”, e poi, grottescamente, addossa a Balotelli la colpa di essere lui stesso il fautore della sua fama, di tramare per essere esposto mediaticamente (forse Gramellini non conosceva i suoi tweet pre-Quarto), ignorando o fingendo di ignorare che per essere un’icona bisogna essere riconosciuti da delle persone come tale.
Perché Balotelli non gioca a calcio per divenire un’icona del cattivismo, ma semmai diviene “cattivo” quando si stufa di essere un’icona a prescindere, trovata lessicale ben più adatta a casi di questo genere. Icona “a prescindere” dalla propria volontà. Icona creata da altri con la sola finalità di ottenere consenso o narrazioni di comodo, ancora una volta, a prescindere dalla consapevolezza del soggetto interessato. Magari Balotelli non voleva diventare “un simbolo” di niente e nessuno, ma solo giocare a calcio; così, nel momento in cui è costretto a diventare un’icona, diventa per reazione un’icona del cattivismo.
Anche gli atleti sono uomini,
che hanno scelto di fare gli atleti
Constatato che Ibra con le sue parole abbia di fatto auspicato la fine dell’era delle icone a prescindere, che abbia denunciato la discrepanza fra impatto sociale e consapevolezza politica degli atleti, e forse alla sua maniera rinforzato il pensiero di intellettuali come Borislav Pekić, che si augurava una “rivoluzione aristocratica” che ponesse fine, per dirla alla Gramellini, all’«oscurazione delle manifestazioni di intelligenza di chi fatica nell’ombra», la risposta di Lebron appare di fatto escludere ogni possibilità di superamento del problema (che c’è ed è urgente).
Paventando la possibilità che qualcuno (chi? Ibra?) lo “mettesse a tacere” non ha fatto altro che sostituire a una questione ben più complessa le solite beghe fra partiti.
Nessuno si sogna di zittire Lebron, la vera soluzione al problema non può essere e non sarà mai il divieto di espressione politica, poiché la storia ci insegna che anche il non poter parlare è a sua volta un messaggio. Il divieto di esporsi è un messaggio politico anche quando sono spinte commerciali a imporlo: quando Michael Jordan spiegò che la sua apartiticità era dovuta al fatto che «anche i repubblicani comprassero sneakers» di fatto mantenne la sua imparzialità, ma promosse una visione dell’esistenza nella quale la possibilità di ottenere denaro mette sempre in secondo piano qualunque convinzione personale.
La soluzione al problema, d’altro canto, non può essere nemmeno l’esatto opposto del divieto, vale a dire l’obbligo per tutti gli atleti di informarsi sulle questioni politiche e divenire quindi degli intellettuali in grado di operare scelte morali. Se così fosse, prima di concedere il proprio volto a estemporanei tocchi di rossetto, i calciatori dovrebbero aver pubblicato in qualsiasi forma il proprio pensiero riguardo la parità di genere, la violenza in una società e la violenza contro le donne. Un’assurdità che ci fa ridere al solo pensiero.
Forse ancora una volta, per superare l’impasse, bisognerebbe prendere come riferimento l’articolo di Gianni Mura più volte citato, che non auspica la censura di Balotelli, né tantomeno si aspetta che egli divenga per magia Thuram. Mura afferma semplicemente che Balotelli è Balotelli, e Thuram è Thuram, quindi i due non devono essere considerati sullo stesso piano (politico-culturale, si intende).
Smettiamo allora di dipingere gli sportivi come persone prive di credo e interessi ma non ne facciamo simboli a prescindere, conformi peraltro a un’immagine limitata e limitante. In fondo una società che non è pronta ad accettare la libera opinione di un calciatore – che sia di parte, razzista o addirittura blasfema – senza il timore di implodere, è una società che non ha assolutamente fiducia nei propri cittadini.
Torniamo a trattare gli atleti come uomini, quindi, perché questo sono, e a garantire loro le libertà che vengono garantite ai comuni cittadini.
Nessuno si sogna di obbligare le persone comuni a mettere il rossetto sulla guancia in segno di vicinanza alle campagne contro le violenze sulle donne, e quindi non c’è motivo per cui gli sportivi debbano essere utilizzati – in base ad accordi stipulati da organizzazioni alle quali hanno delegato il consenso, certo, ma torna sempre la parolina magica, quanto consapevolmente? – come casse di risonanza per messaggi politici. Torniamo a trattare gli atleti come uomini, a considerare le loro opinioni politiche al pari di quelle dei comuni cittadini; e quindi, questo è il succo, a non considerarle.
Se poi uno di loro, come Thuram, deciderà di dedicarsi ad un impegno politico consapevole nelle sedi opportune, tutto di guadagnato. Starà agli uomini di pensiero del paese valutare le sue idee, attaccarle, farle proprie. Ma che siano gli stessi atleti con coscienza politica a mettere in evidenza la loro diversità rispetto ai propri colleghi, e che sia il pubblico a riconoscerne la loro particolarità. Perché se è vero che possono nascere persone in grado di eccellere in due mestieri differenti, è altrettanto vero che queste persone sono una rarità, e che di norma gli atleti sono uomini che hanno scelto di fare gli atleti. Non i politici.