Editoriali
20 Dicembre 2022

Considerazioni impolitiche sullo sport

(Non) tutto è politica: di regole ed eccezioni.

Nelle ultime settimane, durante la kermesse qatariota, in molti ci hanno rimproverato una presunta incoerenza sul tema dello sport e della politica; o meglio degli sportivi che “fanno” politica. Inizialmente credevamo fosse un problema del pubblico, quello di non aver compreso la linea editoriale contrastiana sul tema, ma laddove molti (anche in buona fede, anche perspicaci) non afferrano un concetto, il problema evidentemente è di chi non si spiega abbastanza bene, o si lascia fraintendere. Perciò in queste righe, per chi fosse interessato alla materia, ci piacerebbe chiarire la nostra posizione sul legame – inscindibile – tra sport e politica.

Diceva Thomas Mann che “l’apoliticità non esiste, tutto è politica”, e aveva ragione. Un concetto ancor più valido se espresso dall’autore di un libro intitolato Considerazioni di un impolitico, un mattone Adelphi di 600 pagine che Davide Brullo su Pangea definisce ‘la bibbia di ogni conservatore’, e in cui Mann condanna senza mezzi termini la politicizzazione della Germania. Ma a parte Thomas Mann, una buona idea per un regalo di Natale rivoluzionario-reazionario, ciò che ci interessa è il concetto generale: tutto è politica. Non solo l’attivismo o la militanza in associazioni, movimenti, partiti ma anche le prese di posizione, le dichiarazioni, i gesti.

Tuttavia, per fare ordine e non derubricare qualsiasi cosa a ‘politica’, dobbiamo fare delle distinzioni. Perché se è vero che tutto è politica, dal “governo ladro” urlato dall’ubriacone al bar di paese al programma elettorale di un partito, non tutto può essere valorizzato, considerato e descritto come politica – nel senso di un qualcosa che interpreta, orienta, magari trasforma la società. Si potrebbe dire con un sofismo che tutto è politico ma non tutto è politica, o più semplicemente si potrebbe parlare di politica fatta consapevolmente e inconsapevolmente.



Nel caso dello sport è proprio qui che sta la distinzione, distinzione che segna (secondo noi) il confine tra gli sportivi che fanno o meno politica. Ne parlava già il compianto Gianni Mura su Repubblica, ormai quasi dieci anni fa, in un pezzo ispirato da Balotelli e dal titolo ‘Non usiamolo come simbolo. Rassegnatevi, non è Thuram’ (ripreso già in questo editoriale di Valerio Santori). Dopo aver illustrato come Balotelli fosse tecnicamente “ignorante”, a differenza di Thuram che «ha studiato la storia dell’Africa, dai Faraoni all’isola di Goree, sa di Lincoln e di Mandela» e dunque «sul campo e fuori, è un vero protagonista della lotta contro il razzismo», Gianni Mura aveva esposto l’architrave del suo discorso:

«In una battaglia, di civiltà e culturale, si possono arruolare solo volontari consapevoli e motivati, altrimenti è un’operazione di facciata».

Parole a suo modo profetiche. Chissà se avrebbe avuto il coraggio di scriverle oggi, mentre in Qatar andava in scena la più grande operazione di facciata politico-calcistica mondiale; non solo ad opera degli emiri, ma anche di chi ha inscenato una contestazione tardiva, ipocrita, velleitaria e un po’ vigliacca. ‘Volontari’ (pure su questo avremmo dei dubbi) che tutto erano fuorché consapevoli e motivati. La verità è che abbiamo voluto trasformare degli sportivi ignoranti e disinteressati – nel migliore dei casi indottrinati da sponsor e dirigenti, nel peggiore relegati ad influencer del si dice contemporaneo – in rappresentanti di battaglie di civiltà e culturali. E lo abbiamo fatto solo perché ci piacevano quei messaggi.

Così il paladino dei diritti civili in Qatar diventa Manuel Neuer, capitano della Germania e della protesta tedesca contro la FIFA, che due anni fa stava in barca con i nazifascisti croati a intonare la canzone di tale Thompson – frontman dell’omonima band ultranazionalista e nostalgica degli Ustascia, i collaborazionisti dell’Asse durante la seconda guerra mondiale – e ora difende i diritti delle minoranze, le stesse perseguitate dai riferimenti ideologici dei suoi amici barcaroli; Thompson citato qualche giorno fa da Repubblica, la Stampa, il Corriere della Sera etc. in articoli-scandalo come questo: ‘La Croazia festeggia con le canzoni del neonazista Thompson: un brano celebra i campi di concentramento’.

Gli stessi giornali che glorificavano la coscienza civile del capitano tedesco, insomma, hanno messo alla sbarra i croati per aver cantato la medesima canzone, parlando di «festeggiamenti da dimenticare al più presto» e di una band neonazista che «celebra il campo di concentramento di Jasenovac dove, tra il 1941 e il 1945, sono morte 83mila persone tra serbi, ebrei e rom». Omettendo tutti, ça va sans dire, qualsiasi riferimento al portierone del Bayern. Ma al di là delle “dimenticanze” giornalistiche, il punto è un altro: l’agente di Neuer, commentando l’accaduto, aveva specificato al tempo come il suo assistito non parlasse il croato – seppure la canzone sembrasse conoscerla piuttosto bene.

In ogni caso, delle due l’una: o Neuer era inconsapevole, dei suoi accompagnatori e del testo, o non è il rappresentante più credibile del mondo LGBTQIA+∞.

C’è pure una terza via, plausibile, secondo cui Neuer non ha alcuna coscienza critica e si lascia trascinare dalla corrente del momento: una volta i fascisti croati, un’altra le associazioni arcobaleno. Ipotesi anch’essa applicabile, in linea teorica, agli sportivi politici odierni – in fondo le masse si sono sempre mosse per conformismo e, come ricordava Churchill, possono essere fasciste oggi e antifasciste domani. Questa è la ‘consapevolezza’ del principale e più agguerrito testimonial occidentale dei diritti civili in Qatar; per non parlare della ‘motivazione’ dei nostri, ad esempio quella di indossare la fascia ‘One Love’ in sostegno alla comunità LGBTQIA+, presto fiaccata dalla semplice minaccia di un cartellino giallo.

C’è da dire che era il luglio 2020. In due anni cambiano tante cose

Ma davvero vogliamo farci rappresentare “politicamente” da questi personaggi? Veramente crediamo che stiano facendo politica, consapevoli e motivati? Ma a che punto di negazione della realtà, di equilibrismo intellettuale e di malafede siamo arrivati? Per questo è disonesto, e paraculo, racchiudere tutto sotto l’etichetta di politica senza il coraggio di fare distinzioni: tanto il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos – che scontarono il proprio gesto venendo espulsi dalle selezione statunitense e dal villaggio olimpico, dovendo poi abbandonare la carriera di duecentisti tra ritorsioni e minacce di morte – quanto la mano sulla bocca dei tedeschi, ammissione non solo della censura della FIFA, ma anche della loro rinuncia a portare avanti una causa in cui “credevano”.

Il problema allora non è Neuer, è nostro. Nostro che facciamo di Goretzka un simbolo dell’antifascismo solo perché posa in canottiera con la bandiera Kein Fußball den Faschisten; di Bernardeschi un testimonial del mondo LGBT perché si pittura la mano di arcobaleno in diretta nazionale; dei britannici un modello di coscienza civile e storia critica perché si inginocchiano contro le discriminazioni razziali; delle federazioni calcistiche europee un avamposto di civiltà nell’oscurantismo qatariota perché indossano (pardon, vorrebbero indossare) una fascia in sostegno a tutti i tipi di amore del mondo.

Nella società dello spettacolo di Debordiana memoria, e per spettacolo si intende «il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine», le immagini sono più vive delle persone e tutto si trasforma pian piano in immagine. Nulla sfugge alla dittatura e alla riduzione dell’immagine, neanche la politica di professione. Figuriamoci quella sportiva, che di consapevolezza e/o motivazione ne ha sempre meno e dunque, murianamente, fatica ancor di più ad essere politica e non propaganda (“operazione di facciata”). Perché poi, diciamolo, non tutti sono in grado di fare politica.

Fanno politica i già citati Smith e Carlos; fa politica Carlos Caszely, esponendosi contro la dittatura di Pinochet; fanno politica i consapevoli Socrates e Sollier.

Fa politica Breitner, comunista in un luogo (la Germania occidentale) e in anni (i’ 70) in cui esserlo causava dei rischi professionali e non solo; fa politica Enes Kanter, che ha dovuto scordarsi la sua terra per le critiche ad Erdogan (mentre sono tutti d’accordo che il Basaksehir faccia propaganda, no? ma allora cosa stabilisce il confine?); fa politica Thuram e fa politica anche il capitano islamico di turno che, per via delle sue convinzioni religiose, rifiuta di indossare la fascia arcobaleno – venendo stigmatizzato dalla stampa, ma sempre con il timido imbarazzo di chi è finito nel cortocircuito del rispetto delle minoranze.



Come possiamo pensare che la nostra attuale ‘politica’ sportiva sia anche solo lontanamente paragonabile a questi casi? Mai una volta che avessimo sentito dai nostri un ragionamento articolato e originale (basterebbe quello), o visto il coraggio di andare fino in fondo per le proprie convinzioni. Era sufficiente anche una fascia o una bandiera portata in campo, contro le minacce qatariote, e anche quella sarebbe stata politica: perché la politica può assumere qualsiasi orientamento e qualsivoglia forma, basta che sia consapevole e/o sentita. Invece no, siamo andati avanti per mesi con proteste social, dichiarazioni pseudo-polemiche, note di sdegno, iniziative annunciate e poi ritirate.

Con la FIFA divenuta facile capro espiatorio di tutte le vigliaccherie e contraddizioni del mondo occidentale.

Così gli sportivi si sono trovati a dover essere il terminale – e i rappresentanti – di battaglie che non avevano i mezzi e la volontà per portare avanti. In questa scomodissima posizione di volti immagine, neanche fossero Cristiano Ronaldo col CEPU, è più che comprensibile la reazione di gente come Hazard e Xhaka, che ha ripetuto all’unisono: «noi siamo qui per giocare, non per dare lezioni politiche». Perché ben venga quella minoranza di sportivi che può e vuole fare politica, ma non si può pretendere dagli sportivi che abbiano necessariamente un’idea (la nostra) e che siano disposti a fare obbligo di testimonianza. Trattati come testimonial d’eccellenza, attori di copioni scritti da altri, sportivi usa e getta per battaglie usa e getta.

Influencer passivi di tutte le nuove coordinate dello spettacolo occidentale: i vaccini, l’ambiente, l’Ucraina, i diritti civili, le discriminazioni. Temi che segnano il confine tra il bene e il male. Se escono dal canovaccio prestabilito, sono degli ignoranti che non capiscono nulla; se lo seguono, dei modelli di coscienza civile. Ma non sono loro che stanno facendo politica, siamo noi. Ecco perché agli sportivi vogliamo lanciare un appello: studiate, se siete l’eccezione; fregatevene, se siete la regola. Che non vuol dire shut up and play bensì parla, ma solo se hai qualcosa da dire.

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