Calcio
05 Dicembre 2019

Gli sportivi e la politica, una breve storia conformista

Le battaglie degli sportivi sono, ormai, l'infallibile ritornello del mediaticamente corretto.

È di alcuni giorni fa la notizia dell’invito a Colin Kaepernick, da parte della National Football League, per partecipare ad una sessione privata di allenamento aperta agli osservatori delle 32 squadre del campionato professionistico americano. Chi, tra coloro che seguono con avido interesse sia la politica che lo sport, non conosce Colin Kaepernick?

 

Colin è un giocatore di football che, nell’estate del 2016, iniziò ad inginocchiarsi durante l’inno statunitense prima di ogni partita di NFL (la lega di football Stars and Stripes), in segno di protesta contro le violenze della polizia nei confronti degli afroamericani. Il quarterback, allora in forza ai San Francisco 49ers, venne notato dopo qualche gara e spiegò ai giornalisti che non intendeva onorare un Paese in cui la minoranza nera veniva repressa.

 

Da lì iniziarono la notorietà fuori dal campo ed un aspro dibattito politico che, sebbene iniziato sotto la presidenza Obama, chiamò in causa anche l’attuale inquilino della Casa Bianca Donald Trump (che ovviamente non si sottrasse). D’altronde la violenza delle forze dell’ordine statunitensi è risaputa e costituisce un annoso problema, che affonda le sue radici sia nella mentalità del cittadino – propensa all’autodifesa ed all’uso smodato delle armi da fuoco, conseguentemente maggiore tra i poliziotti -, sia nelle forme brutali, soprattutto “periferiche”, che può assumere la criminalità statunitense.

 

La copertina del Time dedicata a Colin

 

Kaepernick allora, con la sua sacrosanta protesta, ha voluto puntare il dito contro la discriminazione razziale che sembra contraddistinguere l’operato degli agenti. Secondo il sito Mapping Police Violence, il quale conteggia le vittime degli interventi di polizia, i morti sono stati 1.149 nel 2014, 1.307 nel 2015, 1.152 nel 2016, 1.147 nel 2017 e 1.164 nel 2018, ma il dato che più indigna l’opinione pubblica – e fa infuriare il dibattito – riguarda la possibilità che un afroamericano ci rimetta la vita: 2-2,5 volte maggiore rispetto ad un bianco.

“Corri, negro, corri, o la ronda ti acchiappa
Corri, negro, corri, è quasi giorno
Corri, negro, corri, o la ronda ti acchiappa
Corri, negro, corri, prova a scamparla
Questo negro ha corso, ha corso al massimo
Ha ficcato la testa in un vespaio
Ha saltato lo steccato e ha corso attraverso il pascolo
Il bianco correva, ma il negro correva più forte
Quel negro correva, quel negro è scappato
Quel negro ha strappato in due la camicia”

– Run, nigger, run (Corri, negro, corri) o Pateroller’s Song (La canzone della ronda), canzone tradizionale dell’area appalachiana.

Un problema secolare ben precedente all’amministrazione Trump, ma che da quando quest’ultimo si è insediato alla Casa Bianca sembra venga enfatizzato ad arte per accusare il tycoon di razzismo, xenofobia e via discorrendo, mentre si moltiplicano gli sportivi che entrano in polemica con il presidente.

 

Megan Rapinoe è uno dei capitani (fanno infatti a turno tre colonne della squadra) della nazionale femminile di calcio statunitense, la quale, portabandiera dei diritti LGBTQIAPK, prima dei mondiali di calcio di questa estate in Francia aveva avuto da ridire sulle posizioni conservatrici di Donald Trump. Anche lei, come Kaepernick, non ha cantato l’inno provocando le proteste del presidente; la replica della Rapinoe è stata poi poco elegante, dichiarando in un’intervista che non sarebbe andata “alla fottuta Casa Bianca” in caso di vittoria del mondiale.

 

La posizione di Megan Rapinoe su Donald Trump

 

Ma qual è il punto dell’articolo? In questo momento storico sono molti gli sportivi che si sbilanciano in politica ma esclusivamente assumendo posizioni “comode”, esprimendo cioè tutte quelle considerazioni cardini dello spirito del tempo e della narrazione mediatica dominante. Per esempio le due appena citate: il razzismo e l’omofobia, cavalli di battaglia – o per meglio dire armi – dell’ideologia liberal-progressista. Crociate spesso sacrosante che, tuttavia, non possono occupare l’intero spazio del dibattito ed esaurirlo.

 

Di questi tempi è macroscopico l’ostracismo che tutti i mass-media occidentali, nelle mani di poche proprietà affini ideologicamente, mostrano verso l’inquilino della Casa Bianca per motivi che non dobbiamo qui enucleare. Di conseguenza, un personaggio pubblico che esprima un giudizio negativo sulla sua persona e/o sul suo operato si garantisce una certa dose di pubblicità, di inviti in televisione, di interviste, non da ultimo di ulteriori entrate monetarie.

In questo momento storico sono molti gli sportivi che si sbilanciano sulla politica, ma lo fanno esclusivamente prendendo posizioni “comode”.

Twittare contro Trump rende bene se lo si apostrofa come un razzista o un sessista, ma non tutte le critiche verso le sue politiche portano vantaggi. Non ci risulta infatti che, tanto per citare gli esempi più recenti, qualche calciatore o tennista di grido si sia mai lanciato in invettive contro la strategia di destabilizzazione della Casa Bianca nei confronti dei governi socialisti sudamericani, vedasi Venezuela e Bolivia in ultimo.

 

O meglio, uno lo ha fatto: Diego Armando Maradona. Purtroppo, anche a causa dei suoi stessi comportamenti, il Pibe de Oro è dipinto come un pazzo cocainomane dai pasdaran della disinformazione che, in questo modo, lo fanno apparire come una politicamente non credibile macchietta. Nemmeno quando Trump lanciò un centinaio di missili contro la Siria ci fu una levata di scudi da parte degli atleti milionari. E chi ne ha il coraggio, quando il 99% della carta stampata plaude all’operazione di “esportazione della democrazia” dei gendarmi del mondo?

 

Il sostegno di Diego al presidente boliviano socialista Evo Morales
Il sostegno di Diego al presidente boliviano socialista Evo Morales

 

Perché un calciatore con un contratto da 5-6 milioni di euro l’anno dovrebbe impantanarsi in dichiarazioni contro un’azione militare, richiesta per lo più a gran voce da tutte le cancellerie occidentali? Gli causerebbe settimane di strali da parte del clero giornalistico liberal-atlantista, decine di tweet di spiegazioni e poi magari una indecorosa retromarcia.

 

E allora molto meglio rifugiarsi in un politicamente corretto “NO al razzismo”, o “NO alla violenza”, oppure, meglio ancora, “NO alle discriminazioni di genere”! Ed il gioco è fatto. Interviste, inviti a serate di gala, sponsorizzazioni Nike, contratti rinnovati, copertine di Rolling Stones, eterno amore del salotto di Fabio Fazio o di quello del The Late Show with Stephen Colbert.

Perché un calciatore con un contratto da 5-6 milioni di euro l’anno dovrebbe impantanarsi in dichiarazioni contro un’azione militare, richiesta per lo più a gran voce da tutte le cancellerie occidentali?

Abbiamo letto le innumerevoli prese di posizione di molti esponenti del basket e del football americano contro le politiche del Tycoon, da LeBron James a Stephen Curry (stella dei Golden State Warriors), da Adam Silver (commissario NBA) a Shahid Khan (proprietario della squadra di football Jacksonville Jaguars), che tra inginocchiamenti e rifiuti a recarsi alla Casa Bianca si sono fatti un po’ di pubblicità.

 

Ma perché non hanno inscenato le stesse proteste, facciamo un esempio, dopo la reintroduzione delle sanzioni economiche dell’amministrazione Trump all’Iran, che stanno causando gravissimi danni alla popolazione civile (e non alle élites politiche persiane, come la propaganda vorrebbe farci credere)? O perché nessun calciatore della nazionale francese è pubblicamente insorto dopo il criminale attacco di Sarkozy alla Libia nel 2011, frutto di casus belli inventati?

 

Anche in Italia, poi, ci sono stati casi di sportivi politicamente corretti che hanno scelto di stare dalla parte “giusta” della storia contemporanea. Vi ricordate la fiorettista azzurra Elisa Di Francisca, che mostrò la bandiera dell’Unione Europea sul podio durante le Olimpiadi a Rio de Janeiro? Ci mancava la eleggessero, a furor di blandizie e cortigianerie, presidente(ssa?) del CONI con tanto di “cocchio a due pariglie bianche con lacchè e il diritto al potere temporale” (cit. Fantozzi).

 

Uno squallido gioco delle parti a cui Trump si presta molto volentieri, dando anche l’illusione di essere il rappresentante del popolo contro lo “star system”: due facce della stessa medaglia, in un dibattito artificiale

 

Tornando invece a Kaepernick, è interessante vedere le conseguenze della sua presa di posizione. Finita la stagione 2016/2017, il suo contratto con i San Francisco 49ers non fu più rinnovato e fino ad oggi non ha ancora trovato una squadra che lo voglia tesserare. Sembra che le società della NFL abbiano fatto quadrato per negargli un contratto anche se, secondo ESPN, aveva ricevuto almeno una proposta dai Denver Broncos, rifiutata poiché ritenuta troppo bassa.

 

Il giocatore, invece di rivolgersi al sindacato giocatori per le proprie rivendicazioni, si affidò quindi al famoso (e costoso) avvocato Mark Geragos. Così, nel febbraio 2019, Kaepernick ha ottenuto un risarcimento dalla NFL per una cifra che va dai 60 agli 80 milioni di dollari mentre circa sei mesi prima (settembre 2018), la Nike lo aveva scelto per la sua nuova campagna pubblicitaria.

 

Direttamente dal profilo Twitter del giocatore è stata pubblicata la foto del suo volto con la frase «Credi in qualcosa. Anche se significa sacrificare tutto il resto» che ha, ovviamente, scatenato reazioni in tutti gli USA. Ricordiamoci la non trascurabile faccenda che Nike, storicamente, non ha mai brillato per etica della produzione di palloni e magliette: i bambini o le donne di Taiwan e Vietnam, pagati $ 0,23 all’ora dalla multinazionale americana, in cosa crederanno?

 

sportivi in politica
La pubblicità è sempre più importante del contenuto, l’apparenza più della realtà

 

Cambiano i tempi, cambiano le conseguenze. Stessa battaglia, quella di Colin, che combatterono anche due altri sportivi afroamericani, in quello che è diventato un manifesto delle lotte nere statunitensi e di tutto il mondo. Ci riferiamo alla vicenda, famosissima e di cui si è scritto e detto in ogni modo, dei velocisti Tommie Smith e John Carlos che, durante la loro premiazione (medaglie d’oro e di bronzo sui 200 mt) alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, alzarono i pugni chiusi indossando il guanto nero, simbolo delle Black Panthers.

 

La foto è passata alla storia e quel gesto rimarrà indelebile. Ma le conseguenze per i due atleti furono tremende: non corsero più un solo metro su una pista d’atletica perché il Comitato Olimpico statunitense li espulse a vita; ricevettero insulti e minacce per anni; la moglie di Carlos non riuscì a reggere tutto quell’odio e si suicidò; Smith lavorò come scaricatore di porto a New York e Carlos come buttafuori. Solo nel nuovo secolo vennero riabilitati e vennero offerti loro dei lavori meno pesanti.

 

Forse peggio andò al secondo classificato in quella gara, l’australiano Peter Norman, che solidarizzò con i due coloured indossando una spilla dell’OPHR (Olympic Project for Human Rights). Ostracizzato dall’atletica australiana, gli venne impedito di andare alle olimpiadi di Monaco del ’72 nonostante avesse ottenuto i tempi migliori (addirittura l’Australia preferì non avere nessuno a correre gli sprint) e nemmeno alle olimpiadi di Sidney nel 2000 fu invitato come tedoforo o semplice spettatore. Solo nel 2018, a cinquant’anni di distanza e a dodici dalla sua morte, il Comitato Olimpico australiano gli ha riconosciuto l’Ordine al Merito, la massima onorificenza sportiva.

Ma le conseguenze per i due atleti furono tremende: non corsero più un solo metro su una pista d’atletica perché il Comitato Olimpico statunitense li espulse a vita; ricevettero insulti e minacce per anni; la moglie di Carlos non riuscì a reggere tutto quell’odio e si suicidò; Smith lavorò come scaricatore di porto a New York e Carlos come buttafuori.

Alla fine si tratta solo di fare la mossa giusta nel momento giusto. Ma per favore, prima di parlare di valori e diritti provate a mettervi nei panni di un iraniano, di un siriano, di un libico, di un iracheno, di un palestinese (e si potrebbe andare avanti fino a coprire mezzo atlante geografico).

 

Perché colpire Trump e simili parlando di razzismo, omofobia, diritti civili negati è come sparare sulla croce rossa: sono battaglie mediatiche, in cui ti viene srotolato un – neanche troppo metaforico – tappeto rosso; è nient’altro che un gioco delle parti. Più difficile è mostrare le contraddizioni strutturali anche se, vi diamo un’anticipazione, a quel punto non ci saranno più né passerelle né copertine, per non parlare degli inviti nei salotti dei buoni.

 

Gruppo MAGOG

Marco Gambaudo

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