Una riforma fallimentare (e rinnegata).
Ritorniamo oggi a parlare delle squadre B nel calcio italiano; o meglio della Juventus U23, essendo l’unica formazione partecipante da anni al campionato di Lega Pro. Una riforma (fallimentare) partita il 3 agosto 2018, con la società bianconera che ha lanciato la prima squadra B nella storia del calcio italiano. Nessun altro club, Atalanta, Inter, Milan, Roma, Lazio etc., ha perseguito questa strada ritenendo il progetto un ulteriore costo e, soprattutto, un impegno di difficile gestione. E allora i “grandi” club, piuttosto che mettere su delle seconde formazioni, per la crescita dei giovani hanno preferito continuare con la politica dei prestiti.
Al momento, come già vi abbiamo raccontato proprio da queste colonnne, la Juventus U23 è stata d’aiuto al club bianconero soprattutto per alcune manovre finanziarie: strumento per giustificare l’altissimo numero di calciatori nelle proprie fila, “parcheggiare” vari calciatori della scuderia e, soprattutto, generare plusvalenze. Ma al di là di evidenziare il fallimento del progetto proposto dalla federazione, ciò che storpia al momento è la riforma, passata in secondo piano, che ha investito il progetto delle squadre b. La Figc, nelle scorse settimane, ha toccato alcuni aspetti delle formazioni U23, facendo uscire fuori la vera natura del progetto.
Se in un primo momento si è tutelato, nonostante tutto, la volontà di far crescere giovani calciatori da lanciare poi in campionati più importanti, adesso qualcosa è cambiato. La Federazione ha pensato infatti di eliminare alcuni vincoli, tra tutti quello sul limite massimo di partite disputate nel massimo campionato oltre il quale non è consentito la convocazione nella Squadra B. Un limite che inizialmente era di sole 10 gare disputate in Serie A, e che ora è stato quintuplicato:
«I calciatori inseriti nella distinta di gara non dovranno essere presenti nell’elenco dei 25 calciatori per il Campionato di Serie A, né dovranno aver disputato più di 50 gare nel Campionato di Serie A».
Ciò vuol dire concedere alle società un ampio margine per “parcheggiare” ulteriori tesserati in un altro campionato: in sostanza, poter utilizzare in Serie C calciatori che non hanno trovato abbastanza spazio in Serie A. In barba alla crescita dei giovani, si dà spazio a chi non gioca in prima squadra. Così, per l’ennesima volta nel nostro Paese, una riforma che avrebbe dovuto segnare discontinuità è stata prima introdotta male – data in pasto ad un’opinione pubblica affamata di cambiamenti dopo il tonfo mondiale tanto per lanciare un segnale, ma strutturata in modo tale che fosse difficilmente accessibile per i club – poi rivista tradendo il suo principio originario. Insomma, oggettivamente un vero e proprio flop.
Un progetto che però sta facendo discutere anche in Federazione e che anzi ha visto vere e proprie opposizioni: pensiamo a quella della Lega di Serie B e del presidente Mauro Balata. Nell’ultimo Consiglio Federale, che ha ratificato le modifiche di cui sopra, la Lega B ha fatto sentire tutta la propria contrarietà al progetto evidenziando il fallimento e le lacune strutturali del progetto squadre U23.
Balata ha poi ribadito la propria contrarietà al salto di categoria delle seconde squadre dalla C alla B, il che provocherebbe una diminuzione della imprevedibilità e quindi dell’interesse del torneo, oltre che della rappresentatività dei territori (oggi al massimo della sua espressione) e causerebbe un effetto distorsivo in controtendenza con l’equilibrio gestionale, da anni perseguito con una serie di parametri di stabilità e sostenibilità economico-finanziaria dell’attività sportiva. Equilibrio da cui secondo il presidente della Serie B dipende la sopravvivenza dei club, oltre che l’esistenza del campionato e della stessa categoria.
Ci apprestiamo dunque a vivere una nuova guerra in federazione, oltre a quella sulla riforma dei campionati con Gravina che da anni ne parla ma senza una reale proposta e il presidente della Lega Pro, nonché vice presidente della Figc, Francesco Ghirelli, che fa spallucce.
La verità è che il calcio italiano, dalla Serie A alla Serie C, ha disperato bisogno di riforme, serie e concrete. Un cambiamento radicale che ormai ci siamo anche stufati di invocare e che, malgrado due esclusioni consecutive ai mondiali e un livello agonistico del calcio italiano che si abbassa sempre di più, sembra non arrivare mai; bloccato dai soliti slogan, dalla solita dirigenza, da meccanismi strutturalmente bizantini e incapaci di andare oltre la tutela degli interessi singoli.
Ogni anno poi franano le fondamenta del nostro calcio, con club che scompaiono a campionato in corso (da ultimo il caso Catania) o la Covisoc che boccia (a suo piacimento, ci sentiamo di dire) varie società, da ultime Campobasso e Teramo. La cosa peggiore in tutto ciò è che siamo bloccati, e da qui deriva la sensazione di impotenza: è proprio il sistema che non funziona e non riesce a partorire riforme di cui si discute da anni – e quando lo fa, come con le squadre B, vediamo i risultati. Nel frattempo noi ci siamo rassegnati neanche più al principio gattopardesco per cui tutto cambia affinché nulla cambi, ma direttamente a quello per cui nulla cambia affinché nulla cambi. E per cui si torna indietro anche sull’unica riforma, per di più fallimentare, fatta negli ultimi anni.