Il calcio italiano deve guardarsi allo specchio.
Partiamo con una premessa necessaria: Pioli al Milan ha fatto e sta facendo un lavoro impressionante. Autentico innovatore, alla faccia di quelli che pensavano si potesse cambiare solo con il forestiero e rivoluzionar-visionario Rangnick, il tecnico rossonero ha saputo studiare, cambiare, anticipare. Anche qui però, forse si parla troppo del progresso del calcio attuale, delle nuove tendenze come se fossero definitive, ma in pochi ricordano di mettere nell’equazione il fattore pandemia: i giocatori sostanzialmente, tra campionati compressi e competizioni nazionali e internazionali, per club e selezioni, non riposano da tempo immemore; come aveva detto Guardiola, si allenano giocando.
Questo calcio toglie completamente punti di riferimento e coordinate, provoca sempre più sorprese, rimonte improvvise, partite nelle stesse partite. Pioli ha avuto la straordinaria intelligenza di comprendere il football (post) pandemico, ma non è per questo detto che sia automaticamente un rappresentante del nuovo calcio – in condizioni normali.
Su questo tema, enorme, comunque ci torneremo. Il problema invece oggi è dato dal rendimento europeo delle migliori squadre italiane, ancora una volta, e dalla narrazione ideologica che se ne continua a fare. Tralasciando qui l’Inter, che ieri ha ottenuto la sua prima vittoria e ci aspettiamo che risalga la corrente del Gruppo D, è la sconfitta del Milan con il Porto a far rumore: sia per il risultato sia, soprattutto, per il modo in cui è maturato. Più che gli 0 punti nel girone infatti – esito sfortunato di partite ottimamente giocate, le prime due, e di un raggruppamento di ferro – a pesare è infatti lo score di ieri: 1-0 per il Porto, ma anche 20 tiri a 4 per i portoghesi; più dei dati, il dominio del gioco dei padroni di casa, tecnico e fisico, per larghi tratti della partita.
Per carità, le assenze rossonere hanno fatto la loro parte, e rappresentano almeno un’attenuante, eppure è preoccupante la logica a cui ci siamo abituati: le migliori squadre italiane (l’anno scorso l’Inter, quest’anno il Milan, che se non è la migliore è certamente la più brillante) incassano sconfitte in Europa e magari escono al girone di Champions? Che sarà mai, vorrà dire che proveranno a vincere lo scudetto. Quasi un sollievo per alcuni.
C’è in questo un’implicita ammissione di impotenza che non si può colmare con le idee, con il calcio offensivo o simili: l’anno scorso l’Inter è uscita dalla Champions giocando in modo propositivo, e poi anzi ha trovato nella seconda parte della stagione la quadra con la tradizione italiana; quest’anno il Milan fa bene con il suo stile di gioco, esce a testa altissima (ma perde) con Liverpool e Atletico e si disfa al do Dragão in una partita decisiva. Con il Porto, una squadra forte e organizzata ma che, con tutto il rispetto, non dovrebbe rappresentare un ostacolo insormontabile per le migliori italiane (malgrado la storia recente dica il contrario).
La verità è che lo stile di gioco non c’entra nulla: la Juventus vince con i campioni d’Europa del Chelsea grazie a un catenaccio e contropiede che avrebbe fatto impallidire persino Gianni Brera, il Milan perde con il Porto giocando e facendo giocare, così come lo Shakhtar che, per «non lasciare la palla neanche al Real Madrid», ne incassa cinque. Allo stesso modo si potrebbero fare esempi opposti, di squadre reattive che malfigurano e di altre propositive che vincono. Non è questo un elogio dell’arte tutta italiana del difendere, bensì lo smascheramento di un ritornello ormai irritante: “il gap in Europa si colma con la forza delle idee” (che poi, ovviamente, sono solo quelle offensiviste etc.).
No, il gap in Europa si colma con la forza dei giocatori. Poi sta agli allenatori trovare il modo migliore di schierare ogni squadra non in base ai propri dogmi bensì, ancelottianamente, alle caratteristiche dei singoli. Basta verità valide per tutte le stagioni!
Si potrebbero chiamare in causa tanti altri fattori: il livello del nostro campionato (una riforma che riduca il numero delle squadre si impone d’urgenza), il ritmo stesso della Serie A (su questo Pioli aveva ragione). E anche noi, siamo forse troppo concentrati su noi stessi: troppo prodighi di elogi per una striscia di vittorie in Serie A, spesso contro squadre rivedibili, o per un “tipo di calcio”. Sono discorsi che lasciano il tempo che trovano perché alla fine, quando il livello si alza, la differenza la fanno i giocatori, non le idee. Così parla la storia del calcio, passato e recente.
Su questo si aprirebbe un capitolo enorme: come portarli, o “crearli”, i migliori giocatori? Quali riforme servirebbero al calcio italiano (Tebas in Spagna ci sta pensando da anni, con idee più o meno discutibili, ma almeno ha dei progetti a lungo termine) e di che tipo: economiche, strutturali, tecniche? Finiamola però con i discorsi triti e ritriti sugli stili di gioco, ormai nauseanti; e smettiamola anche con questo strapotere concesso agli allenatori: importantissimi certo, ma sempre meno dei giocatori. Perché per quanto possano impegnarsi gli stessi tecnici, i commentatori, gli ideologi improvvisati, in campo – fino a prova contraria, e fino a quando non avranno un auricolare – ci andranno sempre i calciatori.