Il regalo che tutti vorremmo: tornare sulle gradinate.
Recentemente, in modo timido e balbettante, si sono iniziate a sentire le sirene della resa: quell’animo ardente, pronto a scagliarsi contro il calcio silenzioso delle porte chiuse dal Covid, ha perso il suo furore. L’abitudine, che brutta bestia! Essa ha preso il sopravvento e, mentre noi tutti ci siamo rassegnati a vedere partite ovattate dal silenzio dei seggiolini vuoti, qualcuno sta persino iniziando a cantare le lodi del calcio senza pubblico.
L’ha fatto Rivista Undici sulle proprie colonne, lanciando l’elogio degli stadi vuoti con l’encomio dello Stadio Ferraris di Genova. Si è scomodato addirittura il parere di Jacques Austerliz, che nel romanzo di W.G. Sebald ammoniva: «Gli edifici sovradimensionati sono concepiti in vista della loro futura esistenza di rovine», invitando nella chiosa finale persino a lasciarli così: vuoti e aperti. Nel reportage fotografico correlato, rimbalzato anche sui social della testata, si sostiene che
«gli stadi sono interessanti anche se vuoti, in un modo che valorizza maggiormente l’architettura e certi aspetti che, qualche decennio fa, sarebbero stati riassunti sotto l’espressione genius loci».
Finanche Il Foglio, non certo una voce acritica, si è spinto ad apprezzare i nuovi elementi di un calcio senza pubblico, primo fra tutti l’amplificazione delle voci di «uno show che ci sta aiutando a capire chi ama il calcio per quello che è e chi ama il calcio per quello che si porta con sé», nelle parole del direttore Claudio Cerasa.
Spunti accordati sul diapason televisivo che per primo ha iniziato a far sibilare la nota stridula. È comprensibile che per Sky la valorizzazione di un prodotto multimilionario non potesse essere svilito dall’assenza di pubblico. Ecco allora l’elogio delle voci dei protagonisti e le immersioni di Fabio Caressa, tutti efficienti stratagemmi di comunicazione per invocare un nuovo fascino in questo calcio silenzioso.
E a dire il vero è innegabile rimanere intrigati, se non affascinati, dal suono vivo del campo; sentire i giocatori scambiarsi consigli e rimproveri, gli allenatori impartire le proprie visioni. Eppure, siamo assolutamente certi che questo non può far scemare la portata del dibattito, e che l’abitudine non deve lasciarci indifferenti rispetto all’eccezionalità delle atmosfere dei nostri stadi. Tanto meno è condivisibile – per noi – celebrare gli aspetti positivi di questo calcio solitario ancor prima che silenzioso.
Il problema è proprio il giustificazionismo acritico della dialettica sportiva italiana, che rimane ammaliata dalla novità e dal progresso continuo ma dimentica sempre più spesso i fondamenti, i concetti di fondo. Antonio di Pietro Averlino o Averulino, detto il Filarete, scultore e storico dell’architettura del primo Quattrocento, ricordava come l’avvento primordiale dell’architettura sia rinvenibile già nell’Antico Testamento.
Riporta il Filarete che, nel Paradiso, Adamo pose le mani sulla testa per ripararsi dai raggi del sole e dalla pioggia. Con il primo uomo sarebbe nata l’architettura.
Al di là dell’evidenza biblica della vicenda, la cui esegesi è peraltro molto dubbia, il punto che ci interessa è un altro. È l’immagine, il rilievo secondo il quale lo scopo dell’architettura non è produrre oggetti, ma dare organizzazione e forma allo spazio in cui si svolgono le vicende umane.
Non si tratta di teorie vetuste e superate. L’uomo è sempre stato saldamente al centro del pensiero architettonico tradizionale. Non a caso anche Le Corbusier, uno dei padri dell’architettura contemporanea, estremizza la rilevanza dell’uomo nella progettualità adottando come unità di misura il Modulor. Un uomo medio con il braccio alzato, un’unità di misura di 226 cm di altezza, riferimento costante nella creazione degli spazi. Non molto distante dai 240 cm adottati oggi come altezza standard dei soffitti delle nostre case.
Insomma, la ragione stessa dell’esistenza degli edifici è rappresentata dalla vita umana che devono accogliere. Accentuando ulteriormente il punto di vista, essi esistono solo per qualcuno che li popoli. Ecco perché la lode strutturale degli stadi vuoti non è un’argomentazione felice. Certo, la sensazione che si prova camminando in uno spazio vuoto è del tutto peculiare: a volte estraniante, altre piacevole. Eppure, ogni singolo angolo vuoto di uno stadio invita la nostra mente a processare tramite l’immaginazione cosa possa essere quel luogo popolato.
Non a caso, difficilmente ci riferiamo a uno stadio di calcio definendolo bello. E quando lo facciamo ne indichiamo un’accezione impropria. Siamo indifferenti al fascino contemplativo strutturale, non è il bello in sé, non è il τὸ καλόν greco che percepiamo.
È piuttosto l’insieme delle sensazioni che quel luogo trasmette. Il carico emozionale che riesce a garantire. Ecco perché quando pensiamo agli stadi più belli del mondo ci figuriamo i fuochi d’artificio de La Bombonera a La Boca, i canti da brividi di Anfield Road a Liverpool, il muro giallo del Westfalen Stadion a Dortumund (ormai Signal Iduna Park): tutti noi abbiamo stampate nella mente le immagini che questi luoghi sacri evocano, eppure pochi saprebbero ripercorrerne i tratti architettonici.
Nelle parole del Direttore de Il Foglio, dal punto di vista estetico, si ambisce addirittura a un elogio delle dinamiche tecniche di un calcio muto. Si celebra la beata gioventù del Milan, che sicuramente più di ogni altro è riuscito a sfruttare il bavaglio alle tribuna per scaricare dalle pressioni e dai mugugni gli acerbi talenti del nuovo corso rossonero. Si snocciolano con perizia l’indebolimento del fattore campo, le statistiche di un gioco più corretto. Riprendendo le parole di Chase Young, giocatore di football americano, si supporta la tesi secondo la quale:
«Quando si scende in campo senza pubblico è più semplice capire chi ha talento e chi non lo ha, chi ha bisogno di una motivazione extra per esibirsi e chi è invece in grado di esprimersi, indipendentemente dalle circostanze»,
dichiarando più o meno implicitamente che negli stadi vuoti si assiste a uno spettacolo migliore, qualitativamente più elevato o, nelle parole di Cerasa: «La colonna sonora delle partite diventa la voce nuda dei giocatori, il tocco del pallone, il sussurro dell’allenatore, è uno show per il quale vale la pena pagare il biglietto». Direttore, ma di quale biglietto parla?
Certo, i giocatori vengono alleggeriti dalle pressioni del pubblico, dalla gogna dei fischi, dal peso di una coreografia o più in generale di una curva che può far tremare le gambe. Ma in cosa si esprime davvero il talento? Siamo certi che la gestione della propria sfera emotiva non sia anch’essa una componente fondamentale nell’identificazione di un campione? La domanda è retorica e la risposta scontata, perché è anzi proprio il vaglio di fronte al grande pubblico che ci consente di determinare la solidità mentale di un calciatore, di misurare il suo talento, di valutare le sue potenzialità di diventare campione.
Se così non fosse staremmo ancora una volta accantonando la dimensione umana: giudicare i giocatori sulla base delle sole capacità tecniche equivarrebbe a spogliare il calcio, meglio lo sport, dell’imprevedibilità emotiva che lo rende così affascinante. Onestamente sapere che anche i dati supportano una minore rilevanza del fattore campo non ci entusiasma affatto. Non riusciamo a trovarne aspetti positivi, se non la riprova di una tesi a noi cara.
Il pubblico nel calcio non è solo spettatore, ma parte della rappresentazione stessa.
Sapere che l’entusiasmo irrazionale e la passione incontrollata dei tifosi è davvero influente, beh questa è una straordinaria consapevolezza che giustifica gli sforzi profusi in abbonamenti, trasferte e delusioni. E che riporta il calcio nel suo ambito, quello di fenomeno sociale/identitario e non di semplice questione di campo.
Da qui vogliamo e dobbiamo ripartire. Dalla consapevolezza che questo circo calcistico, necessariamente multimilionario, debba essere a servizio di chi ne ha alimentato la grandezza, anche nel suo aspetto estetico. E per quanto sembri tautologico doverci prodigarci nella difesa degli stadi pieni, vorremmo davvero non leggere più lodi magniloquenti di questo calcio così spettacolarmente triste, svuotato e spoliticizzato.
Sfortunatamente abbiamo la memoria corta e il terrore che l’abitudine, bestia nera dell’uomo soprattuto contemporaneo, possa introdurre nuovi standard e nuove concessioni. Non appena sarà consentito dal protocollo sanitario, dobbiamo torniamo a popolare gli stadi con più entusiasmo di prima. A maggior ragione adesso, per quanto possa sembrare paradossale: ora che sappiamo cosa significhi lasciarli vuoti.
Proprio perché abbiamo visto la parte più oligarchica e sradicata del calcio non possiamo arrenderci; al contrario dobbiamo affilare le armi affinché il pallone ritorni ad essere uno sport genuinamente popolare, una rappresentazione sacra in cui non diremo più “Oggi gioca la mia squadra” bensì, citando le parole del maestro Galeano: “Oggi giochiamo”.
«E sa bene, questo giocatore numero dodici, che è lui a soffiare i venti del fervore che spingono il pallone quando dorme, e gli altri undici giocatori sanno bene che giocare senza tifosi è come ballare senza musica».
Passato e presente dello sport in Corea del Nord, a metà tra rivoluzione e propaganda. Con particolare attenzione al calcio, lo sport più seguito ma anche quello meno vincente.
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