Black lives matter divide anche nel basket e nel calcio.
In America le elezioni presidenziali si terranno a Novembre eppure, ormai da anni, il Paese è in campagna elettorale permanente. Non solo Trump contro Biden (e prima Hillary) ma due visioni degli USA distanti anni luce e profondamente irriducibili. Mai, nella storia recente, gli Stati Uniti si erano trovati così divisi e lacerati, sull’orlo di una guerra civile del pensare e del sentire. Tutto ciò, naturalmente, non poteva che riverberarsi sullo sport. Nei giorni scorsi infatti Donald Trump ha attaccato a testa bassa l’NBA e la sua narrazione, rilasciando a Fox News un’intervista dai toni radicali e apparentemente esagerati.
“Quello che sta succedendo è orribile per il basket. Guardate gli indici di ascolto: sono in calo, sono numeri davvero molto bassi. La gente è infuriata e loro non capiscono, hanno fatto abbastanza politica e le persone non ne hanno bisogno. C’è qualcosa di davvero brutto nell’Nba, in come sta facendo le cose. Sono nei guai, in grossi guai, più grossi di quanto credano. Non mi piace per niente quello che sta succedendo nel basket: devi rimanere in piedi per la tua bandiera, devi rispettarla e rispettare il tuo Paese. Guadagni milioni di dollari l’anno per giocare uno sport che giocheresti comunque, anche se non fossi un professionista. Devono rispettare il loro Paese” (Donald J. Trump)
Infine ha accusato l’NBA di «inginocchiarsi alla Cina», aggiungendo di preferire di gran lunga Michael Jordan – «che non era un politico e piaceva di più alla gente» – a Lebron James, suo critico spietato. Dichiarazioni, come detto, a prima vista fuori luogo, ma in realtà funzionali al suo racconto.
Trump infatti, sempre sintonizzato sulle frequenze dell’America dimenticata, sa bene dove andare a battere: le sue parole non sono tanto la reazione di un presidente offeso a livello personale, bensì l’ennesimo stratagemma con cui rinforzare la narrazione di popolo vs élite. Main stream media, Hollywood, globalisti, lobbies e da ultime le stelle NBA. Il presidente americano vuole far passare un messaggio chiaro: contro di me si uniscono i privilegiati di tutto il Paese, coloro che possono permettersi (in tutti i sensi) di essere “politically correct”, mentre io difendo famiglie e lavoratori, costi quel che costi.
Non a caso alcuni giorni fa, nello stabilimento della Whirlpool davanti alle tute blu dell’Ohio, Donald ha pronunciato un importante discorso parlando di globalizzazione da invertire, posti di lavoro da preservare e di «molti nemici molto ricchi e assai scontenti», aggiungendo che lui è l’unico presidente a poterli sfidare. Praticamente un sindacalista alla Casa Bianca, un rappresentante dei meno tutelati al potere, che intende bloccare quei “globalisti” che «hanno lasciato milioni di nostri lavoratori con povertà e angoscia, e le nostre città con fabbriche e impianti abbandonati».
Ebbene quella di Trump è una strategia quanto quella degli atleti NBA non è politica: siamo nel campo, da una parte e dall’altra, del puro spettacolo, della società onnipervasiva dell’immagine. Ma in questo senso, ci spiace dirlo, la narrazione trumpiana è decisamente più efficace di quella patinata – e pompata da tutti i media – di atleti, giornalisti, attori e via discorrendo. Megan Rapinoe e Lebron James non sensibilizzano le masse, non aprono loro gli occhi sull’inadeguatezza del presidente: al contrario appaiono a milioni di persone sempre più distanti, impegnati in battaglie mediatiche già vinte in partenza e proprio per questo clamorosamente perse (altro che Tommie Smith e John Carlos).
I giocatori NBA, vittime e rappresentanti di una propaganda esasperata, sono oggi effettivamente e in tutti i sensi all’interno di una “bolla”:quella di Disney World certo, ma anche quella della società dello spettacolo. Incensati dal 90% dei media, appoggiati dalle grandi multinazionali e sospinti dallo spirito del tempo, sono impegnati in crociate contro il razzismo spinte al paradosso, inconcepibili per chi ha ben altro a cui pensare che non sia il nome (da cambiare) di una marca di shampoo, di un gelato o di una squadra di football.
Così, mentre dall’alto si rinforza la narrazione mainstream e gli sportivi si uniscono nell’unico grande coro mediatico dei buoni e giusti (cantanti, attori, scrittori, registi, giornalisti e via discorrendo), dal basso l’elettorato di Trump si rinsalda come non mai.
La destra occupa lo spazio lasciato vuoto dalla sinistra che, sostituiti i diritti sociali con quelli civili, si barrica nelle città allontanandosi inevitabilmente dalle periferie e dai lavoratori. Se a ciò aggiungiamo la volontà didattica e anche un po’ arrogante di chi vuole a tutti i costi educare la società, il risultato è servito: Trump cavalca la reazione popolare anti-elitaria, e gli sportivi – loro malgrado – diventano icone di una politica facile, spoliticizzata e conformista. Eppure ci sarebbero delle praterie per contrastare la narrazione reazionaria-pop sul suo stesso terreno, tra le lacune politiche e sociali della gestione presidenziale.
Così la volontà educatrice si spinge sempre più in là e non intende lasciare nulla al caso, come emerso alla ripresa della MLS nella partita tra Dallas e Nashville: qui prima del fischio d’inizio giocatori e terna arbitrale si sono inginocchiati, in un gesto divenuto ormai un rito stanco se non addirittura un marchio. Buona parte del (poco) pubblico presente ha coperto di boo calciatori e direttori di gara, intonando anche USA! a più riprese. Ciò è bastato per parlare di discriminazione, per far prendere immediatamente le distanze ai vertici della MLS e del Dallas e per provocare il “disgusto” del difensore Reggie Cannon:
“Penso sia disgustoso. Penso sia assolutamente disgustoso. Ci sono tifosi che fischiano giocatori per aver preso una posizione in cui credono. Milioni di persone stanno supportando questa causa e abbiamo discusso con tutte le altre le squadre e la lega su che cosa avremmo fatto e ora ci ritroviamo con dei tifosi che ci fischiano nel nostro stesso stadio. È veramente disgustoso”.
Lo sport, lo abbiamo sempre sostenuto, è già di per sé politico, ma non per questo deve essere politicizzato. È una differenza sottile ma sostanziale e purtroppo, in questo caso, Trump ha ragione: la gente non ha bisogno di questa politica, e lo sport nemmeno. Siamo qui di fronte a una bolla che speriamo esploda presto, a una gigantesca operazione di marketing portata avanti da multinazionali che vanno dove tira il vento, sempre pronte a mostrare il loro volto più civile per riposizionarsi sul mercato e ricostruirsi una verginità ormai perduta.
Lo sport è politico ma gli sportivi, sempre più simili ai conformisti di Giorgio Gaber, non sono politici. Di questo passo rischiano anzi di essere risucchiati dal cosiddetto establishment e dal suo linguaggio, sempre più esclusivo ed escludente. Rischiano di divenire inconsapevoli burattini delle campagne Nike, di trasformare battaglie “in cui credono”, citando Cannon, in politica da avanspettacolo. Anche perché, a forza di insultare il pubblico pagante (e magari pure proletario), in molti potrebbero decidere di risparmiare il prezzo del biglietto.