Fatale è la bellezza che prorompe fino quasi a diventare un affronto agli dei: Stefano Casiraghi aveva folti e lucidi i capelli, zigomi levigati da far impallidire Adone, la perfezione dei tratti e il ritmo divino delle movenze. Una bellezza nobile, composta ma smisurata, una raffinatezza quasi eccessiva che si compì definitivamente nel matrimonio con Carolina di Monaco, anno di grazia millenovecentottantatre. Carolina è magnifica e fatale, figlia dell’altrettanto magnifica e fatale Grace Kelly, tragicamente scomparsa l’anno prima: a cogliere tutto il fascino di lei è la penna di Stenio Solinas, che in un elegante articolo appunta
«chi non ha presente cosa fosse Caroline di Monaco fra i sedici e i vent’anni non ha conosciuto la dolcezza del vivere».
È tutta negli occhi maliardi di Stefano Casiraghi la dolcezza del vivere, che nelle sue passioni diviene irrequieta, vorticosa. Comasco, nato nel settembre del ’60 da imprenditori brianzoli, dimostra subito come non gli appartenesse il cursus honorum riservato ai rampolli di buona famiglia: s’iscrive alla Bocconi ma non termina gli studi, ché l’università anestetizza il vitalismo e le noie accademiche opprimono lo spirito (rammentiamo al volo il Papini che qualificava le scuole qualificava come “fabbriche privilegiate di cretini di Stato”).
Casiraghi predilige la velocità, l’agonismo, la vita, da rincorrere in moto d’acqua sul Lago di Como, personalissimo locus amoenus in cui soddisfare la propria vitalità futurista, l’innata sportività dannunziana: «nel giovane di Fino Mornasco – nota ancora Solinas – era presente una pirandelliana corda pazza all’insegna della velocità, del rischio, della competizione». Così, dopo alcuni anni da amatore, nel 1984 Casiraghi approda nel mondo della motonautica offshore, l’attuale Class One, la corsa in mare aperto di motoscafi.
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Esordisce nella squadra di Tullio Abbate correndo con il “Sun International” in eventi a livello nazionale, vincerà in rapida sequenza la “100 Miglia del Lario” e più tardi la tappa della “Viareggio-Bastia-Viareggio” (merita la menzione anche la partecipazione alla Parigi Dakar nell’85). La passione si fa in lui movente dell’esistenza, la fascinazione del pericolo lo mantiene vivo rispetto ad un ruolo fatto di cerimoniali e formalità da cui Carolino – così rinominato – vuole emanciparsi:
«nulla mi potrà convincere ad abbandonare le gare. Mia moglie rispetta le mie idee, io rispetto le sue. Se dovesse mai accadere qualcosa, vorrà dire che doveva succedere», dichiara.
L’offshore nel frattempo acquisisce grande popolarità, complice il benessere tipico del periodo e la partecipazione di volti noti, tra cui quello di Adriano Panatta; nel 1989, ad Atlantic City, grazie ad una conduzione spregiudicata ai limiti della follia, Stefano Casiraghi riscatta un’importante penalizzazione e raggiunge il titolo di campione del mondo.
Deciderà poi di ritirarsi, lo confessa a parenti e amici, ma nel ‘90 vuole correre un’ultima volta per congedarsi da vincente. Si gareggia il tre ottobre a Montecarlo, in casa sua, e Casiraghi vuole concludere la carriera con quel mondiale che secondo una giornalista “moralmente gli appartiene”. Le condizioni meteo non sono però favorevoli, il vento è forte tanto da costringere al ritiro alcuni equipaggi, tra cui quello di Vincenzo Polli, che dichiarerà «dopo un paio di salti della mia barca ho rallentato, non si poteva rischiare così. Ma ho visto Casiraghi che tirava al massimo, infilzandosi tra le onde».
‘Carolino’, partito in ottavo piazzamento, per confermarsi campione del mondo altra possibilità non ha che quella del primo posto: lo insegue a 180 chilometri orari, fino a quando le onde non rovesciano il suo catamarano. Il copilota Patrice Innocenti è sbalzato fuori dall’abitacolo con le ossa in frantumi mentre Stefano resta esanime a bordo, con la colonna vertebrale infranta dai flutti; verrà estratto senza vita dopo pochi minuti.
Fatali furono a Stefano Casiraghi la bellezza del vivere e l’anelito all’agonismo, nell’attimo in cui quello che deve accadere accade per davvero. E sempre l’incedere del fato è mosso da insondabili segni e contingenze: se la mattina della corsa aveva confessato di voler cambiare imbarcazione, optando per una più sicura, proprio quel mercoledì non aveva voluto l’elicottero di soccorso che tendenzialmente era a seguirlo.
Lui, cattolico, era solito portare un crocifisso al collo che quel giorno rimase sul comodino, quasi a restare sguarnito, vulnerabile, o «quasi a volere che lo conservassi in suo ricordo», dirà sua madre più tardi.
A trent’anni, l’imprenditore brianzolo vide risolto il proprio destino, infausto come quello della bellissima moglie, giovane già orfana di madre e ora vedova, tanto depressa da ritirarsi con i tre figli (belli anch’essi come il sole) in Provenza. L’esistenza di Stefano Casiraghi, troppo bello per essere vero, troppo vivace per essere vivo, è apparsa come una trama impressa nello scirocco da Euripide, che per compiersi altro non poté che arrendersi al vento.
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