Intervista a Luigi Di Fiore, autore di "Storia del Napoli".
“Storia del Napoli. Una squadra, una città, una fede” è il titolo dell’ultimo, delizioso lavoro di Gigi Di Fiore. Storico rigoroso e apprezzato, Di Fiore è uno dei cronisti di punta del Mattino, testata per la quale ha curato inchieste e servizi di grande importanza, specie sulle tematiche criminali e giudiziarie. Autore di numerosi libri, ama la sua città ed è un grande appassionato del Napoli. Ragioni, queste, che lo hanno ispirato per la sua ultima fatica. Gli abbiamo rivolto qualche domanda.
Napoli e il Napoli, gioie e affanni lungo l’arco di un secolo. Ma davvero è così intensa la sovrapposizione tra la città e la squadra?
Sì, è un rapporto stretto che fa del calcio a Napoli un fenomeno vissuto con dedizione assoluta. Le vicende extracalcistiche si sovrappongono e si uniscono assai spesso alla storia della squadra. Tanto che ho potuto davvero raccontare in parallelo la storia del Napoli e quella della città, con legami e personaggi intrecciati di continuo.
Lei dice che fin dai suoi albori anche il calcio ha avuto la sua “questione meridionale”.
Sì, dalla fine dell’800 agli inizi del secolo successivo, il campionato veniva giocato da pochissime squadre, tutte al nord. La prima Federazione fu costituita a Torino, lì nacque il primo embrione dello sport destinato a diventare il più seguito in Italia. Al sud si giochicchiava, con pochi mezzi e partite tra amici con scarso interesse dei giornali e l’attenzione elitaria dei soci dei circoli nautici napoletani, tra i primi appassionati del nuovo sport. Tanto che Renato Casalbore, salernitano d’origine ma trapiantato a Torino dove poi fondò il quotidiano Tuttosport, richiamò i dirigenti e gli appassionati di calcio napoletani a fare sul serio, mettendo impegno e soldi nelle squadre per metterle in condizioni di competere con le formazioni più forti di allora che erano la Juventus, il Torino, il Genoa, la Pro Vercelli, il Milan.
Dai pionieri come l’ing. Anatra, a Ferlaino e De Laurentis, passando per Ascarelli, Lauro ed altri ancora. Quanto è difficile fare calcio a Napoli?
Lo è per ricorrenti difficoltà finanziarie, oggi comuni a tutte le società del cosiddetto neocalcio. Molti, nella storia del Napoli, ci hanno rimesso di proprio, come Ascarelli che costruì uno stadio con i suoi mezzi, o Naldi il presidente ricordato per il fallimento decretato in tribunale della Società sportiva calcio Napoli, ma anche Ferlaino. Dall’era De Laurentiis tutto è cambiato, il calcio come la società che gestisce il Napoli, assorbiti da bilanci, calcoli, plusvalenze, diritti televisivi, brand, sponsor.
Nel 1905 Matilde Serao, peraltro madre di un figlio calciatore del primo Napoli, rispondeva a muso duro a chi riteneva che la città fosse un approdo ostico per la pratica sportiva, sottolineandone al contrario il suo profilo eminentemente sportivo. Un secolo dopo uno sconfortato – seppur vincente – Ferlaino sembrò smentirla con le sue parole di denuncia.
Ferlaino denunciò gli ostacoli, in una città che assolutizza il calcio, che incontrava esponendolo a intimidazioni, bombe sotto casa, pretese di tifoserie inquinate. Rischi che lo portarono a evidenziare come, rispetto a società garantite da grandi gruppi imprenditoriali come la Juventus, il Napoli possedeva mezzi inferiori ma incontrava più rischi legati, e qui torniamo al discorso sullo stretto legame città-squadra, a difficili aspetti socio-economici e anche ombre per appetiti criminali tenuti alla larga non sempre con facilità. Anche Lauro, prima di Ferlaino, ebbe una sorveglianza della polizia sotto casa, come racconto nel libro per delle minacce ricevute in un momento di risultati negativi della squadra.
Napoli è stata una incredibile palestra per il giornalismo sportivo nazionale. All’ombra del Vesuvio hanno trovato il loro humus migliore penne sublimi che hanno fatto scuola. Da Scandone a Collana a Palumbo e tanti altri.
Il mio libro è infatti anche un sincero omaggio alla scuola dei giornalisti sportivi napoletani e non, assai spesso uomini di cultura, autori di libri dalla penna brillante. Sono debitore di centinaia di articoli e collezioni di giornali per le mie ricostruzioni. Oltre ai documenti, anche giudiziari, la mia storia ha avuto come fonti essenziali proprio gli articoli di tanti colleghi che hanno segnato la storia del giornalismo non solo sportivo. Gli esempi di Gino Palumbo, o Antonio Ghirelli, tanto per fare due nomi, mi sembrano illuminanti.
Nella sua intervista rilasciata ad Enrico Parodi, proprio Gino Palumbo affermò che il vittimismo dei napoletani, a suo dire tossico lascito della cultura araba e delle dominazioni spagnole, era la più grave malattia di Napoli. Lo scudetto dimostrava invece che si può vincere e lavorare con risultati anche a Napoli.
E aveva ragione. Denunciare mali e difficoltà, oltre a contestare pregiudizi preconcetti verso Napoli e i napoletani non deve essere un alibi per sterili vittimismi. I napoletani, ma le nuove generazioni lo stanno sempre più comprendendo, devono farsi partecipi dei loro destini in prima persona, senza delegare all’eroe di turno una rinascita. Il primo scudetto, in una squadra dove ben 17 dei 23 calciatori in organico erano meridionali (cosa mai più avvenuta nel Napoli) lo dimostrò. Fatta salva, naturalmente, la presenza unica e irrinunciabile in quella squadra di un fenomeno irripetibile come Maradona.
Nel suo libro tanti aneddoti e “chicche”, come quello sul “ciuccio di Fichella” che poi diventa simbolo ufficiale.
Sì, il simbolo ufficiale della squadra era il cavallo rampante che si rifaceva all’immagine dell’antico e più importante Sedile napoletano, uno dei sei quartieri del vicereame spagnolo: quello di Porta Capuana. La figura del ciuccio comparve nel disastroso campionato 1926-27, quando in uno dei bar frequentato dai tifosi si ironizzò sulle sconfitte, paragonando la squadra al “ciuccio di Fichella”, la storia popolare di un asinello che, incapace di tirare un carretto pieno di fichi, stramazzò a terra senza riuscire più a rialzarsi. L’accostamento fu ripreso da un periodico umoristico napoletano, il Vaco’e presse, che ridisegnò il simbolo dell’allora Associazione calcio Napoli, costituita proprio il primo agosto del 1926, con il ciuccio al posto dell’ufficiale cavallo rampante.
Sull’inno invece i brani di fior di neomelodici hanno sempre segnato il passo, specie nei momenti di gloria, a ‘O surdato ‘nnammurato. Lei dice che c’è una ragione. Ce la spiega?
Una squadra così legata alla storia della città, alla sua cultura e alle sue tradizioni non può che avere come suo inno di fatto un brano della tradizione della canzone napoletana storica: ‘o surdato ’nnammurato scritta nel 1915 da Aniello Califano e Enrico Cannio. I tifosi iniziarono a intonarla, spontaneamente nel 1975, all’ottava giornata del campionato, nella partita a Roma contro la Lazio. Era il 7 dicembre e un gol di Boccolini regalò la vittoria agli azzurri, scatenando il canto dei tifosi napoletani in trasferta. L’avvenimento fu sottolineato da uno dei due settimanali sportivi del “Mattino”: “Lo sport del Mezzogiorno”. Su You tube circola un filmato di Maradona in auto che canta ‘o surdato’nnammurato e descrive l’emozione di averla ascoltata nello stadio, cantata da 70mila tifosi.
La politica non è mai stata indifferente alle sorti del Napoli. Dal Lauro legato a casa Savoia, al Ferlaino dalle simpatie per la storia borbonica. E ancora Scotti e la DC che giocano un ruolo per favorire l’acquisto di Maradona. Perché tanta attenzione?
In ogni epoca storica, a partire dal Ventennio fascista, si è compresa l’importanza del calcio, come cassa di risonanza popolare estesa per ottenere consensi. A Napoli in maniera particolare. Furono i dirigenti fascisti a convocare un gruppo di imprenditori, tra cui Achille Lauro, per salvare le casse del Napoli. Fu il sindaco Dc Enzo Scotti e intervenire sul Banco di Napoli per caldeggiare i fidi bancari necessari all’acquisto di Maradona. Ma ogni sindaco della città ha dovuto capire a sue spese quanto fosse perdente lo scontro con i presidenti del Napoli sulla gestione dello stadio. Troppo ampia la differenza di popolarità e seguito.
Cavanna, Zoff, Cannavaro, Lippi, calciatori e allenatori iridati che si sono fatti le ossa nella squadra azzurra. Il Napoli ha dato tanto all’Italia.
Sì, da Napoli e con il Napoli sono passati tanti nomi che hanno dato lustro alla nazionale italiana e al calcio in generale. Sono molti. Cavanna fu campione del mondo, seppure come portiere di riserva, nel 1934. Allora giocava nel Napoli. Fu campione d’Europa anche Dino Zoff quando era in azzurro, così come il capitano Antonio Juliano, primo napoletano a giocare una finale, seppure per pochi minuti, di un campionato del mondo nel 1970. E poi il pallone d’oro Fabio Cannavaro, Ciro Ferrara fino a Insigne. Hanno giocato nel Napoli anche futuri allenatori di successo come Nereo Rocco, Manlio Scopigno, Bruno Pesaola. E poi Lippi, Ranieri, così come tanti altri. Insomma, il Napoli è stato palestra e trampolino per molti campioni e allenatori.
Un tifo totalizzante e asfissiante che non aiuta i calciatori a trovare la necessaria serenità per esprimersi al meglio. Molti sono costretti a vivere in “clandestinità”, qualche altro scappa, altri ancora preferiscono non venire. La città è anche questo, purtroppo.
Sì, il tifo è asfissiante. Al calciatore che veste la maglia azzurra si chiede dedizione, fede, quasi una militanza per la causa dell’immagine cittadina. Si dimentica molto spesso che, invece, i calciatori sono dei professionisti, impegnati in un’attività legata da contratto e retribuzioni. Maradona visse difficoltà, l’ammise anche Higuain che, lo ricordo nel libro, raccontò come a Torino poteva camminare senza problemi, cosa impossibile a Napoli.
E poi la camorra. Lei è un profondo conoscitore del fenomeno. Quanto male hanno fatto al calcio cittadino i clan?
Tantissimo, dal mio archivio personale ho attinto documenti di ricostruzione su vicende oscure che hanno messo a rischio la squadra e la società. Per fortuna, i clan sono rimasti sempre fuori dal Napoli dove la camorra ha cercato intromissioni, lusinghe sui calciatori, pressioni sui dirigenti. Un pericolo bloccato in tempo, che andava raccontato nei dettagli, come ho provato a fere nel mio libro.
Dedica il suo libro innanzitutto al Pibe. Una presenza immanente in città.
Sì, lo hanno dimostrato le celebrazioni a un anno dalla sua morte, il 25 novembre scorso. Maradona è diventato un mito, un’immagine eterna immortalata ormai in ogni angolo della città. Icona pop e simbolo di riscatto e vittoria. Un patrimonio per la città e la società calcistica che, se vuole dare valore al suo brand, ha capito deve riempirlo di storia, personaggi del passato, immagini di decenni andati. Proprio come hanno fatto nei loro musei il Real Madrid e il Barcellona, ad esempio.
Perché i napoletani hanno perdonato tutto a Maradona?
Perché a un mito tutto si perdona. Ma anche perché, nella sua grandezza sul campo, Maradona restava un uomo fragile e buono, di grande umanità e altruismo come hanno dimostrato decine di episodi della sua permanenza a Napoli e non solo. Uno scugnizzo nato per caso in Argentina, che ha fatto sentire importanti e vincenti tutti i napoletani. Nell’eterna storia di Davide contro Golia, finalmente Davide usciva vittorioso. De Laurentis, da imprenditore navigato e di successo, fiutò l’affare Napoli. Col tempo è però sbocciato un amore vero per la squadra, a riprova della sua contagiosità.
Sì, il Napoli è diventato per De Laurentiis il suo core business, soprattutto nel periodo della pandemia quando con la Filmauro ha potuto produrre pochi film. Dopo 17 anni, ha compreso molte cose. Innanzitutto, che l’azzeramento del passato del Napoli è impossibile, che la storia della squadra è essa stessa ricchezza del brand azzurro. Un cambio di passo dimostrato nelle celebrazioni di Maradona a un anno dalla morte, ma anche con altri segnali. De Laurentiis è diventato, lui che prima non lo era, un tifoso della squadra. E probabilmente, da tifoso, comprenderà che ogni squadra ha bisogno di bandiere, simboli da identificare con la città. C’è una consolidata tradizione di capitani napoletani nella storia della squadra: Juliano, Ferrara, Bruscolotti che è di Sassano ma è radicato a Napoli, fino a Insigne. E tanti calciatori e allenatori che hanno voluto restare a Napoli anche dopo aver smesso, come Pesaola, Vinicio, Canè. I tifosi hanno bisogno, al di là dei campioni stranieri che vanno e vengono per contratto, di un legame con la loro identità. Una bandiera di immedesimazione nella squadra, da amare e odiare, perché parte di se stessi.