La docu-serie sul Sunderland mette a nudo i demoni del calcio.
“Perché Netflix ha deciso di produrre un documentario su una squadra di Championship? Cos’ha di speciale?” Questa era la domanda più frequente quando, a dicembre 2018, è arrivata su Netflix la prima stagione di Sunderland ‘Til I die’ che ha raccontato le vicissitudini dei Black Cats nella stagione 2017-2018.I biancorossi speravano di tornare in Premier ma hanno incontrato invece il destino opposto, sprofondando in League One (il terzo gradino della piramide del calcio inglese) dopo trentun anni dall’ultima volta.
Il risultato sportivo così negativo, inoltre, contribuisce alle critiche degli scettici: un progetto sportivo fallimentare non ha nulla di interessante agli occhi di uno spettatore casual. Ma, guardando gli episodi delle due stagioni in maniera più coinvolta, si riesce a capire cosa rende speciale questo prodotto rispetto a tutti gli altri.
L’UNICITÀ DELLA SERIE
Tra Netflix e Amazon Video ci sono tante squadre sportive, calcistiche e non, a cui è dedicata una serie che segue la squadra dall’interno: Juventus, Borussia Dortmund e Manchester City, per rimanere alle società calcistiche più prestigiose che si sono offerte a questo “esperimento”.
La principale differenza tra gli insight dedicati a queste squadre e quello del Sunderland, quantomeno a livello d’impatto, sta nei risultati calcistici raccolti: le prime sono società vincenti, con modelli di gestione sportiva più o meno esemplari, chi per un motivo chi per un altro (rispettivamente miglioramento del brand, scouting e capacità di migliorare tecnicamente i giocatori); l’altra è una squadra con i conti costantemente in rosso, e che per due anni di fila sbaglia i cavalli su cui puntare.
Il risultato principale di Sunderland ‘Til I Die è distruggere tutti i preconcetti errati sul calcio e sugli appassionati di calcio.
Ma STID non ha lo stesso obiettivo delle altre serie, che si prefigurano un po’ come le biografie dedicate agli imperatori in epoca romana volte a celebrarne le gesta di grandezza; il risultato principale di Sunderland ‘Til I Die è distruggere tutti i preconcetti errati sul calcio e sugli appassionati di calcio, portando sullo schermo quanto di più duro ci sia, a tutti i livelli, nel mondo del football.
Sia chiaro, però, non è un intento perseguito volontariamente, e lo si capisce già dal nome della casa produttrice: Fulwell ’73. Da qui si evince l’omaggio alla squadra del cuore, il Sunderland: Fulwell End era infatti il nome di un vecchio settore, mentre il 1973 l’anno dell’ultimo trofeo vinto dai Black Cats, la FA Cup. Insomma, l’intento fondamentale era “celebrativo”.
L’ORIGINE DEL MALE
Quando sono iniziate le riprese della prima stagione, nel settembre 2017, niente lasciava presagire il finale drammatico che si è poi consumato. La prima annata seguita dalle telecamere di Netflix è quella che rimarrà nel cuore di tutti per vari motivi, in primis per il carico emotivo: una retrocessione così dolorosa e inaspettata, a trentun anni di distanza dall’ultima stagione in Third Division, ha colpito nel segno tutti gli spettatori, tifosi e non.
Lo sviluppo di questa stagione ha un aspetto più puramente “tecnico”: all’interno delle 8 puntate in cui si snoda la serie, infatti, le telecamere seguono molto spesso i calciatori negli spogliatoi, ma anche in casa. Ciò porta alla luce svariati coni d’ombra della vita di un calciatore: diversi di loro palesano mancanza di empatia, che in campo si rispecchia in una grande insicurezza dannosa per il collettivo. La pressione di una piazza esigente come quella di Sunderland, in questo caso, non fa che acuire le difficoltà.
Ellis Short è il proprietario americano del Sunderland odiato dalla tifoseria, che lo ritiene a ragion veduta il principale responsabile del disastro.
Seguendo Johnny Williams notiamo come sia psicologicamente complicato per un giocatore esprimersi al meglio dopo una serie di infortuni: anche qui le paure fanno la differenza. La struttura societaria non è delle più solide, per usare un eufemismo: l’unico dirigente presente, Martin Bain, è responsabile di errori tecnici ed economici ripetuti che portano la squadra negli inferi della Football League One, e causano il suo ovvio allontanamento. Ellis Short invece è il proprietario americano del Sunderland assente durante tutto l’arco della serie, che non fa nulla per evitare il deragliamento della propria squadra o attutire l’odio della tifoseria (la quale lo ritiene a ragion veduta il principale responsabile del disastro).
UN NUOVO INIZIO
La prima serie si chiude con un barlume di speranza: nell’ottava e ultima puntata, infatti, Stewart Donald si aggiudica all’asta la società. Donald, imprenditore nel campo assicurativo, ha già esperienza nel mondo del calcio: è stato proprietario dell’Eastleigh FC, (6ª serie del calcio inglese), e socio di minoranza dell’Oxford United, la sua squadra del cuore. É lui il gancio tra la prima e la seconda serie: quest’ultima si apre infatti con una riunione che vede lui e Charlie Methven, socio di minoranza e amministratore delegato del nuovo board del Sunderland, come attori principali.
I due mettono subito le cose in chiaro: la situazione economica del SAFC è difficilmente sostenibile. Rimanere in League One sarebbe un grave danno per le casse del club. I Mackems si portano dietro un grosso problema di fondo dalla loro discesa in Championship: ogni anno il monte ingaggi è spropositato rispetto a quanto permetterebbe la categoria. Così, situazioni quella come di Jack Rodwell, divenuta celebre ed emblematica (col centrocampista inglese chem pur di continuare a guadagnare 200mila sterline a settimana, ha preferito rimanere fuori rosa) gravano come un macigno sul Sunderland.
Emerge un altro fattore gravoso del calcio odierno: il peso sempre maggiore dei procuratori, che decidono a proprio piacimento sulle carriere dei loro assistiti.
Donald e Methven cercano di sfoltire le spese dei Black Cats in moltissime voci, in quello che diventerà il motivo della seconda stagione, più incentrata su questioni di scrivania che su quelle di campo. Ma è un lato del calcio con cui si deve convivere: Donald non è un freddo imprenditore dedito solo al guadagno, e lo dimostra stando sempre a fianco della squadra.
Nel Deadline Day, ultimo giorno di calciomercato, arriva a spendere 3 milioni di sterline per accaparrarsi un deludente Will Grigg. L’attaccante nordirlandese è il rimedio alla fuga di Josh Maja, giovane promettente nella prima stagione e acquistato per due spiccioli dal Bordeaux nel mese di gennaio, approfittando del contratto in imminente scadenza. Qui emerge un altro fattore gravoso del calcio odierno: il peso sempre maggiore dei procuratori, che decidono a proprio piacimento sulle carriere dei loro assistiti, scavalcando a tratti anche i pareri della famiglia.
FINO ALLA MORTE
C’è il campo, c’è la scrivania, ci sono gli spogliatoi. Ma poi ci sono gli spalti ed è lì che Sunderland ‘Til I Die – che deve il nome proprio ad un coro della sua tifoseria – fa la differenza. Il fil rouge che connette le due stagioni e le rende un corpo unico è la presenza dei tifosi, della gente di Sunderland, il tessuto sociale che rimane compatto attraverso le vicende della squadra, orgoglio della città.
Sunderland rappresenta una zona dell’Inghilterra in cui il sentimento anti-europeo è molto forte (alle votazioni del 2018 per la Brexit, il Leave ha raggiunto il 62% a Sunderland).
Sunderland, è una città del Nord industriale inglese che negli anni ’60 ha avuto un exploit grazie all’industria navale, ma che oggi è in piena decadenza. Nella seconda stagione, inoltre, questo fattore assume una sfaccettatura anche politica: l’introduzione della quinta puntata segue da vicino una manifestazione pro-Brexit, in una zona dell’Inghilterra in cui il sentimento anti-europeo è molto forte (alle votazioni del 2018 il Leave ha raggiunto il 62% a Sunderland).
La funzione del SAFC è certo simbolica e rappresentativa ma anche “biecamente” lavorativa, considerato che molti abitanti della città sono impiegati all’interno della società da magazzinieri, cuochi o inservienti semplici. Il ruolo del calcio come collante tra le persone emerge quindi in tutte le puntate: la presenza dei tifosi è massiccia e anche loro sono seguiti in casa, dove lo spettatore può assistere alle condizioni economiche dei fan di lunga data e immedesimarsi.
Il matchday è l’unica cosa che rimane a molti, il frullatore settimanale in cui si mescolano tutte le emozioni represse – rabbia, ansia, paura, ma anche la gioia dei momenti più belli.
“Molti di loro non hanno un soldo, ma hanno voluto essere qui”
dice uno dei Season Ticket Holder (gli abbonati) più fedeli, riferendosi alla “gita” a Wembley dei tifosi del Sunderland in occasione della finale play-off per l’accesso alla Championship. La seconda volta in tre mesi in cui i Black Cats se la giocano nel tempio del calcio. La prima, in occasione della finale del Checktrade Trophy, è arrivata una sconfitta ai rigori. La seconda, ugualmente una sconfitta e per di più al 90’, dopo essere stati in vantaggio di un gol fino all’85′.
Una situazione tipicamente sunderlandiana, in cui si riconoscono tragicamente molti tifosi: arrivare ad un passo dal traguardo e rimanere con un pugno di mosche. Sembra però che a loro quasi non importi, anzi, da un certo punto di vista i tifosi del Sunderland sono fieri della sfortuna ontologica della loro squadra: un team capace di arrivare sempre ad un centimetro dalla gloria e fallire, e proprio per questo fragile, bisognoso di cure, diverso dagli altri.
In una città come Sunderland è facile rispecchiarsi in questi valori, anche dal punto di vista esistenziale. Proprio per questo loro rimarranno lì qualunque cosa accada. Pioggia, vento, neve, terza serie. Qualcuno se l’è anche tatuato sulla pelle, e non è certo un caso: Sunderland ‘til I die.