Andrea Antonioli e Emanuele Iorio
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Problema: nel calcio di oggi si gioca troppo. È stato sottolineato da qualsiasi addetto ai lavori, dagli allenatori (come Jurgen Klopp, che più volte nel corso degli anni ha ribadito la sua opinione sulla questione) ai calciatori (tra gli altri Arturo Vidal, che ha dichiarato senza mezzi termini come il calcio non sia un “mercato degli schiavi”) sino ai medici dello sport, come il professor Enrico Castellacci che, in un’intervista su “Repubblica”, aveva sottolineato che con le troppe partite
“il fisico dei calciatori non regge e gli infortuni aumentano”.
La soluzione dei “padroni del calcio”? Nessuna, visto che le proposte delle federazioni calcistiche internazionali sono andate addirittura nella direzione opposta: aumentare ancora di più il numero delle partite. La FIFA ha annunciato giusto un mese fa che a partire dal 2025 il Mondiale per club si allargherà a ben 32 squadre (!!), e si disputerà ogni quattro anni come un “vero” Mondiale per Nazionali. La UEFA ha ormai confermato che dalla stagione 2024/25 la Champions League non solo avrà quattro squadre in più (dalle 32 di oggi, saranno 36), ma sarà organizzata in un unico girone in cui ogni club affronterà 10 partite (4 in più delle attuali) contro un avversario sempre differente.
E le leghe nazionali come si stanno muovendo? Alcune bene, come la Federazione francese, che ha soppresso per ragioni di calendario l’inutile Coppa di Lega; altre invece, come la Federcalcio spagnola e quella nostrana, proseguono nella loro strada di aumentare a dismisura il numero dei match per arricchire le loro tasche e quelle delle televisioni. È notizia di due giorni fa infatti che la Lega Serie A, guidata da Lorenzo Casini, ha ufficializzato il cambio di formato della Supercoppa Italiana che, proprio come quella spagnola, avrà un formato a quattro squadre, con le prime due classificate del campionato e le due finaliste della Coppa Italia che si giocheranno il nuovo/vecchio trofeo.
E dove si disputerà questa “rinnovata” Supercoppa? In Italia? Ovviamente no, altrimenti dove starebbe il profitto economico? Si disputerà in Arabia Saudita, per ben quattri volte nei prossimi sei anni, stando agli accordi tra le due federazioni (nel 2024 e nel 2025 e, dopo due anni di “pausa”, ancora nel 2028 e 2029). Scelta del format che “può comunque essere rimessa in discussione in base agli impegni” (staremo a vedere…).
Quanto danaro si incasserà da tutto questo? Secondo Casini “per la prossima stagione l’incasso previsto è di 23 milioni, mentre con una sola gara (più un amichevole, ndr) sarebbe stato di 12” – laddove l’utile amichevole servirebbe per “cercare di aiutare la qualità del calcio saudita” (oltre che per fare ancora più soldi, ndr).
Inutile ora stare qui a lamentarsi sulla questione dei diritti umani e dello “sportwashing” in terra saudita. Dal 2009 ad oggi la Supercoppa si è quasi sempre disputata in Paesi non esattamente democratici (Cina, Qatar e appunto Arabia Saudita), ma che avevano tanti soldi da offrire, ed è questo che importa all’attuale “sistema calcio” (basta vedere dove si sono disputate le ultime due edizioni del Mondiale). Ma se davvero qualcuno nel 2023 è stupito che, per delle istituzioni finanziarie come quelle calcistiche, il profitto conti più dell’etica, vuol dire che è semplicemente ingenuo.
di Emanuele Iorio
A Emanuele Iorio risponde il direttore Andrea Antonioli, inaspettatamente filo-saudita. Forse, i bonifici di bin Salman sono arrivati anche nella sede di Contrasti.
Magari fosse vero, ma a quel punto per spirito di contraddizione sosterrei il contrario! Scherzi a parte, Emanuele ha ragione su molte cose ed è qui il vero depositario dello spirito contrastiano, allergico alle derive di un calcio obbligazionario e geneticamente modificato. Non si tratta di nostalgia ma di umanità, identità, spirito, di un calcio a misura di tifoso. Chiaro che un pallone costretto ad elemosinare i petrolquattrini dagli sceicchi per respirare, inevitabilmente, ci lasci addosso una persistente (e desolante) sensazione di tristezza mista a frustrazione. Ma la domanda è: cosa abbiamo fatto negli ultimi anni, oltre a lamentarci dei bei tempi che furono?
Che proposte abbiamo avanzato mentre il nostro sistema calcio falliva anno dopo anno, mentre sparivano quasi duecento società professionistiche negli ultimi vent’anni, mentre la nostra Serie A diventava un deserto del talento e una casa di riposo per anziani (ex) campioni? Come reagivamo ad un torneo costretto a detassare gli stipendi degli stranieri per farli approdare qui da noi? E ad un campionato che, anno dopo anno, si spostava sempre più nella periferia del calcio, muoveva sempre meno soldi e aveva sempre meno idee? In nessun modo. Non facendo assolutamente nulla, divisi tra miseri interessi di potere, logiche corporative, immobilismi nuovi e antichi.
Javier Tebas, presidente di quella stessa Liga spagnola a cui stiamo guardando sempre più insistentemente (e da cui abbiamo copiato il format della Supercoppa), tempo fa era stato chiaro in un’intervista al Corriere della Sera: «all’idea dei fondi voi ci avevate pensato prima di tutti, quindi non escludo che l’esempio della Spagna possa essere seguito. Anche perché la Serie A deve fare un cambio urgente, di controllo economico e di iniezioni come quella dei fondi. Ma alla svelta. Altrimenti rischia di restare molto indietro. Deve internazionalizzarsi, ma se vuole tornare al passato deve guardare al futuro» Concludendo:
«Come fa l’Italia a incassare meno dello Spagna, essendo superiore per abitanti e reddito pro capite?»
Javier Tebas
A Tebas, da anni in guerra con Real Madrid e Barcellona per la sua intenzione di rilanciare tutta la
Liga e non solo i top club, gli si può obiettare molto. Il suo progetto di sviluppo per la Liga, basato su una progressiva internazionalizzazione e sul macro-accordo con il fondo CVC (un prestito da 2,1 miliardi di euro per i club, da restituire con interessi molto bassi, in cambio del 10% dei diritti tv per i prossimi 50 anni) può essere discutibile, ma almeno è qualcosa. Un qualcosa per cui Tebas aveva preso spunto da noi, considerato che c’era una proposta simile anche per i club italiani (l’offerta era di 1.7 miliardi) naufragata poi per la contrarietà di Juve e Inter.
Anche perché è vero che la Spagna ha ceduto ai fondi, ma all’interno di un progetto di rilancio che mantenga solidi radici in Patria. I due miliardi non sono fondi a pioggia bensì vincolati per il 70% a strutture e investimenti, e divisi poi per i debiti (15%) e per i giocatori (15%). Un’iniezione che da sola neanche basta, se c’è bisogno anche di aggredire i mercati planetari e “vendere il prodotto” – espressione orribile, ma è così – all’estero, magari incassando nel frattempo soldi per club in difficoltà (l’accordo con i fondi è di 50 anni, quello con i sauditi invece di 4). Per farlo, è meglio la Supercoppa Spagnola della Liga o della Coppa del Re – anni fa si era parlato di una possibile giornata di Liga a Miami, cosa che avrebbe rappresentato una barbarie e a, dirla tutta, fu bloccata dalla FIFA.
Scrivevamo così quando, 5 anni fa, sembrava che la Liga dovesse temporaneamente trasferirsi all’Hard Rock Stadium di Miami
Così, con l’esempio spagnolo, i soldi messi sul piatto alla Lega facevano gola; anzi facevano proprio fame. La prima obiezione è naturale: “ma allora diciamolo, siamo in vendita e ci concediamo al miglior offerente“. Non è così semplice, il mondo non vive di bianco o nero. Bisogna valutare invece le priorità, i mali minori, i compromessi accettabili. Che una competizione radicalmente inutile come la Supercoppa Italiana venga giocata in Arabia per i tifosi è oggettivamente, al di là delle valutazioni morali, un boccone meno amaro da mandare giù rispetto ad una finale di Coppa Italia, o una giornata di campionato, a Riad. In quel caso dovremmo allestire le barricate; in questo, ci possiamo anche mordere la lingua.
Ma poi la nostra condizione di tifosi “romantici” nel calcio conteporaneo, purtroppo, sta diventando concettualmente insostenibile, incoerente, a tratti anche ipocrita e meschina. Non solo non abbiamo alcuna idea di come rilanciare un movimento (il nostro in questo caso) semi-fallito, ma ci lamentiamo continuamente di un pallone che vorremmo non scendesse a compromessi ma che continuiamo a seguire. Un football diventato industria e poi business, uno sport ridotto a spettacolarizzazione pseudoculturale svuotata di (quasi) tutti i suoi significati simbolici, ma che non riusciamo ad abbandonare.
A questo punto o entriamo nelle logiche del calcio moderno, abbandonando il massimalismo e diventando un po’ più riformisti, oppure la rivoluzione la facciamo davvero: andiamo a vedere le partite delle categorie minori, tifiamo la squadra del nostro quartiere, fondiamo lo United of Manchester come quei tifosi disgustati dai Glazer e dalle perversioni del modern football. Una rivoluzione dall’esterno però, perché dall’interno (del sistema) è impossibile. A chi l’ha fatto, massima e profondissima stima. Ma in tanti altri non abbiamo la forza di farlo, e allora dobbiamo capire cosa possiamo accettare e cosa no.
A me tifoso che la mia squadra vada a giocare la Supercoppa Italiana, un torneo spot, in Arabia Saudita frega relativamente poco.
Mi interessa invece che la mia proprietà non cambi il logo del club, l’inno, non calpesti la mia storia e abbatta i miei simboli. E a me come calciofilo italiano tormenta l’idea che il movimento italiano sia in crisi, economica ancor prima che tecnica; che si debba giocare 10 partite in 10 orari differenti (cosa che capita solo da noi) per venire incontro alle esigenze delle televisioni, che si venda “il prodotto” a piattaforme che offrono un pessimo servizio agli abbonati, che i tifosi subiscano repressioni di ogni genere nella transizione a un nuovo modello antropologico di “tifo”.
Sono deluso che non ci sia più un’imprenditoria nazionale capace di acquisire e guidare i club, che il sistema complessivamente non riesca a crescere e neanche a reggere. La Supercoppa a Riad per quattro anni e altri due, chissà, a Doha, è l’ultimo dei miei pensieri. Anche perché, per quanto costi ammetterlo, Tebas ha ragione: l’internazionalizzazione oggi in qualche modo va portata avanti se vogliamo rimanere competitivi. E per farlo è meglio offrire uno spot per 23 milioni che cambiare il format stesso del campionato, magari inserendo play-off e play-out come voleva Gravina – uno squallore neanche fossimo in Belgio – o cedere all’accelerazionismo oligarchico della Superlega.
Poi Emanuele ha ragione: si gioca troppo e si gioca male. Ma anche qui, battagliamo sulle nuove e inutili competizioni create da Infantino e Ceferin, sulle Champions allargate, sui Mondiali per Nazionali e per Club sempre più obesi, non tanto sulla semifinale in più araba. E scusate se ho preso tanto spazio, ma questa era anche un’autoanalisi di chi un tempo non avrebbe mai accettato di andare a giocare a Riad (ma in generale all’estero) neppure un’amichevole estiva, e che ora invece si è scontrato con la dura realtà per cui, se si vuole combattere la decrescita infelice del nostro calcio, qualche concessione la si deve pur fare.
È di questo, d’altronde, che stiamo parlando. E perciò non ho volutamente menzionato gli inutili aspetti morali. Stiamo parlando dello sviluppo del nostro campionato, non dei diritti civili e sociali dell’Arabia Saudita – di cui diciamolo chiaramente, qui come negli uffici federali, non frega nulla a nessuno. Così è sempre stato nel mondo: per i governi, per le aziende, per gli organismi sportivi internazionali. Le valutazioni morali appartengono alle piazze (più o meno) virtuali e ai bar, non a chi tratta accordi internazionali per milioni e miliardi.
In Qatar non ci si doveva andare perché era un mondiale invernale che avrebbe sfalsato i calendari, incompatibile con qualsiasi tipo di tradizione calcistica, non per i diritti calpestati delle minoranze e per la situazione dei diritti umani (abbiamo organizzato Mondiali in contesti molto peggiori, anche perché la strage di lavoratori è arrivata dopo l’assegnazione). E le competizioni internazionali non si sono mai preoccupate di criteri morali nelle varie assegnazioni, almeno fino a quando quest’epoca isterica, irritabile, suscettibile e ultra-sensibilizzata non avesse cominciato a rompere i coglioni su tutti i Paesi che non siano Occidente.
E la Cina non va bene perché massacra gli uiguri ed è una dittatura, e la Russia non va bene perché … beh sappiamo il perché, e il Medio Oriente non va bene perché non si rispettano i diritti di donne, lavoratori e minoranze, e il Brasile non va bene perché Bolsonaro non rispetta le indicazioni pandemiche. Mentre ad esempio vanno bene i Mondiali negli USA che solo negli ultimi vent’anni hanno fatto centinaia di migliaia di morti civili per delle guerre illegali (solo in Iraq oltre 200mila morti civili, duecentomila) e va bene Israele, che da anni viola risoluzioni internazionali e ogni settimana uccide qualcuno come effetto collaterale di “operazioni di sicurezza” neppure menzionate dai nostri giornali e telegiornali.
Insomma, è certo che andiamo in Arabia per soldi, e chi osa dire il contrario? A parte quattro imbarazzati dirigenti che parlano di “sviluppo del calcio nella penisola araba”. Forse però andare a Riad è il tampone più plateale ma allo stesso tempo meno invasivo per fare soldi. In definitiva accettabile, per quanto ci costi. Poi, se proprio non ci va giù, possiamo fare quello che abbiamo sempre fatto, anche con i Mondiali in Qatar: boicottare e tenere spenta la televisione. Perché lo abbiamo fatto, giusto?