Il 31 luglio del 1667, con la firma sul trattato di Breda, Carlo II d’Inghilterra metteva la parola fine alla seconda guerra anglo-olandese. La stipula dell’accordo prevedeva, tra le altre cose, l’acquisizione del controllo di una fiorente città sulle rive del fiume Hudson, in America del Nord, che da Nieuw Amsterdam sarebbe stata ribattezzata New York. In cambio, la corona lasciava ai Paesi Bassi la garanzia per il possesso totale di un piccolo Paese nel nord-est del Sud America, chiamato ai tempi Guyana Olandese ed oggi noto comeSuriname, perfetto per ospitare quelle immense monocolture tipiche del colonialismo schiavista.
Comincia così, con uno scambio “alla pari” con New York, la storia del dominio nederlandese su questa terra: un dominio travagliato, intriso di sangue e razzismo – come tutte le storie coloniali – che durerà ufficialmente fino al 1975 ma che continua a persistere anche oggi nei rapporti di subordinazione moderni. Un dominio che, oltre a cacao, caffè e bauxite (minerale che abbonda nel Paese) porterà l’Olanda a depauperare il Suriname di una risorsa rara e ricercata: il talento calcistico.
UN MELTING POT DAL GUSTO COLONIALE
Tra tutti i tipi di colonialismo che hanno straziato il mondo quello olandese è sicuramente uno dei meno studiati. Dalle Molucche alle Antille, passando per Capo di Buona Speranza e il Suriname: un Impero in carne ed ossa, con i relativi meccanismi intrinseci necessari al suo funzionamento. La schiavitù pura, legale fino al 1863, viene sostituita da quella impura, il caporalato: la forza lavoro a basso costo viaggia da colonia a colonia per garantire il perpetuarsi dello sfruttamento, mentre il porto di Rotterdam prospera.
Il Suriname, per via delle sue caratteristiche particolarmente adatte alla coltivazione di certi prodotti, si tramuta nel punto d’arrivo di questo traffico di merce umana: nel corso dei secoli vengono letteralmente importate oltre tre milioni di persone tra cui indiani, pakistani, cinesi, giavanesi e molucchesi, che si vanno ad aggiungere ai già presenti ex-schiavi africani e a quel che resta degli indios nativi.
Una diversità etnica, culturale e religiosa unica al mondo e difficilmente emulabile, che probabilmente costituisce la base genetica dell’esplosione di diverse generazioni di calciatori formidabili, i quali faranno la fortuna della Nazionale. Ma non quella del proprio Paese di origine, bensì quella Oranje. Rispetto agli altri Paesi sudamericani, lo sviluppo del calcio in Suriname accumula infatti un ritardo di decenni, causato anche e soprattutto dalla difficoltà nello svincolarsi dall’egemonia olandese, che gli impedirà di rivendicare i talenti germogliati tra i propri confini.
IL SOGNO DELL’UNDICI VARIOPINTO
A cavallo degli anni ’70, mentre Johann Cruijff stupisce il mondo con il calcio totale, il Suriname si dimena per ottenere l’indipendenza politica, che verrà strappata nel 1975. Come sempre in questi casi, quando i colonialisti abbandonano il territorio di conquista ciò che resta si converte in fretta nell’anticamera di autoritarismi militari e guerre civili, spesso indirizzati dagli stessi e liberi di imporsi su un tessuto sociale sventrato.
Per questo tanti surinamesi scelgono di emigrare, e spesso il biglietto è di sola andata per Amsterdam: la terra dei propri aguzzini finisce per trasformarsi paradossalmente nella speranza di un futuro migliore. Così, quando nel 1980 un golpe porta al potere il militare Desi Bouterse, più di duecentomila persone hanno già lasciato il Paese. Tra loro ci sono anche George Gullit ed Hernan Rijkaard, due uomini il cui cognome sarà reso famoso dai propri figli, Ruud e Frank.
L’immigrazione massiccia si concentra in un particolare quartiere di Amsterdam, Bijlmermeer, che si tramuta in una piccola Paramaribo. È qui che nasce il Kleurrijk Elftal, l’Undici Variopinto, un progetto concepito dall’assistente sociale Sonny Hasnoe volto a creare una sorta di nazionale alternativa del Suriname con i giocatori, emigrati in Olanda, ai quali era vietata la convocazione in quella ufficiale. Infatti la doppia cittadinanza, necessaria per giocare in squadre di club olandesi e al contempo in nazionale surinamese, non veniva garantita quasi mai, escludendo dalle convocazioni i giocatori che vivevano nei Paesi Bassi.
Il progetto di Hasnoe viene accolto con entusiasmo da diversi professionisti, e nei primi anni ’80 si giocano svariate partite, tutte in Europa. Quando si decide di riportare L’Undici Variopinto in madrepatria, però, ci pensa il destino a decapitare le speranze di svolta del calcio surinamese: il 7 giugno 1989, l’aereo con la squadra a bordo si schianta nei pressi di Paramaribo, lasciando solo tre sopravvissuti. La tragedia è una vera e propria sliding door del calcio surinamese: come sarebbe andata, se quell’aereo fosse atterrato, è un quesito dai risvolti strazianti.
LA SQUADRA PIÙ FORTE CHE NESSUNO VIDE MAI
Negli anni ’90, mentre il Suriname continua il suo processo di de-colonizzazione, l’emigrazione verso i Paesi Bassi si stabilizza; le generazioni già insediate si passano il testimone e cominciano a dare forma a una comunità solida, caratterizzata da un’affinità particolare per il voetbal. Tanti ragazzini di colore cominciano a farsi notare nelle varie Jeugdopleiding, le giovanili del Paese. La visione del calcio olandese si amalgama alla perfezione con quell’esuberanza tipicamente sudamericana, e tante squadre – Ajax in primis – cominciano a sfornare prospetti potenzialmente utili anche in ottica Oranje.
D’altra parte, senza la possibilità di poter giocare contemporaneamente per club olandesi e con la nazionale surinamese, i giocatori non possono che scegliere la casacca arancione: la competitività, le strutture e il sistema organizzativo europeo sono incomparabili.
Ai Mondiali del ’98, mentre la Francia del berbero Zidane solleva la Coppa del Mondo, l’Olanda conquista uno splendido quarto posto, eliminata ai rigori dal Brasile. Sono sette i giocatori di origini surinamesi in squadra: Micheal Reiziger, Wiston Bogarde, Clarence Seedorf, Edgar Davids, Aron Winter, Jimmy Floyd Hasselbaink e Patrick Kluivert. Un arsenale di talento e trofei niente male – il solo Seedorf ha quattro Champions League in bacheca – che raccoglie ed espande l’eredità di Gullit e Rijkaard.
Ma la narrazione dell’integrazione all’olandese, popolo da sempre libertario e tollerante, in questo caso non regge.
«Devi essere bravo due volte un bianco per poter giocare nella sua stessa posizione. In tanti hanno lasciato solo perché non veniva data loro l’occasione»
dirà Winston Bogarde riferendosi a quegli anni. Due anni prima del quarto posto Mondiale, durante gli Europei del ’96, Edgard Davids veniva cacciato dal c.t. Hiddink per aver fatto intendere che lo stesso selezionatore basasse le sue scelte sull’amicizia con il capitano Blind, tagliando fuori dal processo decisionale i giocatori di colore.
L’esilio accende una polemica fortissima sul razzismo, alimentata da una foto iconica in cui si vedono i giocatori pranzare, con due tavoli separati in base al colore della propria pelle. “Una semplice questione di abitudini gastronomiche” diranno dall’entourage per difendersi dalle accuse. Con il migliorare dei risultati sportivi il dibattito si raffredderà gradualmente: d’altronde, anche le discriminazioni, di fronte al manifestarsi del talento, devono arrendersi impotenti.
IL ‘COLONIALISMO SPORTIVO’
Negli anni recenti, il centrale del Liverpool Virgil Van Dijk è sicuramente il giocatore con origini surinamesi più celebre, ma ci sono anche Georgino Wijnaldum, Ryan Babel, Nigel De Jong, Royston Drenthe, Michel Vorm, Quincy Promes, Urby Emanuelson e tanti altri. Nel 2009, un report della FIFA segnala la presenza di oltre 150 professionisti surinamesi in Eredivisie, mentre la Nazionale deiSuriboys continua a essere composta in maniera semi-amatoriale.
Seppur geograficamente in Sud America, partecipa alla CONCACAF con i Paesi di Centro e Nordamerica, e al momento occupa il 141° posto nel ranking FIFA. Il sogno che aveva provato a consumarsi con l’Undici Variopinto rimane un miraggio, anche se ad oggi è possibile finalmente giocare con la doppia cittadinanza: Nigel Hasselbaink, figlio di quel Jimmy Floyd tanto amato in Inghilterra, è nato ad Amsterdam ma gioca per il Suriname.
Nel suo Noi, schiavi del Suriname, Anton de Kom, scrittore e pensatore anticolonialista nato proprio nell’ex Guyana Olandese, scriveva
«Nessuna nazione può raggiungere la maturità completa fino a quando rimarrà gravata da un senso di inferiorità ereditario».
Questo sentimento di soggezione a cui si riferisce De Kom racchiude e sintetizza il problema storico che stanno vivendo oggi molte ex colonie, a tutte le latitudini: seppur politicamente indipendenti, il loro sviluppo resta incagliato, inibito dalla subordinazione economica e culturale del Paese europeo di turno. Nel caso del Suriname l’eccezionale ricchezza di calciatori di alto livello, insieme all’assurda burocrazia delle leggi sulla cittadinanza, hanno convertito lo sport in uno dei meccanismi per ribadire questo senso di inferiorità. Così, dopo le risorse naturali, l’esproprio coloniale si perpetua con le risorse umane. Calcistiche, per la precisione.