I fatti ormai li sappiamo tutti: Stefano Carta, telecronista di Eleven Sports, durante la gara Trento-Vicenza di Serie C ha chiamato per due volte “Negro” il calciatore Freddi Greco, sul punto di calciare una punizione. Un evidente lapsus di cui si è accorto subito, correggendosi – “Scusate Greco, non Negro” –, e che ha fatto il giro delle chat WhatsApp di mezza Italia, in un video diventato presto virale; fino ad arrivare addirittura nei palazzi del potere, con l’inchiesta parlamentare di Pierantonio Zanettin (Forza Italia) che, evidentemente, non aveva nulla di meglio da fare che mettere al pubblico e istituzionale ludibrio un ragazzo colpevole di un errore involontario. Perché solo un idiota potrebbe pensare che ci sia stata volontarietà.
«Gaffe imperdonabile. Ho presentato un’interrogazione perché si valuti l’opportunità di adottare sanzioni nei confronti del telecronista ed eventualmente anche dell’emittente televisiva. In materia di razzismo non si scherza e non sono ammesse indulgenze».
Pierantonio Zanattin, nell’interesse dei cittadini italiani
Il problema è che Freddi Greco, il giocatore del Vicenza in questione, è effettivamente di colore: nato nel 2001 a Andohatapenaka(Madagascar), è stato poi adottato all’età di tre anni da una famiglia di Roma. Il telecronista si è imbattuto quindi in un tabù della nostra epoca, nella “n-word”, l’unica parola che non si può proprio dire. Lo avesse chiamato in qualsiasi altro modo, oggi staremmo parlando di nulla. Tuttavia ha pronunciato quella parola, e da lì ha passato due giorni d’inferno: prima la gogna pubblica e mediatica, quindi la sospensione vigliacca di Eleven Sports, che ha placato la sete di sangue (e di licenziamenti) dei giacobini digitali. Questa la nota ufficiale della piattaforma, condivisa dal Lanerossi Vicenza:
A nulla sono valse le scuse di Stefano Carta. La colpa è “imperdonabile” e la decisione, si dice, obbligata. Ma obbligata da chi? Dai tifosi del Vicenza, che in blocco hanno capito e “perdonato” il telecronista, commentando nei canali ufficiali del club? Dallo stesso Greco, che non è neppure intervenuto sulla questione? Dal solerte parlamentare di Forza Italia, che ha scoperto il giustizialismo per una cazzata del genere? Obbligata in realtà non dall’opinione pubblica, che ha compreso l’errore involontario del telecronista, ma dalla sua parte più radicalizzata e sensibilizzata, quella che passa il giorno sui social network a rompere i coglioni al prossimo, a indignarsi per qualsiasi cosa, a pretendere che siano dati “segnali” e che venga educata una società retrograda.
Sentinelle di frustrazione esistenziale, di un moralismo rabbioso spacciato per morale. Lupi travestiti da Cappuccetto Rosso.
“Segnali”, come la sospensione di un ragazzo che arriva dopo 30 ore di inferno. A Stefano Carta siamo umanamente e profondamente vicini, nella certezza che nelle ultime due notti abbia dormito poco: uno sconosciuto fino all’altro ieri, probabilmente un ragazzo come noi, il cui nome rimbalza adesso su tutti i giornali e social network. Salito alla ribalta e alla gogna nazionale per un lapsus che gli è costato non solo il posto di lavoro, ma un’umiliazione pubblica da cui non c’è scampo, se non quello del tempo; sperando che la gente e la memoria corta degli utenti si scordi di lui, o quantomeno del suo nome, nell’attesa del prossimo “scandalo” social.
Una questione che una volta si sarebbe risolta con delle scuse del telecronista a Greco, che siamo certi non brami la fine della carriera di Stefano Carta, e con una stretta di mano. E che oggi invece porta parlamentari a parlare di gaffe “imperdonabile” (e la miseria), utenti sensibilizzati a scatenare cacce alle streghe digitali e soprattutto Eleven Sports a sospendere “prontamente” il telecronista. In quel “prontamente” c’è tutta la paura, la vigliaccheria, l’isteria di una società schiava di un politicamente corretto stalinista e non condiviso neanche dai suoi membri, che per la stragrande maggioranza comprendono il dramma del telecronista.
Un clima infame che si alimenta di segnali e moniti, che punisce uno per educarne cento (ma educare a cosa poi, a non avere lapsus?), o che forse invece punisce perché non può fare altrimenti: perché vittima di un’ideologia che, con la scusa di essere sempre dalla parte delle vittime, ne sta creando altre, di vittime. Siamo talmente terrorizzati da una parola, pronunciata per sbaglio, da massacrare e sospendere un ragazzo. Se è questo il modo per sensibilizzare e combattere le discriminazioni, ci sa proprio che siamo fuori strada.