Giacomo Orlandini
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Giacomo Orlandini
27 Aprile 2020
L’ideologia del record andrà in crisi
Quando non ci saranno più barriere da poter superare, l’atletica avrà ancora senso di esistere?
«Ci sono momenti, quando sei stanco o non stai bene, in cui comincia una battaglia con te stesso. Devi solo scavare più profondamente possibile e scoprire quali motivazioni hai davvero, quali erano le tue ambizioni originali. È una ricerca nell’anima: è facile dire “ho dato il massimo” e sentirsi a posto con la coscienza. Non è il mio approccio, e qualsiasi cosa accada, so di dover provvedere alla squadra con ogni più piccola goccia di energia». Questa è la filosofia di Michael Jordan, il mantra che lo ha guidato nel corso della sua carriera ai vertici della pallacanestro, il credo che gli ha permesso di vincere 5 titoli NBA con i Chicago Bulls e che lo sprona a lottare per il sesto, all’inizio della stagione 1997/98; un’annata che si preannuncia significativa sotto molti punti di vista.
I Chicago Bulls sono i campioni uscenti ed hanno vinto gli ultimi due titoli consecutivi, raggiungendo cinque vittorie in sette anni. Ciononostante, ripetersi non è facile, soprattutto se i problemi iniziano ancor prima di giocare. La squadra ha già scritto la storia del basket, ma la mentalità, su cui è strutturato il mondo professionistico americano, impone di guardare al futuro dell’organizzazione. In quest’ottica, alcuni elementi portanti potrebbero cedere il passo a nuovi innesti, in grado di inaugurare una nuova era di successi.
Così, il GM dei Chicago Bulls, Jerry Krause, pensa di fare una rivoluzione, cercando in tutti modi di accelerare il ricambio generazionale all’interno della squadra. Scottie Pippen, il compagno di squadra più vicino a Jordan, è infortunato e rischia di essere ceduto, mentre lo stesso coach Phil Jackson, che ha condotto la franchigia al successo, è stato vicino all’addio; soltanto dopo mesi di trattative è confermato esclusivamente per quell’ultima stagione, a prescindere dal risultato venga raggiunto. Alle luce di queste vicende, è inevitabile che si inneschi un clima di un’irrimediabile tensione tra la dirigenza e lo spogliatoio.
Insomma, ci sono tutte le premesse per una storia avvincente, una trama succulenta su cui si precipitano i giornalisti, come api sul miele. Nel 1997, infatti, l’emittente televisiva statunitense ESPN stringe un accordo con NBA entertainment ed il proprietario dei Bulls, ottenendo il permesso di riprendere la squadra per l’intera stagione sportiva. Allenamenti, discussioni, interviste pre e post partita: ogni momento della vita sportiva dei Chicago Bulls è registrato dalle telecamere di una troupe cinematografica. Pellicole segrete rimaste custodite in archivio per molti anni, in attesa di confezionare una serie intitolata “The Last Dance”, ovvero il tema scelto da Phil Jackson per la sua stagione conclusiva alla guida dei Chicago Bulls.
Non può che essere lo stesso evocativo titolo ad accompagnare lo spettatore nel racconto delle vicende vissute da Michael Jordan e compagni, nell’ultimo ballo insieme. Guardare “The last dance” è come comporre un puzzle, riordinandone gli elementi sparsi fino a definire la figura: i Chicago Bulls di Michael Jordan, ma anche di Scottie Pippen, Dennis Rodman e Phil Jackson. Tanti tasselli, più o meno delle stesse dimensioni, tutti fondamentali per la costruzione di una delle squadre più forti di tutti i tempi. La regia di “The Last Dance” percorre la stagione 1997/98 come sentiero principale, da cui poi devia per viaggiare nel tempo e scoprire le origini di queste leggende sportive.
Michael Jordan è il perno attorno al quale gira tutto: il gioco, la squadra e anche il documentario, che finisce per scavare spesso nella sua personalità. Nel corso degli episodi, vengono portati alla luce molti aspetti prima sconosciuti dell’ex giocatore; mentre altri, già di dominio pubblico, vengono analizzati sotto un altro punto di vista.
L’infanzia difficile di Pippen, gli eccessi di Rodman, l’approccio zen e filosofico al gioco di Jackson: sono solo alcune delle storie che emergono dalle interviste con i protagonisti, gli avversari ed i personaggi apparentemente minori come staff e assistenti. Questa raccolta di contenuti e materiali è organizzata in modo dinamico ed esaltante. I dieci episodi si muovono danzando sulla linea del tempo, eseguendo dei balzi spazio-temporali che connettono tra loro vicende distanti anche diversi anni.
Ovviamente Michael Jordan è il perno attorno al quale gira tutto: il gioco, la squadra e lo stesso documentario, che finisce per indagare spesso la sua personalità. Così vengono portati alla luce molti aspetti prima sconosciuti del 23, mentre altri, già di dominio pubblico, vengono analizzati sotto un altro punto di vista. Questa ricerca si addentra negli albori della sua carriera, esplorando addirittura la sua infanzia ed il peculiare rapporto col padre ed il fratello Larry. In particolare Michael non sopportava di ricevere meno attenzioni ed essere considerato inferiore al fratello, tanto che il padre aveva dichiarato, prima della prematura morte: “Dirgli che non era bravo in qualcosa erano le parole che lo spronavano di più”. Ecco rivelata l’origine della maniacale ed atavica competitività, che condurrà MJ nell’Olimpo del basket.
In realtà l’indagine introspettiva è tutt’altro che semplice, perché più il documentario cerca di ridurre la distanza tra lo spettatore e il protagonista, più quest’ultimo appare irraggiungibile. “The Last Dance” racconta con efficacia l’ego che straborda dalle parole e dalla figura di Michael Jordan, un carattere a tratti insopportabile e arrogante, che lui stesso temeva potesse emergere dalle immagini d’archivio. Il regista della serie, Jason Hehir, ha infatti confessato che inizialmente la leggenda NBA non volesse portare avanti questo progetto: “La gente penserà che io sia una persona orribile”. Persino lui, in alcuni momenti, si rende conto di essere nudo davanti alle telecamere.
Tuttavia, sul piano narrativo è altrettanto vero che il documentario, inevitabilmente “Jordancentrico”, ne esalti il ruolo e gli consenta sempre di chiudere il dibattito, dicendo l’ultima parola e giustificandosi con le proprie ragioni. Questa prospettiva rappresenta proprio uno dei tanti compromessi presenti nella serie; su tutti, non è stato possibile offrire la ricostruzione degli avvenimenti da parte di alcuni personaggi oggi defunti. Una scelta narrativa che è valsa all’opera le critiche dalla stampa americana e britannica, rispettivamente da parte dei quotidiani The Wall Street Journal e The Guardian.
Lo stile del racconto, lungi dal linguaggio evocativo e poetico, è estremamente pragmatico. Le vicende descritte erano note anche all’epoca, ma i dettagli che vengono portati alla luce sono in buona parte inediti. Anche per questo, nonostante si tratti di un documentario, la serie si assapora come film sportivo.
«Come momento di intrattenimento, la serie ha di sicuro fatto centro; ma sul piano giornalistico non ci siamo affatto» è l’affermazione di Bryan Armen Graham (The Guardian) che parte da una doverosa constatazione: ESPN ha sempre omesso che tra i co-produttori della serie era coinvolta la Jump 23, azienda della galassia gestita dallo stesso Michael Jordan. Perciò, “Se tu puoi influenzare certe scelte, è evidente che farai inserire nel racconto solo quello che ti va bene che appaia. Questo non è buon giornalismo” conclude il cronista.
Nonostante queste critiche isolate, The Last Dance è una docu-serie davvero ben realizzata, forte della completezza della trama e dell’impeccabile ricostruzione analitica. Le innumerevoli testimonianze e punti di vista, montate sapientemente in modo da creare un effetto coinvolgente, arricchiscono la narrazione lasciando trasparire gli intimi rapporti tra gli attori delle vicende. Lungi dal linguaggio evocativo e poetico, il tono dell’opera è estremamente pragmatico e, per quanto le vicende raccontate fossero già note all’epoca, i retroscena che vengono portati alla luce sono in buona parte inediti. Anche per questo, nonostante si tratti di un documentario, la serie si assapora come un autentico film sportivo, una qualità che la rende fruibile per gli spettatori di ogni di età.
Chi ha avuto la fortuna di vivere nell’era di quei Chicago Bulls può ricostruire il reale svolgimento degli eventi, invece la generazione seguente ha la preziosa possibilità di conoscere da vicino una delle più grandi squadre di tutti i tempi. Fotografia, montaggio e colonna sonora contribuiscono a rendere questa serie un successo assoluto, che lascia prevedere un profitto record per ESPN e, di conseguenza, per lo stesso Michael Jordan. Dal canto suo “His Airness” ha annunciato che devolverà in beneficenza l’intero guadagno proveniente questa serie, quantificabile in almeno 3-4 milioni di dollari.
In conclusione “The Last Dance” non è solo l’inestimabile testimonianza di un tempo lontano, in cui lealtà, etica, disponibilità alla fatica ed alla sofferenza erano valori da portare in campo insieme al talento. La resa finale non è la semplice celebrazione di una stagione prodigiosa, bensì è la sintesi di un gruppo che ha raggiunto la gloria, superando divisioni ed individualismi, animato da un inesauribile desiderio di costante miglioramento. Visto il colossale successo della serie, la più vista in assoluto su Netflix Italia, una domanda sorge spontanea: quali altri segreti avrà in serbo per noi ESPN?