Un gioco che deve tornare popolare, ma restando se stesso.
The Queen’s Gambit, tradotto in “La Regina degli scacchi”, è il titolo della celebre miniserie Netflix nata dall’adattamento di un romanzo scritto da Walter Travis. Sul prodotto televisivo è già stato detto praticamente tutto in questi mesi: un successo quasi unanime, capace di catalizzare l’attenzione su un gioco, quello degli scacchi, spesso sottovalutato. Emerge un dato evidente nella serie: l’attenzione attorno agli scacchi è molto più pressante nell’ Unione Sovietica rispetto a quanto lo sia negli USA di quegli anni.
La rivalità scacchistica tra le due super potenze rappresenta un’ulteriore terreno di scontro durante la guerra fredda.
Nell’Unione Sovietica gli scacchi hanno una natura decisamente più popolare; ne parlano spesso anche i protagonisti americani, innalzando l’impero sovietico a casa di tutti gli scacchisti. Senza timori di spoiler, è proprio a Mosca che la protagonista osserva ammirata distese di tavoli predisposti in luoghi pubblici, dove chiunque può esercitare l’arte dell’antico gioco di provenienza araba. Il motivo reale di tale attenzione è squisitamente storico: gli scacchi inizialmente venivano percepiti in Russia, e quindi nel resto del mondo, come un’attività elitaria.
La Rivoluzione di Ottobre sradica questo preconcetto ed anzi, proprio in segno di rottura col passato zarista, consegna gli scacchi al popolo, rendendoli il gioco per eccellenza dell’Unione Sovietica tanto da introdurli nelle scuole al motto di “scacchi alle masse”.
Gli scacchisti russi già negli anni ’30 girano il mondo a insegnare il gioco con ottimi risultati, a maggior ragione considerando che era questo un piano di confronto con gli Stati Uniti di cui i russi potevano farsi vanto. Per capirci, la nazionale di calcio sovietica inizia a partecipare a partite ufficiali solo con le olimpiadi di Helsinki, nel’52.
Spiegato il motivo per cui gli scacchi hanno assunto un ruolo centrale nella contrapposizione tra Usa e Urss, è bene ricordare che la serie e il libro non hanno elementi reali. Sebbene vengano talvolta citati dei grandi maestri realmente esistiti, i personaggi della serie sono tutti inventati. Nessuna donna ha mai vinto il campionato mondiale di scacchi sconfiggendo un uomo perché le competizioni mondiali sono separate per sesso. Per dovere di cronaca, nessuna americana ha mai vinto il titolo, detenuto attualmente dalla cinese Ju Wenjun.
Va poi respinta una certa retorica, mai esagerata ma comunque presente, che postula il dato di verità secondo cui per eccellere negli scacchi serva aiutarsi con farmaci o alcolici o avere atteggiamenti asociali.
In proposito riporto quanto scrive Garry Kasparov, celebre scacchista russo, nel suo “Gli Scacchi, La vita”, raccontando che spesso i cronisti si dimostravano interessati a elementi del tutto incidentali della vita del grande maestro, tipo cosa il campione del mondo mangiasse per cena, attribuendo a quella pratica chissà quale elemento taumaturgico nelle sue vittorie.
Questo chiaramente non trova basi nella realtà, e non esiste altra pratica esoterica se non quella dello studio e dell’allenamento. A proposito, l’attuale campione del mondo Magnus Carlsen ha definito in maniera positiva la serie, ma ha fatto notare che pecca di mancato realismo quando lascia passare sei anni in cui la piccola Harmon non gioca più a scacchi per poi riprendere in modo del tutto estemporaneo. Gli scacchi richiedono, come qualunque altra disciplina, tanto tempo e tanto studio, oltre alla necessaria costanza.
Per vostra curiosità, Kasparov era solito cenare, la sera prima delle partite, con del salmone. Dovette poi smettere perché così gli fu imposto dal medico. Fatte queste precisazioni, la serie contiene comunque elementi e tatticismi realmente appartenenti al mondo degli scacchi, una goduria per chi già conosce il gioco e un interessante espediente per avvicinare e introdurre i neofiti. Si parla a lungo, per esempio, di “difesa siciliana”, uno dei baluardi della teoria scacchistica, oltre che di numerosi libri realmente pubblicati.
A proposito dei libri, le vendite relative al settore hanno avuto un aumento esponenziale: secondo la società di ricerca NPD Group, che realizza un monitoraggio delle vendite al dettaglio di 165.000 negozi in tutto il mondo, nelle tre settimane successive al debutto de “La Regina degli Scacchi” su Netflix le vendite unitarie di set di scacchi sono aumentate dell’87% negli Stati Uniti e le vendite di libri sulle strategie sono aumentate del 603%. La FIDE (Fédération Internationale des Échecs) segnala che nei 10 giorni dalla messa in onda della miniserie le ricerche di seti di scacchi su eBay hanno registrato un aumento del 270%, con un aumento di partite online giocate che passa da 11 milioni a 17 milioni dopo la messa in onda.
Gli scacchi sono così tornati sulla cresta dell’onda, e si manifestano nuovamente come fenomeno pop.
Com’è risaputo, le serie tv e i prodotti culturali in genere hanno questa potenzialità di spostare le attenzioni e gli interessi verso particolari pratiche o discipline. Tutto bene allora? Non proprio. Intendiamoci, che gli scacchi tornino ad essere patrimonio popolare non può che essere un bene, ma bisogna stare attenti in primo luogo a non farli diventare una moda consumistica. Spieghiamoci ancora meglio: serve che questo fenomeno non sia un fuoco di paglia, che la montagna non partorisca un topolino, e che il gioco stesso non venga snaturato e sacrificato per diventare di pubblico dominio.
Che diventi popolare non può che essere un bene, cioè che venga praticato dal più ampio numero di soggetti possibile, male invece se dovessimo assistere alla nascita di un nuovo fenomeno pop che snaturi un gioco così appassionante piegandolo a logiche di mercato finalizzate ad accrescere il numero di giocatori intesi come consumatori.
Quello che non deve accadere, cioè, è che nel tentativo di aumentare a la platea interessata, si ricorra a forme di semplificazione o mutazioni del gioco.
E forme di semplificazione già esistono, proprio nella serie ne abbiamo degli esempi: le partite cosidette blitz (o lampo) sono quelle in cui i giocatori hanno pochissimo tempo di riflessione, in genere 5 minuti. Bene che ci siano, ma attenzione a renderle il fulcro del gioco.
Anche nella serie è possibile vederne, sono quelle in cui i giocatori, per non perdere troppo tempo, seguono schemi e tattiche e puntano tutto sull’intuizione e sulla rapidità di esecuzione. È un tipo di gioco più spettacolare, e questo lo porta a essere tra i più praticati, ma non senza problematiche. Sembra assurdo voler ridurre il gioco degli scacchi a un esercizio di velocità che, per quanto spettacolare, non ha le caratteristiche delle partite giocate con tempi più lunghi. Solo queste permettono realmente di gettarsi in uno scontro mentale e psicologico in cui non solo la tecnica, ma anche la fantasia nel concepire i piani di gioco, diventano cruciali.
Un Grande Maestro come Botvinnik criticava proprio questo tipo di gioco, preferendo i tempi lunghi e lenti che consentono al pensiero di dispiegarsi appieno.
Il rischio dell’eccessiva spettacolarizzazione esiste quindi anche nel mondo degli scacchi, per quanto appaia scongiurato in quanto il titolo mondiale continua ad essere assegnato con partite lunghe e lente. Se allora è possibile fare una distinzione tra popolare e pop per come li abbiamo intesi in questo pezzo, c’è da augurarsi che gli scacchi diventino popolari, ma non pop; che molta gente li pratichi, ma che non si pieghino alla dittatura della maggioranza. Come buon proposito, la Federazione Scacchista Italiana ha lanciato il progetto “Scacchi per tutti”, un interessante modo di approfondire un gioco meraviglioso che si spera possa appassionare tanti, senza perdere le sue qualità peculiari che lo rendono così unico e avvincente.
Agli Europei del 1964, la Spagna di Francisco Franco, padrona di casa, ospita l'Unione Sovietica dei gerarchi di partito. Così il calcio diviene uno strumento raffinatissimo al servizio dei Paesi autoritari.