Quando Ian avvertì il freddo metallico delle manette ai polsi capì che alle volte la notte può essere più buia di quanto uno possa pensare. E laddove non c’era il buio, c’erano le luci azzurrognole della macchina della polizia a rendere surreale l’intera scena. Dentro l’auto tutto turbinava attorno al gracchiare della radio collegata alla centrale, mentre Ian, con la testa appoggiata al vetro, vedeva nel riflesso chiaro dei suoi occhi lo scorrere dei lampioni di Flint con il loro pallore smorto che stranamente, per uno strano meccanismo interiore, gli apparivano come l’unica cosa ancora tranquilla al suo posto.
Una frase a quel punto gli si stampò in testa: “Cazzo, mi portano in galera!”. Ora, tutto quello che gli sembrava molto particolare, perfino divertente, si scontrò con l’imprevista, aspra, tangibilità della prospettiva di essere diventato un aspirante al carcere. Il minorenne Ian dovrà aspettare l’alba nella cella temporanea della stazione delle forze dell’ordine di Rhyl, solo all’indomani si sarebbe valutato il codice penale al comma del reato commesso.
Ad ogni modo, lo buttarono dentro senza troppa premura. Cancello, porta blindata, sbarre. Una volta spuntato il sole non avrebbe visto dalla finestra del soggiorno l’estuario del fiume Dee e nemmeno le rovine del castello dove nel 1399 Riccardo II d’Inghilterra fu spodestato da Henry Bolingbroke. Ian avrebbe visto solo una parete scarabocchiata con del gesso e il neon livido sopra di lui.
E a quel punto pianse. Immaginò la tribolazione e lo smacco inferto ai suoi genitori nel momento in cui sarebbero venuti a sapere dell’accaduto. Soprattutto si disperò per sua mamma Doris. E si rivide a soli cinque anni affetto da una forma di meningite che lo lasciò in coma per dei giorni con la febbre alta e solo la borsa del ghiaccio premutagli sulla fronte riusciva a dargli sollievo.
Ian non ha avuto per niente un infanzia tranquilla e quella sera nella prigione della cittadina gallese, senza dubbio, toccherà l’apice della sua irrequietezza adolescenziale. La scuola saltata, le zuffe con i coetanei, le grandiose sbronze nei pub del circondario. Eppure il pallone sapeva benissimo dove indirizzarlo. Alla San Richard Gwyn Catholic High School di Flint aveva segnato in un anno qualcosa come 79 reti, stabilendo il record di goal del campionato scolastico del Galles settentrionale ispirandosi al suo idolo Jimmy Graves. Tuttavia quella notte, insieme a un paio di compagni, il contropiede non funzionò a dovere: scassinò la porta di un emporio rubando alcuni distintivi da infilare nell’occhiello del cappotto ed altre amenità. Una bravata, ma vennero presi in flagrante e Ian “James” Rush, seppure rilasciato con gli altri nel pomeriggio seguente, si beccò due anni con la condizionale: una lezione salutare, dirà in seguito.
Da Flint, Ian scenderà a Chester. Il pallone aveva chiamato. O meglio aveva chiamato Alan Oakes manager dei Seals (che in italiano suona alla stregua di timbri o sigilli). Nella bucolica Chester, in mezzo alle casette di argilla rossa col tetto di paglia, dedali di siepi e pergolati, il City giocava nel vecchio impianto di Sealand Road annaspando in terza Divisione.
La carriera di Rush prenderà una decisa svolta la sera del 5 gennaio 1980. Nel terzo turno di FA Cup nel solito fango e sotto il solito cielo grigio, il Chester City piegherà abbastanza sorprendentemente il Newcastle per 2-0 e la seconda delle marcature porterà il suo nome. Vide tutto Bob Paisley che staccò un assegno da 300000 sterline portandosi Rush a pochi pascoli di distanza ma infinitamente più in alto nella piramide calcistica.
Il Liverpool lo cullerà per un po’ nelle acque della Mersey finchè Ian esplose sciorinando il suo repertorio offensivo. Fiutava la rete, la annusava, la percepiva. Un segugio astuto negli spazi stretti, letale nelle praterie del contropiede. La squadra incomincerà a muoversi per lui, una corale rossa a disposizione degli acuti del proprio cabalistico numero nove; da Phil Neal a Ronnie Whelan, da Graeme Souness a Kenny Dalglish.
Rush era la folata di vento che scuoteva il mare di teste brulicanti della Kop, con quel suo sguardo sornione, i capelli neri sparati all’indietro, i baffetti spioventi e le gambe sottili, lunghe, simili alla fenice cucita sulla maglia. Nella Liverpool dei primi anni ottanta i ritmi taglienti dei “Frankie Goes to Hollywood” si affiancarono a quelli battenti e intramontabili dei Beatles e Anfield si accenderà ipnotico in un trip culminato nella finale di Coppa dei Campioni disputata all’Olimpico contro la Roma.
Rush realizzerà uno dei rigori decisivi ma il fatto che i Reds avessero in pugno l’inerzia mentale della sfida lo si capì poco prima dei tiri dal dischetto quando uno spensierato Mark Lawrenson pensò bene di mettersi a palleggiare con uno dei due assistenti dell’arbitro.
Flint, Chester, Liverpool, un triangolo scaleno di terra divisa fra Galles e Inghilterra, contesa fra il drago e il leone, un piccolo mondo antico a cui “Rushy” difficilmente avrebbe potuto rinunciare. Sarà forse anche per questo che trovò Torino troppo distante e troppo diversa, cedendo ben presto alla malinconia e alla nostalgia di casa, come smarrito lontano dalle sue radici identitarie, annullato dall’astinenza di quella pinta in allegria bevuta a fine match e dalla consueta partitina defaticante a snooker.
E allora tornerà ad Anfield riabbracciato dal suo popolo, perché ci saranno ancora titoli da festeggiare, pomeriggi a Wembley da onorare e naturalmente ci sarà sempre quel coro senza soluzione di continuità:
“With hope in your heart, And you’ll never walk alone…”