La tempesta mediatica alimentata dall’introduzione (e rapida dissoluzione) della Superlega ha riportato al centro del dibattito diverse tematiche. Una su tutte, quella relativa a coloro che il calcio lo vivono con impareggiabile passione e che, tra le altre cose, lo alimentano con i propri soldi. I tifosi.
In questi giorni abbiamo potuto vedere come i supporters siano stati tirati in ballo da ogni fronte, partendo proprio dalle dichiarazioni di Andrea Agnelli che, dopo aver annunciato la creazione della nuova competizione europea, ha dichiarato:
«La Super League è per i tifosi. Vogliamo un programma che alimenti il desiderio del calcio».
Sorge immediatamente una domanda: a quali tifosi si riferisce esattamente? Probabilmente ai clienti o abbonati digitali di cui hanno bisogno le società di oggi. Non di certo a coloro che seguono la propria squadra in ogni dove, e che non hanno bisogno di una Superlega per appassionarsi allo sport che amano dalla culla.
Dopo le sparate del patron bianconero, non si sono fatte attendere le parole di altri autorevoli esponenti delle più grandi organizzazioni governative del calcio. In primis Čeferin, presidente UEFA, che non solo ha accusato i club coinvolti di avidità – da che pulpito – ma ha aggiunto che «il progetto è uno sputo in faccia ai tifosi».
Poi è stato il turno di Gianni Infantino, numero uno della FIFA, che al congresso UEFA tenutosi a Montreux ha detto: «Sono qui oggi per dare pieno supporto al calcio europeo, alla UEFA, alle 55 federazioni, alle leghe, ai club, ai giocatori e a tutti i tifosi».
Risulta quantomeno bizzarro che costoro si ergano a difensori dei diritti dei tifosi, e abbiano la presunzione di sapere quali siano le loro necessità. Proprio loro che hanno contribuito alla commercializzazione e alla mercificazione spietata del calcio a discapito degli appassionati. Basta citare qualche esempio per capire quanto questi personaggi, novelli salvatori del pallone, abbiano realmente a cuore il calcio e il benessere dei tifosi.
Aumento esponenziale del costo dei biglietti – soprattutto nelle partite europee, vero Uefa?; pressoché totale abolizione dei settori popolari a vantaggio di ogni sorta di VIP area; calendari che prevedono partite il venerdì, il lunedì sera, il martedì alle 18, il mercoledì alle 15 e via discorrendo; finali di Supercoppe nazionali (di federazioni quindi affiliate all’UEFA), disputate in Cina o negli Emirati Arabi per meri scopi di lucro; assegnazione dei mondiali in Qatar, con tutti i lati oscuri del caso; mancanza di una vera regolamentazione che attutisca l’egemonia dei super-agenti; telenovela dei diritti TV che ogni anno costringe gli abbonati a migrare su sempre nuove piattaforme, sempre e comunque a pagamento; e chi più ne ha, più ne metta.
Per fortuna di questo sport, i mega manager non sono stati gli unici a parlare dei tifosi. Tra i primi a esporsi dopo la creazione della Superlega Gary Neville, che ha definito il progetto un «atto criminale» e in qualità di «tifoso del Manchester United da 40 anni» ha dichiarato che «i tifosi vanno protetti da questo scempio dettato dall’avidità».
Alle sue parole si sono aggiunte quelle di Gary Lineker – «Il calcio non è niente senza i suoi tifosi. Lo abbiamo visto chiaramente negli ultimi 12 mesi. Se i fan si oppongono a questo schema piramidale anti-calcio, può essere fermato sul nascere» –, di JurgenKlopp – «Le cose più importanti del calcio sono i tifosi e la loro squadra, e dobbiamo assicurarci che niente si metta in mezzo tra di loro» – e di tantissimi altri addetti ai lavori.
Addirittura il Leeds del ‘loco’ Bielsa, nel riscaldamento dell’incontro di Premier contro il Liverpool, è sceso in campo con delle magliette che riportavano la scritta «Football is for the fans». A queste dichiarazioni si è poi aggiunto il pensiero, mai banale, di Eric Cantona: «Questi grandi club hanno chiesto ai tifosi cosa ne pensassero? No, purtroppo non l’hanno fatto. E questa è una vergogna».
Dice bene Cantona, una vergogna. Non a caso sono subito “scesi in campo” i tifosi che popolano, o almeno popolavano, gli stadi, e che vivono per la propria squadra del cuore. In Inghilterra, forse agevolati dalle minori restrizioni in vigore, si sono immediatamente ritrovati in strada a protestare e a manifestare il loro dissenso. A Liverpool, sponda Reds, hanno prima annunciato che avrebbero immediatamente tolto le storiche bandiere dalla Kop, poi hanno appeso alcuni striscioni emblematici fuori dai cancelli di Anfield: «LCF fans against European Super League» e ancora «Shame on you, R.I.P LCF 1892-2021».
Anche le altre tifoserie inglesi non si sono fatte attendere, così i fan di Tottenham, Arsenal e Chelsea hanno espresso il loro totale disappunto facendo sentire la propria voce in ogni modo possibile. Gli ultimi, prima della sfida contro il Brighton, si sono presentati in massa fuori da Stamford Bridge a inveire contro la proprietà e il “folle progetto”. Durante la protesta è poi giunta la notizia che il club aveva deciso di fare un passo indietro, scatenando la pazza gioia dei supporters.
Anche in Italia, seppur in maniera più blanda, le tifoserie delle squadre coinvolte nel progetto si sono fatte sentire con striscioni e comunicati. Il più emblematico è sicuramente quello congiunto di Curva Sud Milano e AIMC (Associazione italiana Milan Clubs), nel quale i tifosi hanno scritto di non essere affatto stupiti di fronte al progetto della Superlega. Quest’ultimo è senz’altro da condannare, il senso del messaggio, ma Fifa e Uefa hanno solo spianato la strada in questi anni.
Non sono state da meno anche tutte le altre tifoserie italiane, che hanno espresso una netta contrarietà. Alcuni, come atalantini e spezzini, auspicavano addirittura che la Superlega andasse in porto, cosicché il pallone dei meno potenti potesse riacquisire quella genuinità ormai perduta. Altri hanno semplicemente rimarcato il concetto per cui il calcio resta “della gente”, quasi una banale tautologia in un mondo normale. In ogni caso il messaggio è sempre lo stesso: disprezzo totale verso una competizione basata esclusivamente su logiche di mercato e conti in banca, peraltro segnati da debiti strutturali.
Così dopo il tramonto della Superlega, forse grazie anche alle innumerevoli manifestazioni di dissenso, i colletti bianchi di moltissimi club coinvolti hanno dovuto ritrattare.
Il primo è stato il patron statunitense del Liverpool, John W. Henry, che ha fatto ammenda pubblicamente con un video in cui, tra le altre cose, dice: «Voglio scusarmi con tutti i tifosi e sostenitori del Liverpool Football Club per lo sconvolgimento che ho causato». E ancora: «Sono desolato di avervi deluso. Sono io il responsabile della negatività che si è creata in questi giorni. Non lo dimenticherò e farò di tutto per riconquistare la vostra fiducia».
Poi è stata la volta del Ceo del Manchester City, Ferran Soriano, che ha inviato una lettera ai propri tifosi in cui si legge: «Il board si rammarica profondamente di aver preso una decisione cheha perso di vista i valori storici di questo club. Abbiamo fatto un errore e ci scusiamo sinceramente con i nostri fan per la delusione che gli abbiamo causato nelle ultime 72 ore».
In casa Inter, Beppe Marotta ha recentemente affermato che nella questione Superlega «sono stati sottovalutati alcuni aspetti importanti, tra cui la voce dei tifosi». Citando Gramellini, la disfatta del progetto dei dodici si può riassumere con il fatto che «i golpisti non hanno avuto il sostegno dell’esercito e della nomenclatura, rappresentati nel calcio dai tifosi e dalle vecchie glorie».
Nonostante i validi e spassionati commenti di personaggi che il calcio lo vivono (o l’hanno vissuto) da protagonisti sul campo, le prese di posizione di leader politici e tifosi, e quelle di coscienza di alcuni dirigenti “scissionisti”, continua ad aleggiare nell’aria – soprattutto in casa Pérez e Agnelli – la convinzione secondo cui le nuove generazioni abbiano bisogno di un prodotto diverso. Più spettacolare, più interattivo e soprattutto più esclusivo.
Purtroppo per loro la realtà sembra essere assai diversa. La sollevazione popolare del mondo del calcio ha evidenziato come il tempo della rivoluzione oligarchica sia di fatto ancora lontano. E non si tratta del pensiero di una risicata minoranza nostalgica, bensì di un popolo che il calcio ce l’ha nelle vene e lo vive con trasporto incondizionato.
Lo sport più popolare al mondo ha evidentemente bisogno di un’evoluzione, che probabilmente sarebbe meglio chiamare rifondazione. C’è chi sostiene che il calcio si debba adattare alle nuove generazioni per evitare un disamoramento di massa, ma forse è proprio il contrario. Il segreto di questo sport è la sua semplicità: per questo il calcio è cultura di popolo e i tifosi, anche quelli giovanissimi del Chelsea scesi in piazza per ribadirlo, ne sono la prova.