O della ragion di cassa che vale più del cuore.
Per chi crede nell’emotività del pallone, per chi è convinto che un gesto tecnico valga il prezzo del biglietto, per chi crede che la somma dei giocatori faccia la partita ed il gioco, sono ormai tempi duri. E fin qui ci siamo tutti. Il problema da porsi, però, riguarda un tifo assuefatto allo spirito del tempo e alla logica economicista corrente, il quale non tenta neanche più di resistere. Assistiamo ormai impotenti al proliferare di visioni “ragionieristiche” dei tifosi e dell’approccio al football, a cominciare dal calciomercato per finire con l’analisi delle gesta delle squadre sul rettangolo verde.
Recentemente ad esempio abbiamo evidenziato come Bremer sia passato dall’altra sponda di Torino senza colpo ferire, senza il minimo sdegno dei tifosi granata e senza il più pallido imbarazzo del giocatore nell’affermare, in sede di annuncio del passaggio alla Juventus, di rimanere per sempre un tifoso torinista. Allo stesso modo, per giorni si è parlato in maniera stucchevole di normalizzare la (bassissima e denigratoria) clausola risolutiva del contratto voluta da Dybala, o da chi per lui, e concessa dalla Roma: in quanti, soprattutto tra i tifosi, per mettere le mani avanti continuano a ripetere che – mal che vada –
“ci saremo goduti un campione per una grande annata e ci faremo 20 milioni dopo averlo preso a zero”?!
L’anima popolare del calcio è pressocché estinta. Non conta più niente aver preso un grande giocatore, o averlo perso per una squadra rivale. Contano plusvalenze, contenimento costi e “sostenibilità competitiva” (sic!). Ed è comprensibile e naturale che sia così per il mondo del calcio, ci mancherebbe altro, ma non per i tifosi. Di fronte all’esplosione del professionismo e della “ragion di cassa”, assistiamo inermi alla deriva finanziaria di questo sport. Ma quello che fa specie, è la parallela e direttamente proporzionale deriva dei suoi tifosi: il problema vero, quindi, è che a tutti pare in fondo andar bene così.
I dibattiti sono pieni di calcoli aritmetici, conteggi bilancistici e previsioni di spesa, sia nel momento del calciomercato che alla fine dell’anno, quando si tratta di valutare l’esito di una stagione sportiva. Ed è così che un tifoso del Torino urla ai quattro venti che è impossibile rifiutare 50 milioni per il suo uomo copertina dalla più acerrima rivale; così gli juventini continuano ad imprecare per il disastro finanziario dell’operazione Cristiano Ronaldo (ma dai, Cristiano Ronaldo!); così i milanisti campioni d’Italia continuano ad idolatrare una dirigenza che non spende niente e resta “con la schiena dritta”. Così, infine, si parla delle moli debitorie dei vari club e di Fair Play Finanziario pure al bar, senza neppure cosa significhi.
Ma com’è possibile non provare l’emozione di vedere la propria squadra accostata a grandi (e costosi) giocatori? Come si può tollerare la cessione alla peggiore delle rivali? Ormai questa società iperinflazionata (in tutti i sensi, ormai) e iperresponsabilizzante – che educa il cittadino ad essere “esperto” di dinamiche internazionali, sanitarie, geopolitiche, pena la scomunica dalla società civile – ha istruito bene i consociati a pensare alla ragion di stato: il razionalismo sfrenato, che uccide le passioni ed alimenta lo sfibrante perbenismo moderno, porta amministratori ed amministrati a professare la stessa retorica stantia. Un ossimoro naturale da che mondo è mondo.
Ed è così che Zaniolo “se portate 60 cucuzze è vostro”, che Maldini “non deve cedere ai ricatti”, che “Marotta deve pensare prima a vendere, ci sta che non compri” e che Bremer costi troppo e De Ligt troppo poco.
Un tempo avremmo al massimo assistito a proteste come “guai a chi tocca il nostro giovane più rappresentativo!”, oppure alla messa sotto pressione del club campione d’Italia che tira lungo un mese per un giovane di belle speranze e niente più. Per non parlare della retorica Contiana (ma prima di lui ci aveva pensato Benitez e dopo, soprattutto, Sarri) del ristorante da 100 Euro: se non spendi, non vinci; se hai i conti in ordine, è normale non vincere. Ma questo lo deve dire uno del mestiere che vuole mettere le mani avanti in caso di insuccesso. Non lo può pensare anche un tifoso vero! Può rassegnarsi alla fine della stagione e tifare di più per quella successiva, ma mai può partire all’inizio senza l’ambizione ed il sogno di un successo.
Com’era bello sognare l’acquisto di Beckham dopo l’insospettabile litigio con Ferguson e l’impossibile separazione dallo United, quando si doveva continuamente collegarsi al 201 di Mediavideo per avere l’ultim’ora sportiva. E chissà come sono stati per gli juventini i dieci giorni del luglio 2018, quando fu palese che la trattativa per Ronaldo era bella che vera. E chi si ricorda il Milan del 2002/2003 che in un colpo solo prende Seedorf, Rui Costa, Nesta? Senza parlare di Batistuta che approda nella capitale per vincere uno scudetto che in effetti vinse, e anzi per strapparlo dal petto ai cugini biancocelesti, campioni l’anno prima: certo poi c’è Sensi che si svena e tutte le conseguenze pagate dalla proprietà negli anni successivi, però lo Scudetto è lì, bello tirato, in bacheca, e per un tifoso vale una vita.
Ormai il dado è tratto: il tifoso è consapevole prim’ancora dell’ad di un club che prima si deve ammortizzare, tagliare, liberare i conti, poi fare plusvalenza, scouting e quant’altro occorrer possa. “Non è più tempo (ci hanno insegnato anche questa formula) dei presidentissimi“, che spendevano e spandevano per vincere e magari accontentare i propri tifosi. Resiste, forse, un’ultima isola “infelice”: Napoli città ha continuato a urlare sdegnata che non se ne fa nulla di piazzamenti ad un passo dalla storia se la storia non si raggiunge per il proprio braccino corto. Continua a maledire tutte le generazioni degli Higuaìn e dei Koulibaly (almeno finché si è sentita “puzza di Torino”). E allora diciamolo forte “e tutti insieme”: il calcio come fenomeno sociale e identitario è morto, ma lo spettacolo deve andare avanti.