L'importanza del dodicesimo uomo, soprattutto a Roma.
È una deriva tutta moderna, anzi tutta contemporanea, quella di credere che il calcio si riduca ai soli fatti di campo. Se un tempo il dodicesimo uomo era il pubblico oggi questo ruolo spetta all’allenatore che anzi, nel nuovo immaginario calcistico collettivo, viene spesso ancor prima della squadra. Un processo fisiologico, in un football sempre più tecnologicamente avanzato, scientifico, accurato e programmato, nel quale come in una bilancia il carattere (e il controllo) lo hanno perso i giocatori e lo ha acquisito sempre il tecnico in panchina: demiurgo, ideologo e condottiero dei suoi uomini.
Tuttavia chi oggi contesti l’importanza di un allenatore, nella crescita e nell’affermazione di una squadra, suona necessariamente più anacronistico che vent’anni fa. È normale che sia così, posto poi che un tecnico ha tanti modi di incidere a seconda dei contesti e della sua formazione – con buona pace di chi vorrebbe tutti allenatori alla Football Manager, giovani laptop player alla Nagelsmann ossessionati dal controllo e dalla tattica. Anche alla Roma d’altronde, e qui veniamo a noi, Mourinho è diventato il cervello e l’anima di un club.
Di José e del suo lavoro a Roma parleremo presto in un pezzo dedicato, magari più in là nella stagione, ma di certo non è un caso che la squadra sia cresciuta in personalità, certezze, cattiveria; che abbia iniziato a fare punti negli scontri diretti e riportato a Roma un trofeo dopo quasi 15 anni (europeo dopo più di 60 anni). Ma in questo processo di crescita, che i nerd del football non riescono proprio a vedere, così concentrati sul dito (il “gioco”, non certo spettacolare, espresso in campo) e non sulla luna (la crescita a 360 gradi di un club), l’allenatore giallorosso ha avuto una sponda imprescindibile nel pubblico romanista.
Perché da vero uomo di calcio, e con ciò si intende uno ben consapevole che “chi sa solo di calcio non sa niente di calcio”, Mourinho era a conoscenza di quanto il pubblico di una piazza come Roma potesse essere un fattore decisivo.
Non è tanto questione dei sold-out consecutivi, degli oltre 60mila che da mesi stabilmente popolano lo Stadio Olimpico in ogni singola partita giallorossa; come ha precisato lo stesso Mourinho, c’è sold-out e sold-out. Il sold-out di ieri sera, tanto per essere chiari, non era quello registrato con il Verona e neanche con la Juventus – in cui sì lo stadio era carico, ma non ribolliva come ieri. Il sold-out di ieri era (quasi) come quello dell’anno scorso con il Bodo, in cui un catino infuocato ha spinto i suoi gladiatori alla rimonta, ed era come quello delle fasi finali della Conference League: un Olimpico, ovvero, che ha fatto vincere alla Roma un trofeo.
In tanti potranno storcere il naso ma noi li invitiamo a dismettere i pregiudizi, ad alzarsi dal divano o ad alzare gli occhi dal proprio device; li invitiamo a venire in un qualsiasi stadio che ribolle, elettrico e abissale, e capire quanto possa cambiare una partita. Una dinamica che si alimenta di atmosfere, di emozioni, di cori a seconda dei momenti che la Curva deve sapientemente gestire. L’anno scorso ad esempio la Roma ha vinto la Conference con un coro, che partiva dall’ottantesimo minuto e arrivava fino al fischio finale, che riusciva a coinvolgere non solo la Sud e i Distinti (come sostanzialmente tutti gli altri cori) ma anche il resto dello Stadio.
Un coro per gli ultimi minuti di sofferenza, per esorcizzarli e per spingere i calciatori, ormai quasi stremati, a quello scatto in più, a quel contrasto in più, a quello sforzo ulteriore; per fargli capire quanta gente ci fosse che contava su di loro.
Se i tuoi colori sventolo/ i brividi mi vengono/ non mi stanco mai di te/ forza grande Roma alé.
Quest’anno quel coro è stato riposto in soffitta, sostituito da un altro, forse ancora più bello e creato dai Fedayn, anch’esso in grado di coinvolgere tutto lo Stadio: pure la tribuna Monte Mario, il settore più esclusivo del tifo, sempre comodamente seduto come fosse a teatro, che ieri sera ha cantato fino a sgolarsi. Distinti sessantenni, con famiglie e ben vestiti, che hanno iniziato a saltare e sventolare sciarpe come fossero ragazzini.
Giallorossa è unica/questa maglia è magica per me/ eh ehhh/ tu lo sai la domenica ovunque giocherai ti seguirò/ oh ohhh.
Coro che si ripete una volta cantato a bassa voce, con le bandiere immobili e ammainate, con tutti giù fermi e abbassati, e poi un’altra cantato a squarciagola, sventolando quelle stesse bandiere e sciarpe, saltando e creando un’autentica (e divertente) bolgia collettiva.
Un video dalla Tribuna Monte Mario del tifo romanista: dopo pochi minuti, sarebbe arrivato il raddoppio giallorosso
Un coro che, torniamo al punto, carica i giocatori e fa trovare loro energie insperate, nascoste in profondità. Pensate avere 60mila persone che cantano come pazzi per voi: se non siete fatti di chip e circuiti, qualcosa che vi sale dentro lo sentite. Come ieri, quando il coro è partito all’80′ circa e ha dato una scossa alla squadra, revitalizzata dalla spinta dell’Olimpico e andata dopo 5-10 minuti a conquistarsi quel corner, a batterlo meravigliosamente (con Dybala) e ad insaccare con l’incornata di Kumbulla per il 2-0 finale. Ieri quel gol lo ha fatto (anche) il dodicesimo uomo, e non si tratta assolutamente di retorica, bensì della realtà più concreta possibile.
Poi c’è stata la grande prova caratteriale e mentale della squadra e la gestione perfetta di Mourinho. Una partita e una vittoria mourinhana al 100%: cattiva, cinica, di personalità. E preparata meticolosamente, come in occasione di un primo gol provato paro paro in allenamento (come poi confessato dallo stesso allenatore) e nella messa in sicurezza all’intervallo di una Roma che aveva iniziato a soffrire il possesso palla qualitativo tra le linee dei baschi (Illaramendi, Merino, Kubo e soprattutto David Silva), a cui poi i giallorossi hanno chiuso spazi e linee di passaggio nella seconda frazione.
C’è tutto questo, e certamente c’è gente più brava di noi che può evidenziarlo con lavagne tattiche, heat maps e via discorrendo. Noi però siamo qui a ribadire quanto i tifosi possano indirizzare una partita. Mourinho, da grande psicologo ancor prima che da grande allenatore, lo sa benissimo e parla incessantemente di pubblico, sapendo che questo non può limitarsi alla sola Curva. Dopo il Salisburgo, nella solita apologia del tifo curvaiolo, il tecnico portoghese aveva non a caso rimproverato a quelli dietro di lui, quindi le tribune, Monte Mario ed affini, di “dormire” anziché tifare.
Che bisogno c’era, si sono chiesti in molti, di questa puntualizzazione dopo una vittoria fondamentale? Perché questa critica nei confonti di un settore che mai ha partecipato al tifo da stadio?
Perché, consapevole del suo potenziale, Mourinho vuole “tutto lo stadio” a tifare: come col Bodo, come nelle fasi finali della Conference, come ieri sera. Perché sa benissimo che lì, e per davvero, si gioca 12 contro 11. «Quando questo stadio vuole giocare non è solo bello, perché puoi essere bello e non fare niente. Quando questo stadio gioca con noi ci aiuta veramente». Parole sue, di ieri notte, rilanciate dai canali ufficiali della Roma: anche loro, sanno.