Un viaggio nell'utopia dei nuovi ultras del calcio amatoriale britannico.
Stazione ferroviaria di Coventry, 24 agosto 1968. La gara tra i padroni di casa ed il West Ham United è appena terminata e i cazzotti volano tra le due tifoserie. A dar man forte agli Eastenders ci sono due volti familiari ai tifosi, Billy Bonds e Harry Redknapp – rispettivamente numero 4 ed 11 degli Irons – che appena lasciato Highfield Road non hanno perso l’occasione di unirsi ai loro sostenitori.
A 50 anni di distanza, nel marzo 2018, sul terreno dell’Olympic Stadium di Londra – la nuova, contestata casa del West Ham United – il capitano e simbolo claret&blue Mark Noble viene ripreso dalle telecamere nel mezzo di una baruffa con un tifoso in aperta contestazione con la società. Cosa è andato storto nel calcio inglese? Cosa ne è stato della sua distinta attitudine operaia e del suo spirito di identità? La risposta è nota ai più: Premier League. Da quando nel tè dei sudditi di sua maestà, al post del latte freddo, si è iniziato a versare il petrolio arabo le cose non sono più state le stesse.
Tra l’ottavo e l’undicesimo gradino della piramide del calcio britannico – tra i campi della cosiddetta Non-League, ovvero l’insieme di campionati semi e non professionistici inglesi – una nuova generazione di supporters ha deciso di reagire al calcio moderno, con il suo progressivo distacco tra giocatori e tifosi. A sud dell’isola, tra la capitale e la costa dell’East Sussex, dove la gentrificazione ha colpito duro tra villaggi di pescatori, decadute destinazioni di villeggiatura georgiana e quartieri alternativi di Londra, sono arrivati gli ultras.
Non ci si aspetti, però, scontri con la polizia, lancio di oggetti o cori discriminatori. Gli ultras inglesi si definiscono anti-omofobi, anti-razzisti ed anti-sessisti. Dimenticatevi la violenza degli hooligans e dei casuals working-class, i nuovi ultras britannici appartengono alla middle-class, bevono IPA e non fanno mistero della loro natura hipster.
Il loro approccio al tifo è tanto di stampo continentale – da qui l’uso dell’italiano ultras – quanto ricco di goliardia. Immaginatevi il vecchio tifo britannico riadattato ai valori traboccanti di politicamente corretto dell’Inghilterra contemporanea. Insomma, sofisticatezza sulle gradinate, ma nulla a che vedere con Hugh Grant in giacca di tweed al Craven Cottage. Benvenuti tra i tifosi del Dulwich Hamlet, Whitehawk FC, Eastbourne Town e Clapton Community FC.
Il loro approccio al tifo è tanto di stampo continentale – da qui l’uso dell’italiano ultras – quanto ricco di goliardia.
Durante il mio ultimo anno di università nel Regno Unito, ho trascorso un’intera stagione al seguito degli ultras responsabili di aver trasformato le pacate e anonime tifoserie di club amatoriali nella nuova frontiera del tifo britannico. Ciò che ne è scaturito è stato un viaggio caleidoscopico tra fumogeni, passamontagna, cori in italiano storpiato ed espresso martini a bordo campo.
Eastbourne, dormiente località balenare a pochi chilometri da Brighton, costa sud-est inglese. In un caffè dagli interni minimalisti dove l’unico cenno di vita è dato dalle mele retroilluminate dei Macbook di chissà quanti aspiranti scrittori – tutti così unici, tutti così omologati – incontro Mark Doidge, docente di sociologia dello sport, stimato studioso di tifoserie calcistiche e sostenitore del Whitehawk FC, la seconda squadra di Brighton fondata nel 1945 e militante nell’Isthmian League South East Division. Doidge mi spiega che lo stile degli ultras inglesi è tutto fuorché aggressivo. Allo stadio, addirittura, non ci si insulta e non si impreca.
“Alcuni dei ragazzi potrebbero eventualmente essere violenti per ragioni politiche fuori dallo stadio, ma non lo sono mai sulle gradinate,” racconta il docente-tifoso, “Anzi, una volta gli ultras hanno fatto da pacieri durante un diverbio con i tifosi del Wealdstone”.
Prendo atto di quest’etica durante il match casalingo tra Eastbourne Town e Three Bridges. L’atmosfera si scalda ad un paio di minuti dal calcio d’inizio, quando gli ospiti iniziano a provocare i tifosi di casa. Nonostante l’assenza di qualsiasi tipo di barriera tra le due tifoserie, se non un paio di steward decisamente fuori forma – non stupitevi, d’altronde siamo al nono gradino della piramide calcistica britannica – non scoppia alcun tafferuglio.
È tutto così strano, se non naif, che per un istante viene nostalgia per la genuina semplicità dei metodi risolutivi dei vecchi hooligans. L’unica reazione del Pier Pressure/Beachy Head – il gruppo ultras al seguito dell’Eastbourne Town – è assai esilarante. “Where’s your Burberry? Where’s your Burberry?” cantano in scherno all’abbondanza di Aquascutum – brand cardine dell’estetica casual, simile a Burberry nella trama del quadro, ma spesso visto come secondo a quest’ultimo – tra le fila dei supporters Three Bridges.
Sebbene diversi nell’approccio al tifo, i nuovi ultras inglesi condividono con i vecchi hooligans l’attaccamento all’heritage sottoculturale britannico, pur reinterpretandolo a modo loro. Se l’idea di anfibi Dr. Martens, bretelle sottili e teste rasate viene tradizionalmente associata – tanto nella sua originale incarnazione anni ’60 che nel revival dei tardi ’70 – con la violenza di gruppo, gli skinhead del Whitehawk FC con i loro camiciotti Brutus, rigorosamente button-down, ed i bomber coperti in toppe S.H.A.R.P. (Skinheads Against Racial Prejudice), sono la dimostrazione della volontà degli ultras di mediare tra revivalismo calcistico e nuovi sistemi di valori. Matt ‘Maud’ Neesam, uno dei leader del Pier Pressure, si affretta a rassicurarmi che “nonostante alcuni dei ragazzi siano skinhead, non sono affiliati al National Front”.
All’uscita della stazione dell’overground di Dulwich, Londra sud, un vecchio doubledecker bus convertito a bar suggerisce di essere arrivati in una delle più chiacchierate aree alternative della capitale. A catturare la mia attenzione è un alquanto originale corteo guidato da un punk sulla trentina. Capelli tinti di arancione, sguardo estatico alla Johnny Rotten e una sciarpa blu e rosa – i colori sociali del Dulwich Hamlet – attorno al collo. A capo della processione laica, brandente un imponente scettro a mo’ di sciamano, è Robert Molloy-Vaughan, leader del Comfast Chapter, il gruppo ultras a seguito degli Hamlets. Dopotutto, come l’antropologo britannico Desmond Morris scriveva nel suo La Tribù del Calcio, le squadre di calcio non sono altro che tribù, ed i tifosi i loro seguaci.
Nonostante i tifosi di queste realtà amatoriali mostrino una fascinazione per le sottoculture britanniche, il loro tifo si rifà al modello italiano e tedesco. Sebbene nei pub di Sua Maestà si venda ormai più prosecco che bitter, a sedurre gli ultras inglesi sono le curve continentali. Le restrizioni e limitazioni che i tifosi britannici si sono visti imporre negli ultimi trentanni hanno esasperato questi ribelli del calcio globalizzato che vedono la libertà di stare in piedi nelle curve come un ritorno alla spontaneità perduta in Inghilterra. Non c’è dunque da stupirsi se al The Saffrons si leva un Forza Eastbourne, o se a Dulwich gli ultras mostrino con orgoglio lo striscione Über Alles.
Si aggiunga il fascino retrò della Serie A di meta ’90-inizi ’00 – che teneva testa in giocatori, tifo e spettacolo alla Premier League – ed ecco servitovi il manifesto degli ultras UK. Dopotutto le nuove leve britanniche sono stanche dei cliché culturali domestici, siano essi culinari o calcistici, che all’estero ancora seducono. Gli ultras non si spiegano l’ossessione degli italiani con i casuals anni ’80 e ritengono stucchevole la popolarità di quel vestiario tra i ‘lads’ – i classici giovani tifosi britannici piuttosto ‘coatti’ che bevono pinte di Stella Artois, vestono slim-fit e ritengono gli Oasis la miglior band mai esistita. Non è inusuale, infatti, incontrare in uno di questi stadi giovani tifosi in piumini, nostalgici della cultura paninara mai vissuta.
Un sabato pomeriggio, mentre intento a scacciare l’hangover della sera precedente con una pinta di John Smith tra i tifosi del Whitehawk, indubbiamente non agevolato dalla poco brillante prestazione dei padroni di casa, il mio orecchio coglie distrattamente un motivo familiare. È ‘Wannabe’ delle Spice Girls, brano che non ci aspetterebbe di trovare nel repertorio ultras.
Doidge mi spiega che “gli ultras sono piuttosto hipster nel loro approccio ai cori, puoi trovare Taylor Swift e le Spice Girls assieme a classici come ‘Just Can’t Get Enough’ dei Depeche Mode”.
“Tra i tifosi del Whitehawk,” continua Doidge, “ci sono skinhead, punk e goth di cinquantanni. Sono genuini, non sono affatto hipster. Tra i tifosi c’è un pastiche di stili e controculture che si rispecchia nella varietà dei cori. Una partita di calcio è sempre una performance, c’è dell’esibizionismo. In un certo senso la vita a Brighton è sempre un mettersi in mostra. Ad ogni modo, noi del Whitehawk siamo deliberatamente ironici”. A rispecchiare le parole di Doidge, sui gradoni dell’Enclosed Ground, accanto a giovani dalle lunghe barbe curate, si incontrano rugosi e sdentati punk e skinhead, reduci degli anni ’70, che ben rispecchiano il tripudio di sottoculture della città costiera.
A testimoniare questo approccio post-moderno al tifo, fatto di riferimenti alla cultura popolare britannica tra nostalgia ed ironia, è il coro “Beer, pie, sausage roll / C’mon Hawks / Give us a goal,” che viene poi aggiornato al ventunesimo secolo nella seconda strofa diventando “Beer, pie, vegan roll / C’mon Hawks / Give us a goal”.
Quando domando a Maud con cosa si identifica, l’ultra, ridendo, risponde: “Non so se siamo hipster, ma ti posso confermare che a bordo campo stavo mixando espresso martini. Forse questo mi qualifica come un football hipster”. Secondo Doidge, la spiegazione a questi comportamenti sta nel concetto di iper-realtà. Coniato dal filosofo Baudrillard, il termine indica una realtà sociale in cui la vita è generata ed influenzata da modelli preesistenti. Il risultato? Una società in cui l’imitazione della realtà supera la realtà stessa, ed in cui diventa impossibile scindere l’immaginario dal reale. Fare l’ultras diventa così un gioco di ruolo, quasi un hobby per nerd da coltivare nei dettagli con meticolosità, più che uno stile di vita come accadeva in passato, tanto in Europa quanto in UK.
Emblematico di questo approccio al tifo è un personaggio che occupa una posizione di rilievo nella mitologia tribale degli ultras britannici. Noto ai più come No Face No Name, si tratta di un giovanissimo tifoso dell’Eastbourne Town che deve il suo soprannome ad un passamontagna che gli consente di accendere fumogeni all’interno dello stadio in quanto irriconoscibile. Inutile dire che l’identità del tifoso sia un segreto di Pulcinella, ma per gli ultras il valore simbolico del personaggio sembra soprassedere ogni altra ragione.
La Internet culture ha profondamente segnato il modo di approcciarsi al tifo. Per esempio, le grafiche del Gruppo Pier Pressure sono minuziosamente basate sui loghi di marchi di streetwear che più generano hype sui social, da Supreme a Patagonia. Uno dei membri del gruppo mi mostra con orgoglio un logo da lui disegnato, una traduzione in ideogrammi giapponesi della parola ‘ultras’. Una volta condivisa su Twitter, la grafica è diventata cosi popolare che è stata, per assurdo, adottata da una tifoseria giapponese.
Non sono solo gli ultras del Pier Pressure ad avere un nutrito numero di followers. L’account Twitter del Comfast Chapter del Dulwich Hamlet è un tripudio post-moderno di meme a sfondo calcistico-politico, tra comunismo all’acqua di rose e nostalgia pop per l’Unione Sovietica. Prendo atto di questa ossessione politica condivisa dagli ultras britannici quando sulla via per l’Enclosed Ground del Whitehawk incontro Justin, un tifoso di casa, che la dice lunga sul tipo di personaggi che si incontrano in questi campi delimitati da steccati anziché gradinate. A comporre l’outfit di Justin, oltre ad una sciarpa bianco-rossa ed una giacca verde militare, un cappello che ricorda la budenovka, l’iconico copricapo dell’uniforma invernale dell’Armata Rossa. A coronare l’indumento, una serie di spille delle Hawks, tra cui spicca il profilo smaltato a fuoco di Lenin su sfondo rosso.
A spiazzare è l’inedito contrasto tra contenitore e contenuto. Le pratiche ultras rimangono, ma il messaggio cambia.
La nostalgia lascia lo spazio che trova, ma senza dubbio gli ultras si fanno portatori di una mentalità progressista difficile da immaginarsi associata ad una tifoseria. Love. Peace. No Racism. No Violence. Sono le scritte che si stagliano dipinte sulle gradinate del main stand dell’Enclosed Ground. Uno dei cori più gettonati allo stadio recita “We say no to homophobia, we say no, we say no to racism, we say no, we say no to sexism we say no, we say no to Eastbourne Borough (i rivali locali), we say no, we say no to scoring goals, we say no (in riferimento alle scarse prestazioni della squadra)”.
‘Football is for Everyone’ (il calcio è per tutti) è lo slogan degli Hawks, cucito con gusto retro su una bandiera arcobaleno. Diverse sono le iniziative che gli ultras inglesi del Whitehawk hanno organizzato in sostegno dell’inclusività nel calcio di rifugiati e della minoranza LGBTQ+, ma anche a supporto della legalizzazione dei fumogeni negli stadi. A spiazzare è l’inedito contrasto tra contenitore e contenuto. Le pratiche ultras rimangono, ma il messaggio cambia.
C’è da chiedersi se questo ardore politico sia genuino o se sia più una posa ed una conseguenza dell’overdose di politicamente corretto della società anglo-sassone. Non è solo un fattore di estrazione sociale o di educazione, ma indubbiamente – come mi spiega Doidge – la forte componente studentesca tra i tifosi del Whitehawk ha contribuito a queste velleità politiche.
Appoggiato al il bancone del gastro-pub – che poco ha di operaio o socialista – ritrovo degli ultras Pier Pressure, Maud mi spiega: “Io credo veramente nei nostri ideali politici. Sono di sinistra. La nostra presa di posizione è un’opposizione al capitalismo che domina il calcio di oggi. Ultras di sinistra come quelli del Marsiglia o del Livorno sono la nostra ispirazione”. L’opposizione degli ultras è “più idealistica che fisica”, continua Maud, e nasce anche dalla volontà di distinguersi da tutte quelle “noiose tifoserie vecchio stile” che dominano il calcio amatoriale – e non – britannico.
“Io credo veramente nei nostri ideali politici. Sono di sinistra. La nostra presa di posizione è un’opposizione al capitalismo che domina il calcio di oggi. Ultras di sinistra come quelli del Marsiglia o del Livorno sono la nostra ispirazione”.
Entrando nei bagni di uno qualsiasi di questi club ci si trova di fronte ad un tappeto di adesivi di gruppi ultras britannici e non legati dalla stessa mentalità. La pratica di attaccare adesivi in trasferta, anziché essere intesa come un affronto ai rivali, è per queste tifoserie un modo di dimostrare mutuo supporto. Più che di gemellaggi fondati su ragioni di matrice strettamente politica o storica, si ha la sensazione di trovarsi parte di una più ampia rete di adepti che ricorda piuttosto il senso di comunità dei fan di un genere musicale o degli iniziati ad una sottocultura. Non c’è infatti da stupirsi se gli ultras del Dulwich Hamlet fanno sfoggio della bandiera del club tedesco Altona 93.
Questo spirito di solidarietà differisce però dalla retorica degli ultras ed hooligans tradizionali, in quanto si limita a questo underground di tifoserie. Per esempio, è impensabile che un ultras del Whitehawk sia solidale con la causa di un suo corrispettivo di un club di Premier League o, per esempio, della Lazio.
A rendere ulteriormente peculiare il mondo degli ultras inglesi c’è l’ideale di non-violenza. Ne è testimonianza uno dei marchi simbolo del nuovo approccio al tifo, Peaceful Hooligan. Impegnato a smaltire un paio di pinte nei bagni del Saffrons, mi capita di ascoltare la conversazione tra due ultras dell’Eastbourne che si congratulano per non essere caduti in tentazione a reagire violentemente alle provocazioni degli avversari. La sensazione è quella di un’attitudine più costruita che genuinamente sentita. Come Maud ammette, gli ultras, da questo punto di vista, sono completamente diversi dalla loro controparte europea, anche quella dei gruppi di sinistra.
A distinguere ulteriormente i nuovi ultras dalla loro incarnazione tradizionale, è l’assenza di una gerarchia strutturata all’interno dei gruppi. Nick è l’editore del The Din (la fanzine del Whitehawk) e gestisce il club shop – più un capanno che un negozio, a dire il vero – della squadra. Nonostante sia considerato una delle personalità di spicco tra i sostenitori degli Hawks, mi spiega che non c’è un vero e proprio capo ultras. “Questo è un ambiente democratico”, racconta Nick, “Chiunque può lanciare un coro e noi tutti lo seguiamo”. Doidge tende a precisare che “I tifosi del Whitehawk sono deliberatamente ironici. Adam – un ragazzo polacco che disegna il merchandise – è la persona che più si avvicina alla figura del capo ultras, sebbene non lo sia”.
Due ultras dell’Eastbourne che si congratulano per non essere caduti in tentazione a reagire violentemente alle provocazioni degli avversari. La sensazione è quella di un’attitudine più costruita che genuinamente sentita.
L’eccezione, mi spiega Doidge, è rappresentata dal Clapton Community FC. A Clatpon – distretto del borough di Hackney, una delle aree di Londra Est che negli ultimi anni ha dovuto fare i conti con la gentrificazione – gli ultras sembrano prendersi molto più sul serio. Qui gli ultras durante il corso della stagione 2017-18 hanno addirittura disertato diverse partite casalinghe, perché in aperta contestazione con le scelte della dirigenza, tra cui lo spettro della vendita del terreno su cui sorge l’Old Spotted Dog, lo stadio del club ed il più antico terreno da gioco della capitale.
Nonostante la centenaria tradizione del Clapton FC., gli ultras inglesi, dopo aver incrementato il numero di sostenitori, li hanno catalizzati dalla propria parte raggiungendo una storica scissione con conseguente nascita, tramite azionariato popolare, del Clapton Community FC nella stagione 2018/19. Ad inizio stagione 2019/20 il Clapton Community è diventato, in seguito alla vittoria di una causa, titolare dell’Old Spotted Dog ed ora, beffa della sorte, il neonato club siede sopra lo storico Clapton F.C. nei risultati delle ricerche Google.
Anche a Whitehawk il rapporto tra ultras inglesi e dirigenza non è dei migliori. Qui gli ultras sono malvisti per le loro posizioni politiche. Doidge spiega “ad alcune persone non piace il fatto che siamo esplicitamente politici. Non abbiamo un buon rapporto con il CEO. Ci sono voci secondo cui alla dirigenza non piacciono i tifosi di sinistra. Uno dei direttori del club è stato incarcerato per abusi razziali, un altro è stato candidato con i conservatori per l’incarico di MP di Kemptown (membro del parlamento che rappresenta a Westminster l’area di Kemptown a Brighton). Non abbiamo mai mostrato apertamente il nostro dissenso con cori o striscioni, ma abbiamo comunque reso chiaro a cosa ci opponiamo”.
Diversa è la situazione in comunità più piccole, prive di club blasonati, dove la presenza degli ultras ha contribuito a riportare entusiasmo verso il calcio cittadino. Sul sito ufficiale dell’Eastbourne Town, addirittura, c’è una sezione dedicata agli ultras. Nonostante durante una gara infrasettimanale di FA, Vase contro il Beckenham Town, la società sia stata multata dopo che un tifoso è salito con una scala sul tetto della end, al termine della successiva gara domestica, gli ultras vengono omaggiati di un cartone di birra da parte della società come ringraziamento per il decisivo supporto per il passaggio del turno di coppa.
Episodi come il sopracitato mettono in luce la controversa natura del rapporto ultras-società. Come argomenta Doidge “per quanto gli ultras vogliono atteggiarsi a ribelli, sono parte di un sistema. Ed anche noi, forse, non siamo diversi”. Che cosa attrae dunque cosi tante persone ad unirsi ai nuovi ultras inglesi se gli elementi cardine della tradizione vengono a meno? Le ragioni sono meno complicate di cosa ci si possa aspettare. Costi contenuti e divertimento. Sembra un’ovvietà ma nel calcio globalizzato della Premier League – o Premier Greed, la migliore avidità, come viene ironicamente soprannominata – non lo è affatto.
Che cosa attrae dunque cosi tante persone ad unirsi ai nuovi ultras inglesi se gli elementi cardine della tradizione vengono a meno? Costi contenuti e divertimento. Sembra un’ovvietà ma nel calcio globalizzato della Premier League – o Premier Greed, la migliore avidità, come viene ironicamente soprannominata – non lo è affatto.
Nonostante l’innegabile divario tecnico, il calcio amatoriale offre un intrattenimento che paradossalmente è andato scomparendo quando business e televisioni hanno provato ad incrementare l’appeal dello sport. Si aggiunga poi l’evoluzione etica e culturale della società inglese che ha portato a limitare sempre più le libertà degli hooligans. I provvedimenti disciplinari di FA e FIFA hanno fatto scomparire quasi del tutto l’aggregazione tra tifosi e sterilizzato l’ambiente delle end – l’equivalente delle nostre curve. Solo pochi club con una forte storia di hooliganismo alle spalle (si veda il Leeds United, per esempio) sono riusciti a mantenere forme di aggregazione giovanile, ma si parla comunque di club che militano tra Premier League e League One.
Gli ultras hanno semplicemente riempito un vuoto del mercato, riprendendosi gli spazi che il progressivo distacco dei giovani verso il calcio minore aveva creato. Chiamiamolo revival, se si vuole, ma per anni i giovani britannici avevano dimenticato la possibilità di potersi divertire coniugando il calcio con forme di attività sottoculturali. Gli ultras inglesi hanno, dunque, riportato l’entusiasmo per il tifo al luogo d’origine, tra i campi di provincia dove l’ingresso costa meno di una Coca Cola all’Emirates Stadium.
Ringraziamo il fotografo David Bauckham, di cui trovate alcuni lavori qui, per averci regalato le splendide immagini che colorano il nostro reportage.Thank you man!