Facciamo un viaggio alla scoperta dello spirito che ha animato le origini del nostro calcio, al riparo dalla compostezza e dal conformismo dell’attuale Serie A.
Si sa, in Italia il calcio è roba seria. È passione viscerale e irrazionale, rituale sacro dei fine settimana della gran parte degli uomini e donne di tutte le età. Per la verità, il football è “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, per dirla con Pasolini. Nonostante la parziale disaffezione partecipativa degli stadi italiani degli ultimi anni, rimaniamo abituati, almeno nelle partite più attese e affascinanti, a vedere settori gremiti di sciarpe e bandiere, dai quali si alzano cori distintivi. Ma quando nacque tutto ciò? Quando, ai ventidue duellanti del rettangolo verde, si aggiunsero come parte integrante dello spettacolo calcistico tutti coloro che quei ventidue guardano e incitano? La curiosità del pubblico verso questo sport assunse tratti rilevanti già negli anni 20 del 900, quando il numero di nuove società cominciava a crescere esponenzialmente.
Siamo però solo agli inizi: non possiamo ancora parlare di tifo vero e proprio ma soltanto di passatempo domenicale, di luogo di ritrovo in sostituzione del bar o del biliardo. Per poter parlare di vera e propria passione, dobbiamo arrivare agli anni ’50. Il dopoguerra, complice la doppietta mondiale della Nazionale di Pozzo negli anni precedenti il conflitto, rappresenta una vera e propria rampa di lancio per lo sviluppo del tifo sulle tribune. E’ proprio in questo periodo che il tifo si fonde con un forte senso di territorialità. Le più accese rivalità cittadine in campo politico e sociale di fatti si trasferiscono sulle gradinate dei campi comunali. Il calcio comincia ad essere vissuto con attiva partecipazione: esibire certi colori significa difendere le proprie radici e le proprie terre.
Con l’inizio degli anni Sessanta si assiste alla nascita dei primi fan club organizzati. L’iniziativa viene direttamente dalle società. Una delle prime a muoversi in questo senso è l’Inter. In particolare Helenio Herrera, storico allenatore dei Bauscia in quegli anni, una volta intesa l’importanza di avere un corposo seguito di sostenitori suggerisce l’idea ai vertici societari: da qui alla creazione della prima associazione di tifosi, il passo è breve. Il progetto funziona, tant’è che in pochi mesi gran parte delle altre società di rilievo del panorama calcistico nazionale seguiranno l’esempio nerazzurro. Una cesura netta, non solo in questo ambito, è rappresentata dalla fine degli anni ’60 e dagli inizi del decennio successivo. In campo politico e sociale l’Italia è scossa da moti di protesta che porteranno a profondi mutamenti; così è anche nel mondo del pallone. La netta e decisiva contrapposizione tra padri e figli viene proiettata anche sulle tribune.
Nascono quindi i primi gruppi ultras, ragazzi poco meno che ventenni che si distaccano dal modello classico dei padri, caratterizzato da sobrietà e rigore, e cominciano a organizzarsi in movimenti di tifo dai toni più esasperati e ribelli. La separazione dai padri è anche fisica. Le curve, e non più le tribune centrali, diventano i settori distintivi di questi ragazzi. L’obiettivo è contraddistinguersi a tutti i costi dai gruppi ultras rivali, e da qui viene l’adozione di sciarpe, bandiere e altro materiale. Questi sono gli anni degli opposti estremismi. Nel segno del nero e del rosso le strade delle principali città italiane sono teatro di violente guerriglie. Di conseguenza, anche nelle curve, la fiera appartenenza territoriale si lega all’identificazione politica. Le curve catalogabili nell’estrema destra (come ad esempio Lazio ed Hellas Verona) si contrappongono a quelle di estrema sinistra (Livorno e Bologna le più ‘accese’), creando tese rivalità che sfociano nei primi scontri tra ultras.
Arriviamo quindi agli anni ’90. La crescita del movimento ultras è sotto gli occhi di tutti. Nelle partite più importanti, le coreografie e l’atmosfera che i gruppi delle curve riescono a creare sono un autentico spettacolo. Nel 1995 accade però un episodio che farà da apripista a quell’aria di cambiamento che arriva fino ai nostri giorni. Il 29 Gennaio, a Marassi, si gioca Genoa-Milan. La data passerà alla storia per un altro motivo, ovvero l’omicidio di Claudio Spagnolo, giovane ultras genoano accoltellato fuori dallo stadio da un rivale rossonero, durante uno scontro tra due gruppi di tifosi avvenuto poco prima del fischio d’inizio.
È l’episodio che in qualche modo blocca la parabola ascendente del movimento ultras. Da questo momento verranno presi seri provvedimenti nei confronti del tifo organizzato. Più controlli, più restrizioni e meno libertà allo spirito di iniziativa dei vari gruppi. Tutti provvedimenti, almeno apparentemente, in favore della sicurezza, i quali, nel corso degli anni, limiteranno in maniera drastica lo spazio alla fantasia, alla goliardia e al folclore. Ultimo in ordine di tempo è la tessera del tifoso, simbolo di riconoscimento individuale con strette limitazioni, specialmente per quanto riguarda gli spostamenti in trasferta, che da qualche anno porta con sé feroci polemiche da parte dei movimenti ultras.
Per fortuna c’è ancora spazio per la passione e per la fantasia che caratterizza i tifosi dello Stivale. Prendiamo un caso che esula dall’andamento cronologico che abbiamo assunto in questa breve ricostruzione storica del tifo italiano, e scendiamo nelle categorie inferiori. Si tratta dei sostenitori della Sambenedettese, squadra di San Benedetto del Tronto che da anni ormai galleggia nelle più basse leghe professionistiche del nostro calcio.
Il senso di appartenenza di centinaia di tifosi di questa città li porta a seguire non solo le partite, ma addirittura gli allenamenti della squadra nei giorni antecedenti la gara domenicale. Un esempio di realtà del tifo radicata nei territori,e di una pratica comune anche tra le squadre di periferia delle serie amatoriali regionali e provinciali. Un forte senso di appartenenza al di fuori delle logiche impostate e restrittive dei grandi palcoscenici. Un tifo genuino, rurale, che caratterizza il Belpaese da quasi un secolo e che non abbiamo la minima intenzione di sacrificare.