Un vita in fuga, la morte sul Ventoux. Era Tom Simpson, l'uomo che non sapeva ascoltare il proprio dolore.
Nonostante pedalasse verso un pezzo di paradiso, Tom Simpson è finito col rimanere incastrato in quell’istmo di storia tra l’essere campione e la maledizione. Né un metro più avanti, né tantomeno un centimetro indietro. Semplicemente lì, dove un torrido pomeriggio di luglio si è fermato. Le gambe avevano ceduto, il cuore pure. Forse per la troppa voglia di giallo, probabilmente per le anfetamine ingollate durante la salita. Dubbi e suggestioni sono rimaste, davanti al primo grande britannico sui pedali. Lui che inseguiva il Tour e invece il suo nome l’ha visto incollato a quella macchia chiamata doping, praticamente una vita prima che ogni appassionato iniziasse ad aspettare le controanalisi prima di legarsi a un vincitore. Su Simpson rimangono i misteri, qualche fatto sufficientemente chiaro e una targa posta sulla cima di quel Ventoux che ne ha cullato gli ultimi respiri. C’è scritto “A Tom Simpson, medaglia olimpica, campione del mondo, ambasciatore dello sport britannico, morto il 13 luglio, Tour de France 1967”. Il leale saluto della montagna, a un uomo che non aveva saputo domarla.
Eppure la strada di Simpson, in quel ’67, tutto sembrava tranne che una salita. Semmai somigliava a quella discesa che tanto amava, affrontate senza pensare troppo agli ostacoli sul percorso. Infondo erano gli accettabili rischi del mestiere. Aveva ventinove anni, la carriera in ascesa e una moglie bellissima. L’amore, i progetti. E le vittorie, soprattutto le vittorie. Simpson le aveva iniziate a collezionare presto, neanche maggiorenne. Lo sport non era che la solita forma di redenzione per ammorbidire il pane e scappare dalla povertà. Uno delle tante storie di un’epoca così lontana, ma incapace di non trasudare epica. Era un figlio dell’Inghilterra più aspra, Tom, nato il 30 novembre del 1937 a Haswell, sobborgo di Durham. Praticamente un puntino del Nord Est, a una manciata di chilometri da Sunderland e qualcuno in più da Middlesbrough. Il fatto che ci sia venuto alla luce Simpson è praticamente l’unico motivo interessante. L’altro invece era la miniera, dove infatti il padre di Tom lavora, tirando fuori dal sottosuolo il salario per sfamare moglie e quei sei figli di cui il futuro campione è l’ultimo. Quando la Seconda Guerra Mondiale finisce, però, le risorse iniziano a scarseggiare e le esigenze a crescere. I Simpson levano le tende nel ’50, direzione Harworth, nel Nottinghamshire. Lì vivono i parenti di Alice, la madre. E rispetto al Nord le prospettive sono più invitanti. Tom ha tredici anni, studia e la bici neanche la conosce troppo bene. Inizia a farlo grazie al fratello maggiore e due cugini, ma inizialmente è solo un gioco. I quattro si sfidano sul tempo, a chi ci mette meno a fare il giro di Harworth. Lui è il più piccolo, ma immancabilmente il più veloce. Da lì ad entrare nella sua prima squadra, il passo è breve. Ancora tredicenne, inizia a pedalare per l’Harworth & District Cycling Club, solo che la considerazione è poca. Lo paragonano a Fausto Coppi, vero, ma unicamente per quel fisico incredibilmente asciutto e spigoloso, tanto da ricordare il Campionissimo. Ironia della sorte, proprio quei troppi chili in meno finiranno per calcare la mano sulla sua morte.
Le prime vere soddisfazioni, Tom Simpson se le inizia a togliere nel 1954, quando passa al club di Rotherham Wheelers. Intanto la scuola è finita, ha iniziato a lavorare come disegnatore in una fabbrica di Retford: quei sedici chilometri che lo sperano da casa sono tutto buon allenamento. Ma il primo amore ciclistico non è la strada, è la pista. Nei velodromi arrivano anche i successi, due addirittura nello stesso anno, il ’55. Prima la National Cyclists’ Union, poi la British League of Racing Cyclists. E la seconda è un vero capolavoro. Lì si corre su strada, ci si arrampica per le salite inglesi. Tom non solo doma quelle nella categoria junior, ma si impone anche tra i più grandi, tagliando il traguardo al primo e terzo posto. Un bagno di gloria, da far intravedere una futura carriera. Nel 1960 passa professionista, ma per arrivarci aveva dovuto sudare. A diciotto anni si era già imposto alle cronache, ai campionati nazionali giovanili. Medaglia d’argento, sulla pista del Fallowfield Stadium, Manchester. Tanto bastava per guadagnarsi una chiamata dalla Nazionale, in vista dei Giochi Olimpici di Melbourne del ’56. Per prepararli, Tom aveva addirittura deciso di correre in Russia, con la squadra, tanto per mettere benzina nelle gambe. Ma in Australia, il successo sarebbe stato ancora rinviato. In semifinale, infatti, sbaglia proprio Simpson, nella lotta contro il tempo che vede la Gran Bretagna opposta all’Italia. Chiudono terzi gli inglesi, sull’ultimo gradino del podio. La vetta è ancora un obiettivo da inseguire per Tom, che continua a pedalare. La fa e bene anche nel 1958, ai Giochi del Commonwealth, dove chiude secondo. Vorrebbe ripetersi anche ai Mondiali di Parigi, ma lì ci si mette una caduta a complicargli i piani. Eppure, nonostante i dolori, ai quarti di finale si presenterà al via. Perché Simpson non sapeva dire no, non conosceva il limite della sofferenza.
Continua a correre in patria fino al ’59, quando capisce che casa madre ormai gli sta stretta. Per campare di pedali si doveva emigrare: Francia, Belgio o Italia. Non ve ne erano di alternative. Sceglie la vicina Bretagna, al di qua della Manica. Quando mette la ruota davanti a tutti alla Route de France, arriva anche il primo contratto, con la Saint-Raphaël. La strada era appena iniziata. Debutta nel ciclismo dei grandi al Tour de l’Ouest, poi ad Amsterdam corre il Mondiale da protagonista. Non lo vince, arriverà quarto, ma è quello che ricuce lo strappo tra il gruppo e i corridori in fuga. Poi allo sprint stenderà tutti André Darrigade, che per Simpson spenderà parole al miele. Farà ancora di più L’Equipe, che inizierà a soprannominarlo Major Simpson. E sulla scorta di quei preziosi piazzamenti, Simpson continuerà a stupire. La Saint-Raphaël lo spedisce al Giro di Lombardia, dove non sfigura. Fa ancora meglio al Trofeo Baracchi, dove si toglie anche lo sfizio di correre fianco a fianco con Fausto Coppi, giunto ormai agli sgoccioli della carriera e troppo vicino anche alla fine della vita. In Italia, Tom strappa applausi anche nel ’60, alla prima Milano-Sanremo della carriera, dove spezza il gruppo al Passo del Turchino a tira per 45 chilometri, prima di vacillare sul Poggio e rientrare nei ranghi. Quasi stessa sorte gli tocca alla Paris–Roubaix, una manciata di giorni dopo. Questa volta tira tutti per 40 chilometri, ma a pochi metri dal velodromo lo riprende un gruppo impreziosito da Jacques Anquetil e dal padrone di casa Pino Cerami, che il traguardo finirà col tagliarlo per primo. Eppure, sarà a Tom che il pubblico chiederà un giro d’onore. Il giusto tributo per chi la corsa l’aveva infiammata. Un bel premio alla tattica di provarci sempre. Pochi calcoli, troppo cuore. Lo stesso che lo porta addirittura a sfiorare la gialla, a giugno, al Tour de France. Pensare che il direttore sportivo, Raymond Louviot, neanche voleva vi partecipasse. Ma Simpson pur di correre alla Grand Boucle aveva accettato di farlo con una squadra inglese. Aveva ragione lui. Tom cade durante la prima tappa, ma nella crono del giorno seguente ricuce il proprio distacco dai primi. Il capolavoro lo fa il terzo giorno, da Bruxelles a Malo-les-Bains. Il britannico scatta e guida la fuga, tira praticamente da solo il gruppo. Una fatica che gli costa brillantezza allo sprint, dove arriva terzo, dietro a René Privat. Avesse vinto, l’abbuono gli sarebbe fruttato una maglia che invece l’italiano Nencini si sarebbe tenuto fino a Parigi.
Per Simpson è tutto rinviato. Eppure sembra manchi sempre qualcosa, come l’anno successivo. Parte per prendersi la Roubaix e infatti va in fuga, solo che quando gli dicono che a inseguirlo c’è Raymond Poulidor aumenta le pedalate, ma davanti a lui una macchina della stampa sterza per evitare una buca e lo costringe a finire in un fosso per evitare l’impatto. Cambia una ruota, riparte.Pou-Pou però intanto era andato. Per trovare l’alloro dovrà aspettare il Fiandre: lì non lo poté tenere nessuno. Nemmeno la sfortuna e il nostro Nino Defilippis. Aveva finalmente vinto Tom. E lo avrebbe fatto ancora. Nel ’62 si ripresenta al Tour, questa volta per migliorarsi. Corre in difesa fino al 5 luglio, alla dodicesima tappa. Si va da Pau a Saint-Gaudens, Tom ormai può solo rischiare per riscrivere la propria corsa. Infatti lo fa, sul Tourmalet. Lo seguono in pochi, lui fa il vuoto ma chiude diciottesimo. Poco importa, il belga Willy Schroeders gli finisce sufficientemente dietro, tanto da dovergli consegnare la gialla, che però indosserà per un’altra tappa ancora. Sui Campi Elisi ce la porterà il solito Anquetil. Ma la Francia ormai una sentenza l’ha pronunciata: la carriera di Tom Simpson è in piena ascesa.
La stagione successiva lascia infatti la Saint-Raphaël, destinazione il bianconero della Peugeot, in piena equazione ciclista importante e squadra forte. Ora vincere diventa quasi una missione, anche se alla Milano-Sanremo buca durante una fuga da lui lanciata e relegata a quattro corridori, mentre alla Roubaix è costretto a sudare per il compagno Daems, che vince anche grazie alle pedalate da gregario del britannico. Il suo momento arriverà in maggio, il 26, giorno di Bordeaux–Parigi. In tre scappano subito, ma Simpson inizia a tirare insieme a Wambst. Riprende i fuggitivi, gli annulla 13 minuti di vantaggio. Poi a 36 dalla fine aumenta il passo, dietro si sciolgono. Quando vede il traguardo del Parco dei Principi, il vantaggio sul primo inseguitore tocca addirittura i cinque giri di orologio. L’altro capolavoro, Tom lo miete nel ’64, a quella Sanremo fin troppo accarezzata. Solo che questa volta ha fatto tesoro degli errori e lo fa anche di un consiglio suggeritogli del suiveur René de Latour, come lo stesso Simpson confesserà nella sua autobiografia, Cycling is My Life, data alla stampa nel 1966. “Se ti senti bene, tieniti per l’ultima ora di gara” gli spiffera il giornalista. E immancabile Tom esegue. Scappa solo a 32 dall’arrivo, ma nel gruppetto c’è anche Poulidor. Sul Poggio Pou-Pou saggia la gamba, attacca e Simpson sempre lì dietro a ruota. Vi resterà anche in discesa, giù verso Sanremo. Quando ci arrivano, gli altri sono staccati ed è partita a due. Ma il francese non ne ha più, allo sprint neanche risponde. A braccia alzate ci finisce l’inglese, che poco dopo dovrà sì inginocchiarsi, ma solo al cospetto della sua Regina, Elisabetta. Lo avevano fatto baronetto. Sir Thomas Simpson.
Con tanto di titolo, il’65 è un altro anno d’oro. A inizio settembre si presenta il Mondiale, nella basca Lasarte-Oria. L’Italia è senza capitani, ma l’uomo da battere c’è ed è Jacques Anquetil, che sulla maglia iridata ha puntato ogni fiches. Solo che il francese rompe, su quei pedali fa una maledetta fatica. Il vuoto finisce per farlo Tom Simpson, insieme a lui il tedesco Rudi Altig. Partono a due giri dalla fine del circuito, ma a un chilometro dall’arrivo è il baronetto a scattare. L’altro ci prova, ma non regge. Tom vince in solitaria e quella maglia arcobaleno la fa splendere subito, a ottobre, al Lombardia. Rifila tre minuti a tutti, a Como ci arriva da solo. Prima di lui, solo Alfredo Binda aveva vinto da iridato in Italia. Soddisfazione mica da poco. Da domare non resta che il Tour, ma quella sembra roba quasi impossibile. Nel ’66 ci si ripresenta e prova a prenderselo. Va via sul Galibier, con Jiménez, ma cade e viene ripreso. Come non bastasse, ci vogliono cinque punti per ricucire un braccio che il giorno dopo riesce a tenere a stento il manubrio. Stagione finita. Riprende l’anno dopo e sembra che stavolta possa funzionare. Col giallo in testa, corre e vince la Parigi-Nizza, poi spazzola due tappe alla Vuelta, che all’epoca la stagione della grandi corse la apre e non la chiude. La gamba c’è, stavolta si può andare. Anche perché sembrerebbe fatto il suo passaggio alla Ignis. Ballano tanti soldi oltre all’orgoglio. Solo che all’avvio sono lacrime e sangue. Dopo la prologo è tredicesimo, alla fine della prima settimana risale fino al sesto posto. Aspetta le Alpi, ma gira male: sul Galiber accusa problemi intestinali e crampi allo stomaco. Non può neanche più alimentarsi bene, quando l’11 luglio si arriva a Marsiglia è praticamente finita. Solo per Daniel Dousset, il direttore sportivo, c’è ancora da dover sudare. Glielo dice in faccia, chiaro e tondo. Saltasse mai quell’approdo alla Ignis. I due finiscono pure per litigare, la notte prima del 13. Perché il giorno dopo c’è il Mont Ventoux ed è terreno per osare. Ma fa un caldo insopportabile.
Il medico della corsa, Pierre Dumas, non la vede bene per chi “ha fatto il furbo”. Dove la furbizia sta per anfetamina. Madre del più moderno doping. Non se ne conoscono ancora gli effetti, chi se le cala assume rischi senza conoscere i pericoli. Anche Tom ne sa qualcosa, lo ha candidamente ammesso nel ’60, al giornalista Chris Brasher. Ma ha anche dichiarato di non volerne assumere. I dubbi ancora bruciano. Simpson alla partenza sembra anche stia bene. Con i compagni scherza, inscenando una benedizione, mentre coi giornalisti sminuisce la temperatura. “Non è il caldo, è il Tour”. Ma quel sole brucia decisamente troppo, anche se Tom lo regge bene. Prima di scattare, col Ventoux a tiro, scherza anche con l’amico di sempre, Barry Hoban, che gli indica la cima, così bianca per l’effetto dei raggi sulle pietre. “Andiamo al fresco lassù, c’è della neve”. Ma non solo quella. Simpson parte, guida l’ennesima fuga di una carriera scandita da coraggio e attacchi. Il gruppo si spacca, Tom è davanti a tutti quando arriva a vedere la cima, ma le gambe pare non sentirle più. Prima ha chiesto acqua, ma il meccanico dall’ammiraglia gli ha passato solamente cognac. E le forze se ne stanno andando. Vacilla, cade. Gli dicono che è finita, ma si rialza. Ancora in sella. Chiede una spinta, “On, on, on” sono le ultime parole. Cinquecento metri dopo il cuore lo abbandona definitivamente, il disperato massaggio cardiaco del dottor Dumas è fatica sprecata.
Simpson viene dichiarato morto all’ospedale di Avignone, i trent’anni lo aspettavano a novembre. Non ci sarebbe mai arrivato, così come in Corsica, dove progettava in post carriera con Helen, la donna che amava e gli aveva regalato Jane e Joanne. Di loro finirà col prendersi cura l’amico, Barry Hoban, che alla teoria della anfetamine non si piegherà mai. Per lui Tom era solamente andato oltre le proprie possibilità. Sosterranno il contrario Alan Ramsbottom e soprattutto Colin Lewis, che di Simpson ne era stato compagno di stanza proprio in quell’ultimo Tour e le scatolette proibite le aveva viste. Gli altri no, o chissà. Restano una macchia, tante vittorie, una grande carriera. E un fiume di incoscienza.