Omaggio al maestro del trash, dall'ultimo libro di GOG Edizioni.
Tommaso Labranca è stato un grande scrittore e autore televisivo, colui che per primo ha conferito una dignità intellettuale al concetto di “trash”, finendo per diventare uno dei suoi più strenui difensori e cultori. Un acuto osservatore e a suo modo un sociologo di quel carosello umano che ha popolato gli ultimi vent’anni, con tutti i suoi protagonisti: intellettuali fintamente engagé, esperti di marketing in vacca, situazionisti dello spettacolo, artisti concettuali, coatti e neoproletari. E anche sportivi. Sport che segnava la sua differenza ontologica, e anche la sua esclusione, in una Repubblica fondata sul pallone. Fino al punto che Labranca ne detestava i miti, forse proprio perché (inutilmente) adorati.
ALEX DEL PIERO,di Tommaso Labranca
È strano come si possa non possedere alcuna fede calcistica eppure detestare gli esponenti di quel mondo. Almeno quelli molto famosi di cui è impossibile non avere notizie passive, poiché la loro presenza deborda oltre le pagine dei quotidiani dedicate agli eventi da stadio. Dilagano così in quelle di gossip per i loro frequenti nuovi amori, in quelle degli spettacoli perché si mettono a cantare o fare i dj per beneficenza, in quelle della cronaca nera perché, da perfetti bietoloni, finiscono invischiati in scandali economici. E tra le sezioni Sport, Spettacolo e Cronaca dei quotidiani ci sono enormi pagine pubblicitarie in cui i protagonisti sono quegli stessi calciatori, il cui faccione sovrasta il prodotto che a volte non appare neppure.
Ci sono calciatori che conosco solo perché fanno la pubblicità a qualcosa e solo dopo un po’ qualcuno mi dice che quello è un eroe da stadio e non un semplice modello. Mi rendo conto della mia ignoranza in due casi. Primo caso: quando ogni anno regolarmente sento il nome del vincitore del Premio Nobel della Letteratura e mi accorgo di non aver letto mai nulla di suo, anzi di ignorarne persino il nome. È umiliante vedere il giorno dopo che tutti gli scrittori interpellati dai redattori degli inserti culturali, scevri da ogni ombra di invidia, dimostrano una precisa conoscenza, delle istanze, delle problematiche e del valore dei premiati. Secondo caso: quando c’è qualche calciatore nelle vicinanze e io non lo riconosco.
Un sabato pomeriggio a Milano verso San Babila ero rimasto l’unico a camminare su un lato del marciapiede mentre tutti si accalcavano sull’altro. Pensavo ci fosse un incidente. Solo dopo mi dissero che in una boutique c’era Gullit. Non c’era ancora Internet e con qualche difficoltà appresi di chi si trattava. Poi però non l’ho più dimenticato, ma solo per la pettinatura. Ho bisogno di riferimenti trasversali anche per tenere a mente gli ideogrammi giapponesi. Così per Alex Del Piero usavo come riferimento certi ghirigori elaborati come circuiti stampati che sapeva crearsi con la barba. Erano quelle decorazioni antiloosiane a farmelo riconoscere anche se in società continuavo a fingere di non sapere chi fosse.
Ignorare ogni elemento dell’universo calcistico resta sempre un classico dello snobismo, il modo più sicuro per segnare il territorio tra il popolino affamato di circenses e te stesso.
Benché forzato, questo atteggiamento di rifiuto della sfera di cuoio ha una sua origine, magari extraterrestre. Chissà, forse quando ero ancora un embrione sono caduto da un’astronave aliena che stava sorvolando la Lombardia mentre trasportava materiale genetico verso la Nebulosa Trifida. E sicuramente a bordo non se ne sono nemmeno accorti.
Così mi sono ritrovato un padre che al posto dell’orecchio destro aveva un transistor coreano che trasmetteva Tutto il calcio minuto per minuto, sono finito in classi scolastiche piene di ragazzini che vivevano solo in attesa di sfogarsi con il pallone all’intervallo. Tra colleghi pronti a escludermi perché non conoscevo il significato del termine “pallonetto”. Condannato a soffrire per la non-stop calcistica che dal sabato al lunedì invade la tv. Seduto sui tram accanto a persone che compivano l’esegesi della Gazzetta dello Sport come se fosse un passo oscuro della Torah.
Come ho potuto vivere in questo bagno di calciofilia senza esserne contagiato è un mistero spiegabile solo con l’ipotesi delle mie origini extraterrestri. Nel 1986 divenni il caso di un piccolo albergo alla periferia di Colonia, dove mi trovavo per una fiera, perché ero l’unico italiano seduto a leggere Novalis nel giardino mentre i miei connazionali disertavano gli stand e urlavano davanti alle dirette dal Messico. I tedeschi più anziani mi guardavano come si fa con le scimmie allo zoo.
E tutte le volte che torna un Mondiale riprendo con nostalgia le poesie di Novalis. Ma confesso che l’occhio non riesce a scivolare altero sulle pagine dei quotidiani dove invece si arresta a leggere le disavventure di un manipolo di ragazzotti estrogenati e unti, più fragili di un omino di panpepato. Li odio forse perché sono adorati. A loro si perdonano le cadute nelle tossicodipendenze e si offre la gratuità nei ristoranti. Così una sera decisi di vendicarmi.
Era il febbraio 1999 e stavo lavorando a Sanremo, al Dopofestival. Una sera tra gli ospiti c’è proprio Alex Del Piero, quello che conoscevo per l’elaborata struttura pogonologica del viso.
Era abbronzato come lo Julio Iglesias dei tempi migliori e poggiava su una stampella perché reduce da non so quale infortunio a non so quale parte di non so quale arto inferiore. Era accompagnato da diversi dirigenti calcistici, come il Papa quando avanza tra cardinali, segretari e guardie del corpo. Anzi, intorno a lui erano più numerosi che intorno al Papa. Alex Del Piero procedeva con lo sguardo perso nel vuoto tra lo sbavamento reverenziale dei presenti.
Toccò a me accoglierlo e convincerlo a fermarsi per tutta la durata del programma invece che solo per pochi minuti, come avrebbero voluto i premurosi dirigenti, «per non affaticarlo». Mentre mi avvicinavo al gruppetto ero tentato di farlo… stavo per farlo… avrei dovuto farlo… poi invece ho pensato non ne sarebbe valsa la pena. Però sarebbe stato fantastico arrivare davanti al gruppetto dei dirigenti, alla piccola folla che si era creata intorno e chiedere con aria smarrita: «Chi di voi è il signor… ehr... (sguardo rapido alla cartelletta con la lista degli ospiti) Del… Piero?».