“Cosa succederebbe se le gare di motocross venissero corse dentro uno stadio?” è probabilmente ciò che si era chiesto in un giorno d’inverno di cinquant’anni fa Bill France Sr., businessman americano incarnazione dello spirito del self-made man che ha avuto il merito di aver creato dal nulla la NASCAR e la Motorsports Hall of Fame. Gli statunitensi, si sa, hanno una certa predisposizione all’azione, e così la gara si correrà pochi mesi dopo durante l’edizione 1971 della Daytona Bike Week. L’evento avrà un successo tale da venire ricordato come il Superbowl del motocross, dalla cui crasi si otterrà il nome di Supercross.
Durante le due decadi successive il supercross riuscirà a crearsi una propria identità, la quale risulta tuttavia insufficiente a compensare la mancanza di un poster boy.
Se la NFL veniva associata a Joe Montana e la NBA a Michael Jordan, il supercross non aveva nomi a cui essere ricondotto. Ciò era dovuto non alla mancanza di campioni capaci di competere con gli europei, bensì al fatto che loro stessi preferissero definirsi motocrossisti e non supercrossisti nonostante gareggiassero in entrambe le discipline.
La situazione sarà destinata a cambiare con la comparsa sulla scena di Jeremy McGrath. Originario di San Francisco e con un’infanzia passata sulle bmx, McGrath porterà il supercross in una nuova dimensione, spettacolarizzandolo e rivoluzionandone lo stile grazie ad una guida innovativa e all’introduzione di elementi tipici del freestyle.
Tony Cairoli nel suo habitat naturale
Gli americani fiutano l’affare decidendo di puntare sul californiano, che maldigerisce le corse all’aperto, per diffondere il supercross al di fuori dei confini nazionali. Innumerevoli vhs raffiguranti le gesta di McGrath vengono spediti in giro per il mondo ai vari appassionati delle gare su sterrato. Nei primi anni ’90 alcune di quelle videocassette finiranno nella cameretta di una casa di Patti, piccolo comune del messinese che conta poco più di diecimila anime dove la vita scorre lenta, lontana dai ritmi americani.
Il campanello recita il nome Cairoli, e pochi anni prima – proprio nel periodo in cui McGrath era passato dalle bmx alle moto – era nato Antonio. Il padre Benedetto, da ragazzo, gareggiava in sella alla sua Vespa tra i paesini siciliani. Quando, in seguito ad una gara vinta contro un altro ragazzo questi venne a casa sua offrendogli il suo supporto per correre, il nonno pose un veto.
Da quel momento Benedetto decise che, se mai avesse avuto un figlio maschio, sarebbe diventato un pilota di motocross.
Sotto la sua supervisione il piccolo Tony gira con la minimoto ogni giorno su qualunque tipo di terreno, così da abituarsi sin da piccolo a tutte le condizioni. Quelle giornate, unite ai vhs del pilota californiano, faranno capire a Cairoli quale lavoro vorrà fare da grande. Con pochi sponsor e altrettanti soldi in tasca, inizia a viaggiare avanti e indietro per l’Italiaassieme alla famiglia per partecipare alle gare provinciali, regionali e nazionali. I kilometri da percorrere sono tanti, ma forse a Benedetto non pesano più di tanto sia perché di lavoro fa il camionista, sia perché è conscio di star garantendo a suo figlio un’opportunità che a lui era stata negata.
Un giovane Cairoli all’inseguimento del sogno della sua vita
Nei primi due anni del nuovo millennio, Tony ripaga gli sforzi profusi vincendo l’Italiano assoluto a bordo di una Honda. Ogni qualvolta tagli il traguardo in prima posizione esegue il Nac Nac, acrobazia del freestyle messa a punto da McGrath, da cui assimilerà non solo le acrobazie di fine gara ma anche una posizione sulla moto più fluida e uno stile di guida più moderno e di rottura rispetto a quello diffuso all’epoca. Fuori dai confini nazionali Tony non riesce ad andare forte quanto vorrebbe e fa fatica a qualificarsi per i gran premi del mondiale. Come una luce nel buio Claudio De Carli, fondatore dell’omonimo team, ne intravede le potenzialità nascoste.
Lo fa trasferire a Roma, dove ha sede il team, e lo prende sotto la sua ala dando una svolta alla sua carriera.
Nel 2004 fa il suo debutto in pianta stabile nel mondiale MX2 in sella ad una Yamaha, concludendo la stagione da rookie al terzo posto assoluto e vincendo il suo primo gran premio in Belgio, nella città di Namur. La particolarità del circuito risiede nel fatto che si sviluppa nel centro storico, tra gli alberi del bosco cittadino, dando la sensazione di trovarsi ad una gara di downhill piuttosto che ad una di cross. Vincere nella Montecarlo del motocross – così è soprannominata Namur – ha un sapore diverso, e vincere lì il primo gran premio della propria carriera è un privilegio riservato a pochissimi piloti.
Namur è una cattedrale del motocross
Nel 2005 vincerà senza troppi grattacapi il suo primo titolo mondiale davanti all’australiano McFarlane, il tre volte iridato Chicco Chiodi e David Philippaerts, mentre nelle due stagioni successive instaurerà una rivalità con Christophe Pourcel in cui i due non si risparmieranno, dando luogo a delle battaglie senza esclusione di colpi. Il pilota di Marsiglia riuscirà a prevalere di misura nella stagione 2006, ma avrà la peggio l’anno successivo quando incapperà in una caduta che lo lascerà parzialmente paralizzato per molti mesi.
Oltre ai successi in pista, è proprio in questo periodo che la sua vita si intreccia indissolubilmente con quella della sua futura moglie, Jill, che sarà al suo fianco per tutto il prosieguo della carriera.
I due si incontrano sulle piste da cross anche se, come dichiarato da Tony, le chiederà di uscire sulla chat di MSN usando un traduttore simultaneo data la sua poca dimestichezza con la lingua inglese. Nel 2008 il pilota siciliano vive quella che forse è la stagione peggiore della sua carriera. Oltre ad un infortunio occorso a metà stagione a causa del quale dovrà rinunciare a difendere il titolo, la sua stella viene parzialmente oscurata dal trionfo di Philippaerts – secondo italiano in mezzo secolo a riuscirci – in MX1.
La stagione è ricordata da molti come una delle più combattute della storia, una guerra di nervi in cui la costanza del pilota di terza generazione gli ha permesso di avere la meglio sul campione uscente Steve Ramon e su Sebastien Pourcel, fratello maggiore di Christophe.
Dopo essere maturato per sei stagioni nella classe cadetta Cairoli decide di passare in MX1 dove, sempre in sella alla sua Yamaha, conquista il titolo al debutto davanti a Maximilian Nagl. Il tedesco, dopo una prima metà di stagione traballante, era riuscito a mettere in fila quattro vittorie di manche e prestazioni di alto livello, che non sono tuttavia risultate sufficienti per colmare il gap in classifica con il pilota di Patti.
Al termine della stagione il team De Carli cambia costruttore, passando dalla Yamaha alla KTM.
La casa austriaca è la cenerentola della classe regina ed eccezion fatta per alcuni casi isolati non è mai riuscita ad attrarre piloti di alto livello. Cairoli decide di accettare la sfida, seguendo il suo team e scegliendo di guidare una moto di cilindrata 350, contro le 450cc di tutti gli altri piloti ed evolvendo il suo stile di guida tramite l’adozione degli scrub – tirati fuori dal cilindro del solito McGrath – e di una posizione in partenza schiacciata in avanti, così da poter sfruttare la maggiore maneggevolezza della KTM 350.
Correre con 100cc in meno pare pura follia, eppure il gioco alla fine varrà la candela dato che le stagioni successive ricorderanno vagamente la modalità principiante di un videogioco, perché che il numero 222 parta al comando o rimanga bloccato nel traffico al centro del gruppo a fine manche i distacchi che da al secondo classificato, spesso Nagl, Kevin Strijbos e Clement Desalle, sono intorno al minuto. I tre sono gli unici a dare del filo da torcere all’italiano, in particolar modo Desalle. Il giovane belga è infatti per Cairoli ciò che Dovizioso è stato per Marquez, e avrebbe probabilmente meritato più di quanto raccolto. Alla fine di un quinquennio a tratti irripetibile, le statistiche parlano di 47 gran premi vinti su 95 e 73 podi complessivi.
Nella mai doma rivalità tra l’AMA, il campionato americano, e l’MXGP, il merito di Tony Cairoli è stato quello di essersi distinto come il punto di riferimento dell’intero movimento ed aver restituito credibilità ad un campionato che, dal ritiro di Stefan Everts e Mickaël Pichon, era stato considerato poco attraente e qualitativamente inferiore rispetto a quello d’oltreoceano – con i campioni della classe cadetta dal 2005 al 2011, eccezion fatta per Cairoli stesso, emigrati in cerca di fortuna non tanto per una questione monetaria quanto per la visione nel campionato americano di una sfida più grande.
La situazione si ribalterà nel 2015, quando il 7 volte campione americano Ryan Villopoto decide di trasferirsi nel mondiale per confrontarsi con Cairoli e sancire chi tra i due, imbattuti rispettivamente da 4 e 5 anni, sia il miglior pilota del globo.
Oltre ai due pesi massimi, il parterre di contendenti al titolo comprende i soliti Desalle, Strijbos e Nagl.
La stagione rimarrà negli annali come una delle più soprendenti – e maledette – della storia: tutti e cinque i favoriti si infortuneranno uno dopo l’altro, con Villopoto costretto addirittura ad abbandonare le corse. Alla chiusura del sipario, il titolo finirà nelle mani del rookie Romain Febvre.
L’autore, presente al GP di Maggiora di quell’anno, ricorda perfettamente il momento in cui il destino del campionato era stato scritto. Durante la seconda manche, Febvre rimane vittima di una caduta in cui storta gravemente il manubrio. Data l’impossibilità di direzionare in modo consono la moto, questo tipo di danno conduce quasi sempre al ritiro forzato, ma il transalpino riesce stoicamente a tagliare il traguardo in sesta posizione tra l’incredulità del pubblico.
Cairoli versus Villopoto, scontro tra titani
L’anno successivo il titolo viene vinto da un altro rookie, lo sloveno Tim Gajser, che termina la stagione con più di cento punti di vantaggio sull’italiano, ormai trentunenne. Dato il dispendio fisico richiesto dal motocross, in molti iniziano a chiedersi se non sia arrivata l’ora di appendere gli stivali al chiodo. La carriera di un atleta viene spesso e volentieri valutata sulla base dei risultati ottenuti e nulla più, e difficilmente si prende in considerazione chi si è dovuto battere per salire sul gradino più alto del podio.
Ma a parere dell’autore ci sono vittorie che valgono di meno, altre che valgono di più e altre ancora che elevano lo sportivo ad uno status precluso ai più.
Le stagioni in cui chi hai battuto e il modo in cui l’hai fatto valgono più delle mere statistiche. Nel 2017 Tony Cairoli corre una di queste stagioni, contro l’enfant prodige Jeffrey Herlings. Nel suo ultimo ballo da protagonista, il pilota di Patti riuscirà a portare a casa il nono ed ultimo titolo dopo una stagione pressochè perfetta corsa vìs a vìs contro il compagno di marca.
Negli anni successivi, complici l’esplosione di Herlings e la consacrazione definitiva di Gajser, il pilota di Patti continuerà sporadicamente a vincere qualche Gran Premio senza però riuscire a lottare concretamente per il mondiale. All’incirca due decadi prima anche Jeremy McGrath si era trovato nella medesima situazione, con l’8 volte campione americano costretto a cedere il passo ad un giovanissimo e agguerritissimo Ricky Carmichael, preferendo il ritiro piuttosto che la sconfitta.
Nella stagione appena conclusa, forse proprio per la consapevolezza che sarebbe stata l’ultima, Cairoli ha lottato per il titolo punto a punto fino pochi gran premi dal termine, quando un infortunio lo ha costretto a saltare di GP di Sardegna. Un solo gran premio, che però gli è costato punti fondamentali nella rincorsa al decimo mondiale.
Poco male, perché Tony ha più volte dichiarato di non correre per le mere statistiche ma perché si sente ancora un pilota vero, capace di competere per la vittoria. Diciannove anni fa, mentre Cairoli debuttava nel mondiale come wildcard, l’Italia si accingeva a conquistare il suo ultimo motocross delle nazioni.
Come perfetta chiusura di un cerchio, il team tricolore composto dallo stesso Cairoli, Alessandro Lupino e Mattia Guadagnini ha riconquistato il titolo nell’anno del suo ritiro.
Il modo in cui è arrivato, di un solo punto davanti all’Olanda di Herlings dopo una penalizzazione ai danni di un Lupino reo di aver tagliato la prima curva complice un contatto in partenza, ha ripagato in primo luogo i tifosi, che per anni hanno sognato e mai avuto Dungey, Stewart, Reed, Roczen, Musquin vs Cairoli per via di episodi sfortunati nel corso delle gare e poi Cairoli stesso che, nonostante sei vittorie di manche, non era mai riuscito ad alzare quello che viene generalmente considerato il trofeo più importante della stagione.
Nel corso degli anni è probabile che, sia in Europa che in America, piloti con un talento più cristallino rispetto a quello posseduto da Cairoli si siano posizionati dietro al cancelletto di partenza, ma nessuno è stato grande tanto quanto il siciliano.
La maggior parte dei fans europei del motocross ha avuto come idoli i piloti americani. Tony Cairoli voleva diventare il Jeremy McGrath italiano, e persino l’autore sognava di essere come Ricky Carmichael. Forse oggi, per la prima volta dopo più di mezzo secolo dalla nascita del campionato mondiale, i bambini americani sogneranno di essere un pilota europeo come Antonio Cairoli. In un’epoca dove gli atleti non di rado perdono l’amore per la propria disciplina durante gli anni del professionismo, Cairoli ha conservato la scintilla negli occhi di quando, da bambino, crossava dietro casa.
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