Il DS anti-mediatico dietro ai successi del Verona.
Sarebbe piaciuto a Sergio Leone un tipo come Tony D’Amico, il giovane ds del Verona: aria da «C’era una volta in America» all’ufficio facce e all’anagrafe. Brillantina, pelle olivastra, naso aquilino, lo sguardo sveglio di chi ne ha vissute e la sa lunga ma la non ostenta, una sigaretta dopo l’altra; e poi quel nome e cognome lì, che suona da ragazzo del Bronx. Sposato con due figli, a Verona sta benissimo; conquistato dalle bellezze della città, ha però poco tempo per gustarsela, visto che lavora giorno e notte; pescarese, l’unica cosa che gli manca è il mare dell’Abruzzo e una grande abbuffata di pesce, sebbene a vederlo sia più smilzo di un’acciuga.
Lui con la Pastissada de caval che sfornano dalle cucine delle trattorie veronesi, fatica un tantino ad andarci d’accordo. E ci può stare, se il palato non l’hai allevato da quelle parti. Eppure, quando nell’estate del 2018 il presidente Setti puntò su di lui per rifondare la squadra appena retrocessa in B, la piazza non gli riservò certo carezze. Ben che gli andasse, lo dipingevano come un oggetto misterioso; sul resto, tralasciamo. In due anni, Tony ha fatto ricredere anche i più scettici: prima la promozione, e ora il Verona delle meraviglie, la vera sorpresa della serie A, sono due sue creature.
A quarant’anni, l’uomo del silenzio è il più giovane direttore sportivo del campionato, parla poco e si fa vedere ancor meno. Ama il campo, non gli studi televisivi. «Il momento più difficile di una partita? Le interviste» ebbe a dire un giorno Lionel Messi; vale anche per lui. Fumantino, quando lo scorso anno la squadra non girava e stava sotto la tempesta, perse le staffe e reagì in maniera scomposta scagliandosi contro un giornalista di una tv locale, salvo poi pentirsene, riconoscere di essere andato sopra le righe, e sancire la pace.
D’altronde calciatore lui lo è stato (ed era un osso duro), in campo mangiava l’erba e consumava i tacchetti, e di pallone operaio ne ha masticato a bocconi.
Una carriera nelle penombre della gavetta a sgomitare nelle polveri della serie C, «Una vita da mediano a recuperar palloni» fino al 2013 quando ha deciso di finirla lì a soli 33 anni e costruirsi mattone su mattone un nuovo percorso nel calcio. In Filippo Fusco, che lo conosceva bene per averlo avuto calciatore al Foggia, ha avuto il suo mentore: prima lo ha voluto con sé a Bologna e quindi, correva il 2016, a Verona dove gli ha affidato il ruolo di Capo Scouting. Lui ha studiato e appreso i segreti del mestiere con umiltà e dedizione: sempre un passo indietro fedele al rispetto e alla massima discrezione. Lo ha atteso, e il suo momento è arrivato.
Siamo nell’estate del 2018, la squadra è retrocessa in serie B, e tocca a lui ricostruirla. Dire che l’ambiente sia depresso, è uno spinto esercizio d’eufemismo: «Al Verona vogliamo solo giocatori convinti di vestire questa maglia, senza “se” e senza “ma”. Chi non è convinto, si accomodi pure» bofonchia Tony alla prima conferenza stampa in ritiro. Nessuno gli crede, e invece lui costruisce pezzo per pezzo una rosa ampia e forte; semmai la quadra non la trova nella scelta dell’allenatore, quel Fabio Grosso sul quale ha puntato per la risalita. Un saldo rapporto chiuso con un doloroso, per entrambi, distacco. Succede nelle migliori famiglie, figuriamoci nel calcio.
La serie A arriva comunque a fatica, e che fatica, all’ultimo atto nello spareggio col Cittadella con in panchina l’eroe borghese Alfredo Aglietti, nuovo idolo del popolo gialloblù. La guida tecnica per la categoria ritrovata l’ha però già individuata in Ivan Juric: tante grazie e saluti ad Aglietti tra i malumori della piazza; si riparte con le chiavi in mano al tigrotto spalatino nella diffidenza più totale. Di questi tempi, un anno fa il Verona era dato per sicuro retrocesso, di Juric si scriveva avesse già le valigie fatte. Nessuna speranza. È finita che le cassandre di professione si son dovute ingoiare un rospo bello grosso.
Il Verona è oggi la «piccola Atalanta», ed è un modello in campo e fuori. Poveri ma belli: la scorsa estate la società ha speso in tutto 5 milioni, cifra risibile al gran circo degli spendaccioni.
Il resto lo han fatto i prestiti e gli arrivi a costo zero. Dal Genoa Juric si è portato e ha rigenerato gente per la quale qualcuno già compilava i moduli per l‘incentivo alla rottamazione; D’Amico, che in casa già aveva i gioiellini Kumbulla e Zaccagni, e in B aveva preso a gennaio Faraoni dal Crotone, ha realizzato i suoi due capolavori di mercato, andando a pescare due perfetti sconosciuti come il colosso Rrahmani e il feroce saladino Amrabat. Scommessa stravinta e un bel 13 al vecchio Totocalcio.
Setti e le casse societarie gongolano. Rrahmani è stato ceduto al Napoli per 14 milioni; Amrabat alla Fiorentina per 20 più bonus; per Kumbulla il prezzo d’asta è fissato a 30 e c’è la fila. Il piccolo Verona che viaggia ai confini d’Europa è la regina del ballo al festival delle plusvalenze. D’Amico tace, se ne sta distante da microfoni, telecamere e taccuini, non fa una piega e intanto sottotraccia lavora giorno e notte al prossimo futuro che verrà. Parole zero, contano i fatti. E gli danno ragione. In un Paese che in giostra al Luna Park racconta favole e favelle, mica poco.