Meglio fallire tentando l'impresa, che non tentare affatto. Pantani ci ha provato ma, quel 18 luglio 2000, ha fallito.
Il Pantani che si presenta ai nastri di partenza del Tour de France 2000 è circondato da un alone di curiosità e diffidenza. Agli occhi di molti, sembra uno sconosciuto o un novellino. Intorno a lui è cambiato tutto, lui compreso. Il metro di paragone è il Pantani di due estati prima, quella del 1998, durante la quale lo scalatore italiano sfondò a pedate (pedalate, pardon) le porte del mito. Probabilmente ha qualche chilo in più, la pelata lo distingue ancora da tutti gli altri ma sembra donargli meno. Appesantirlo, quasi. Il giusto accozzamento di colori che portava in giro un paio di stagioni prima è stato sostituito e sommerso da un rosa che stona con le ombre che oscurano il suo viso. Anche la Grande Boucle è cambiata. Dodici mesi prima, nel 1999, Lance Armstrong ha instaurato il regime di dittatura che lo vedrà a capo della corsa a tappe francese fino al luglio 2005. E’ il più forte per distacco in salita, va bene anche a cronometro, è arrogante e diretto al punto giusto e nelle conferenze stampa non dimentica mai di precisare che lui, l’EPO, l’ha presa eccome: ma solo quando il cancro imperversava, quando il boss della sua compagna lo definiva “una mezza porzione”, quando aveva ventiquattro di ematocrito.
Dopo il fattaccio di Madonna di Campiglio, Pantani non s’era visto per un bel po’. Si fece attendere fino alle ultime tappe del Giro d’Italia 2000. Si ritrovò sull’Izoard, a dimostrazione che la casualità non esiste. Chiuse secondo di giornata dietro Lanfranchi dopo un lavoro encomiabile per Garzelli, il leader della Mercatone Uno a quella corsa rosa. Arriva al Tour con una gamba buona per accontentarsi ma non sufficiente per puntare veramente in alto. I bookmakers lo danno comunque tra i favoriti per la vittoria finale, dietro ad Armstrong ma davanti ad Ullrich, che l’anno prima saltò la Boucle conquistando però la Vuelta e la prova a cronometro dei campionati del mondo. Pantani accumula un discreto ritardo fin dalle prime tappe. La seconda settimana, però, lo vede inaspettato (fino ad un certo punto) protagonista. Sul Mont Ventoux dà vita ad un indimenticabile testa a testa con l’americano, che commette un errore da principiante: mai palesare pubblicamente la propria superiorità. Che tra i due, in quel momento, il più forte fosse Armstrong, era ovvio. Quando ammette che ha lasciato vincere Pantani, il romagnolo la prende male. Qualche giorno più tardi, a Courchevel, l’italiano gli ricorda quanto sia potente la voglia di rivalsa. Il 18 luglio è in programma la tappa numero quindici, da Courchevel a Morzine. Centonovantasei chilometri di caldo asfissiante e salite interminabili. Armstrong, come confermerà Bruyneel che lo segue dall’ammiraglia, vuole vincere quella tappa. Lo comunica ai suoi, che a loro volta cominciano a far girare la voce in gruppo. Come a dire: lo sapete, state buoni, non rendeteci tutto ancora più faticoso di quello che già è. Recita un adagio fiorentino: mai invitare il matto alle sassate.
Alla partenza, Pantani occupa la sesta posizione della classifica generale. Armstrong, saldamente in maglia gialla, è distante nove minuti. Per il podio, invece, la battaglia è ancora apertissima: Ullrich, il secondo, ha un ritardo di sette minuti e ventisei secondi dal texano, quindi un minuto e mezzo circa di vantaggio sullo scalatore romagnolo. I gran premi della montagna sul menù del giorno sono ben cinque: Col des Saisies (prima categoria, 15.1 km, pendenza media del 6,5%), Col des Aravis (seconda categoria, 8.2 km, pendenza media del 6,4%), Col de la Colombière (prima categoria, 11.8 km, pendenza media del 5.8%), Côte de Châtillon-sur-Cluses (terza categoria, 5.1 km, pendenza media del 5.4%), e infine, prima della picchiata su Morzine, il più difficile, il Joux Plane (hors catégorie, 11.8 km, pendenza media del 8.5%). Dopo appena quattro chilometri, c’è il primo colpo di scena. In un amen, vanno a terra in tre. Serrano ha la peggio: si ritira. Botero, la maglia a pois, si rialza e rientra in gruppo. Pantani, il terzo coinvolto, ha dolore ad una spalla. La tappa più lunga della sua vita avvia nel peggiore dei modi. Al chilometro cinquantatré, nei pressi di Albertville, è posizionato lo striscione del traguardo volante. Appena sorpassato, parte Totò Commesso. Dopo qualche istante, Pascual Llorente decide di aggregarsi. Ai piedi del Saisies, la coppia ha un vantaggio di un minuto e quindici sul gruppo. Non appena la strada inizia a salire, Pantani tenta di far collimare coraggio e ambizioni.
La Courchevel-Morzine è il manifesto pantaniano. Tristan Tzara, quando insieme ad altri colleghi pubblicò quello dadaista, scrisse una frase memorabile: dada non significa nulla. Come l’attacco di Pantani, insensato per chiunque altro tranne che per lui. Infatti Ullrich e Virenque tentano di seguirlo ma traccheggiano e vengono riassorbiti praticamente subito. Pantani sfonda i pedali e solca l’asfalto: come se la sofferenza fisica potesse uccidere quella mentale, come se l’unico modo per tornare a splendere fosse patire fino a sentirsi in gola reni e polmoni, ogni affondo un briciolo di cocaina che se ne va per lasciar posto alla luce della speranza, della rinascita. Pantani sa interpretare la corsa in un solo modo: attaccando ogniqualvolta la strada glielo permette. La posizione in classifica non influisce sui suoi processi mentali: non li inibisce né velocizza. Armstrong è inavvicinabile, ormai, ma forse il coraggio può annullare le distanze, quantomeno limitarle. E allora vai, Pantani, ché da gregario di Garzelli al Giro d’Italia hai emozionato e dimostrato che il cuore che t’assiste durante queste follie è veramente d’oro, ma tu non sei fatto per il gregariato. Se arrivi ultimo, devi arrivarci per un’impresa tentata e andata male, non per le troppe borracce prese e distribuite quando il traguardo è solo un miraggio. Tu sei nato per volare, Pantani. Non s’era mai visto uno che andasse così d’accordo con le salite, che sapesse sfruttarle così bene, tanto da farle sembrare sue alleate. No, Pantani, non puoi essere il gregario né di Garzelli (anche se poi ha vinto il Giro) né di nessun altro. Sono le salite, Pantani, a farti da gregarie.
Dalla partenza sono passati nemmeno settanta chilometri, al traguardo ne mancano poco meno di centotrenta. In un battito di ciglia, o di ali, Pantani svernicia Commesso e Pascual Llorente, che nella voglia di emergere e farsi notare trova le energie per tenere duro e seguire l’italiano. Il Pantani di due anni prima avrebbe fatto a pezzetti questo spagnolo, ma guardare indietro non serve: forse nemmeno guardare avanti, ma tant’è. Dopo qualche chilometro, però, il destino fa il suo corso e Llorente cede. La RAI, intanto, ha anticipato il collegamento: cambiano persino i palinsesti televisivi, quando c’è odore di leggenda. Da dietro, arrivano altri due garibaldini: Hervé e Escartín, compagno di Llorente. Hervé indossa una maglia che a Pantani non convince: quella della Polti, capitanata da Virenque. Ergo, la fuga dovranno alimentarla l’italiano e Escartín: l’altro, ligio agli ordini di scuderia, non contribuirà.
La situazione è fluida. Gli uomini di Armstrong non lasciano spazio ai fuggitivi. Hamilton e Livingston sacrificano tutto quello che hanno e il tentativo di Pantani, sul quale sono rientrati Hervé e Escartín ma non Llorente, non decolla. In cima al Saisies, Pantani transita da solo. Una montagna più tardi, sull’Aravis, è in compagnia degli altri due: mancano circa novanta chilometri all’arrivo e il vantaggio sul gruppo dei migliori è di poco superiore al minuto. Né Pantani né Escartín perdono tempo con Hervé, sta facendo la cosa giusta per la sua squadra: fosse stato un loro gregario lo avrebbero abbracciato, dal disinteresse ragionato che ci sta mettendo per far crollare il castello. Sul Colombière, il trio è ancora davanti ma le speranze sono ridotte al lumicino. In fondo alla discesa, a Cluses, la più grande azione mai concepita e tentata da Pantani viene definitivamente annullata: mancano quarantasette chilometri all’arrivo.
Pantani ci ha provato e ha fallito, merita l’onore delle armi. Compassione, però, no: e infatti, quando la corsa esplode sulla Côte de Châtillon-sur-Cluses, l’ascesa più facile delle cinque in programma, l’italiano si ritrova svuotato, scarico, spento. E si inabissa. Davanti succede di tutto. Una girandola di scatti dilania quel che rimane del gruppo, finché in testa non rimangono in quattro: Armstrong, Heras, Virenque e Ullrich. Ad un certo punto, (potenzialmente può essere qualsiasi punto di una salita perché quando non se ne ha più, la luce si spenge) il texano si inceppa: suda copiosamente, ciondola, muove le spalle nella speranza che gli diano quello che non riescono a dargli le gambe. Lo sforzo, fisico e mentale, profuso per tenere a vista l’imboscata di Pantani, presenta il conto.
La classifica non è in pericolo: potrebbe essere in pericolo, invece, l’idea che gli avversari hanno di lui. Pantani ha aperto più crepe (Courchevel prima, tra Courchevel e Morzine adesso) ma nessuno, anche nelle stagioni successive, sarà in grado di frantumare la grandezza di Armstrong. La corsa si risolve in maniera spettacolare. Il texano, ormai saltato, non forza ulteriormente e amministra; Ullrich, più avanti, insegue la coppia di testa formata da Virenque e Heras. In cima al Joux Plane, ennesimo evento da segnalare: sembra che i freni della bici del tedesco si siano usurati, un po’ per il caldo asfissiante, un po’ per tanti i chilometri in discesa affrontati a tutta nel corso della tappa. Cambia mezzo, rinunciando così alla ricerca della vittoria di giornata.
Se la giocano Virenque, abile discesista, e Heras, o almeno così pare. Quando mancano un paio di chilometri all’arrivo, Heras inizia ad accusare i crampi. Libera gambe e piedi dalla morsa dei pedali, fa ballare cosce e polpacci per ricacciare indietro il dolore. Virenque lo vede e si innervosisce, Ullrich non dovrebbe essere più un problema ma al Tour de France non si sa mai. Con mestiere e teatralità, il francese si volta e fa cenno allo spagnolo di passare avanti, di smetterla di rimanere a ruota per fare stretching. Il tempo di andare in testa, dieci secondi appena: un Heras probabilmente distratto e nervoso, cade. Arriva lungo, si appoggia alle transenne, perde l’equilibrio. Si rialza subito, ma ha rotto una ruota. E’ prima imbestialito, poi spiazzato, infine arreso. Lo passa anche Ullrich. A Morzine vince una vecchia volpe, Virenque, ma anche Hervé, che doveva fare solo una cosa e l’ha fatta alla perfezione: fa in tempo a chiudere sesto, appena dietro a Escartín e Beloki. Armstrong è ottavo a due minuti. Pantani a tredici minuti e quarantaquattro secondi, trentottesimo, tra Siboni e Velo, hanno dato lustro all’altra faccia del gregariato: se Hervé rappresenta quella più efficace, Siboni e Velo rappresentano quella più nobile.
Il giorno dopo, il 19 luglio, è in programma la sedicesima tappa, da Évian-les-Bains a Losanna. Fuori dall’Hotel Les Sapins, località Montriond, dove ha dormito la Mercatone Uno, c’è un gruppetto di giornalisti. Tra loro, Gianni Mura, che riporta le parole di Pantani una volta che esce dall’albergo. Dice che si ritira, che è stato male tutta la notte, che il giorno prima è rimasto fregato da una borraccia fredda o dai troppi zuccheri: gli si è gonfiato lo stomaco e festa finita. Fa i complimenti ad Armstrong, alla fine le polemiche danno pepe alla corsa, e poi non c’è stato quasi nulla. E’ abbastanza soddisfatto, ha dimostrato di esserci, ha vinto due belle tappe. Dà l’appuntamento alla Olimpiadi di Sidney, strano considerando che il percorso non si addiceva per niente alle sue caratteristiche. Conferma le sue intenzioni, voleva ribaltare la classifica: “Volevo far saltare il Tour, invece sono saltato io. Il prossimo anno”, afferma prima di congedarsi: “Tornerò per vincere”. Marco Pantani non avrebbe mai più partecipato ad un Tour de France, Lance Armstrong ne avrebbe vinti altri cinque. Come spesso succede, la storia col tempo (e con le sue verità e finzioni, sempre postume) avrebbe intaccato il mito, e reso giustizia allo sconfitto.