Un viaggio lungo oltre cent'anni, da quando il ciclismo era sport di popolo.
Il Tour de France, nonostante produca un giro d’affari stimato attorno ai 150 milioni di euro, è stato capace di mantenere e valorizzare la sua dimensione popolare e localistica.
Questa duplice natura, commerciale ed identitaria, era già evidente alla sua nascita. L’idea di organizzare una grande corsa a tappe per tutta la Francia era venuta nel novembre del 1902 a Henri Desgrange, direttore de “L’Auto-Vélo”, durante un pranzo con il giornalista Géo Lefèvre. Il Tour era stato pensato con lo scopo di aumentare la tiratura del giornale, in quel momento sull’orlo di una crisi economica. Eppure, sulle pagine gialle de “L’Auto”, era descritto come il tentativo di unire, rappresentare ed esaltare la Nazione. Effettivamente così sarebbe stato.
Il Tour infatti “è più di una gara, è la Francia”, come ha detto Lucien Petit-Breton, il primo ciclista a vincere due volte la Grande Boucle. La corsa ha avuto un ruolo importante nella vita e nella cultura dei francesi: nella prima parte del secolo scorso molti di loro hanno avuto l’occasione di conoscere la storia e la geografia del loro Paese soltanto attraverso le cronache e i racconti della gara. Il linguaggio, che ancora oggi è sopravvissuto, attingeva alla sfera bellica, storica ed eroica.
La bellezza del Tour de France è racchiusa nei dettagli
Il Tour simboleggiava infatti qualcosa di più grande di un evento sportivo: era la sfida che dei mortali lanciavano all’immensità del Tourmalet, all’imponenza del Galibier, all’ostilità del Mont Ventoux. Il Tour come una chanson de geste, un poema cavalleresco con i suoi eroi, i suoi martiri, i suoi sconfitti e i suoi sopravvissuti. I ciclisti erano “superuomini” con “muscoli d’acciaio”, che percorrevano in pochi giorni una distanza più grande di quella che molti francesi avrebbero percorso in tutta la loro vita.
Erano ancora “les forçats de la route”, che partivano di notte, su una bici a scatto fisso pesante più di 15 chili e con le ruote di scorta avvolte intorno alle spalle. Correvano “à tombeaux ouvert”, sulle più aspre salite e sulle più insidiose discese. Il loro viaggio univa, e continua ad unire, punti remoti della Francia riunendo milioni di persone attorno a una radio, nelle strade, nelle case, nei bar e nei giardini. Come hanno scritto i giornalisti canadesi Aili e Andres McConnon:
“Il ciclismo professionistico portava l’ancestrale eccitazione delle corse dei cavalli fuori dagli ippodromi, sulle strade, nella vita di tutti i giorni. Il pubblico accorreva alle gare, ipnotizzato dallo spettacolo di uomini che si sfidavano in sella ai loro cavalli di ferro”.
I ciclisti come degli eroi capaci di riscattare un passato di povertà. Erano infatti figli di mugnai, braccianti, muratori, minatori, boscaioli, casari. Il ciclismo, lo sport degli affamati e degli emarginati, era “il treno su cui saltare in cerca di fortuna. E pazienza se non era l’Orient Express ma una terza classe fumatori”, come ha scritto Gianni Mura, suiveur di trentatré Tour de France.
Christiane Bobet mentre incita suo marito Louison durante la salita di Mont Ventoux, Tour de France 1955
I ciclisti avevano scoperto il loro talento nella normalità e nella fatica della vita quotidiana, su strade distrutte dalle guerre e dunque impraticabili ad altri mezzi di trasporto: usavano la bici per andare a lavorare, per comprare del cibo, per ricevere notizie. Era un’epoca in cui la bicicletta, come scriveva Bruno Roghi, ex direttore della Gazzetta dello Sport, aveva un’alta considerazione:
“Compagna inseparabile del contadino, dell’operaio, del professionista, dell’impiegato, dello studente, della casalinga e delle nostre ragazze dalle guance di rosa”.
Il ciclismo era lo sport del popolo. E dal popolo veniva praticato. Per questo era tanto amato. Il Tour portava la festa, l’estate e la voglia di stare insieme anche nelle zone più povere e dimenticate della Francia. Regalava un lieto ricordo condiviso, univa la Nazione, attraversava i campi di girasole dell’Occitania e i vitigni della Borgogna, le distese di lavanda della Provenza e le scogliere della Normandia, sotto il sole dei Pirenei e il vento della Bretagna, lungo le salite delle Alpi e le pianure del centro.
Federico Ezquerra intento a sfidare le montagne francesi durante il Tour del 1934
Ma, assieme a tutto ciò, il Tour è sempre stato una questione di soldi. Fin dalla sua prima edizione non era soltanto un’occasione per vendere giornali (il 24 luglio 1933 “L’Auto” aveva registrato un incremento di 800mila copie vendute rispetto alla media del 1903), ma anche per sponsorizzare altri prodotti. Negli anni Quaranta era stata introdotta la carovana e le grandi marche avevano iniziato a pagare per accostare il loro nome alla corsa, ai ciclisti e alle loro squadre.
Di conseguenza il valore del montepremi era schizzato verso l’alto: dai 7mila franchi vinti nel 1903 da Maurice Garin si arriva – passando attraverso i 30mila di André Leducq (1932) e i 200mila di Roger Lapébie (1937) – ai due milioni vinti da Louison Bobet nel 1953. Oggi, invece, il vincitore guadagna 500mila euro.
Questa competizione, seppur abbia vissuto dei fisiologici cambiamenti, continua a unire il popolo delle province e delle campagne attraverso un percorso che termina sempre a Parigi. Il Tour infatti è anche la glorificazione della Capitale, circondata, elevata e difesa dai confini francesi. È solo in mezzo allo sfarzo di Parigi e dei Campi Elisi, dove il campione viene celebrato come un Re su un cavallo bianco, che può terminare la sua regia perfetta.